Le recenti
lezioni suppletive del seggio alla Camera lasciato libero dal neo eletto
Sindaco di Roma on.le Gualtieri ha raggiunto un record di astensione elettorale: ha votato poco più di un decimo
degli elettori (l’11% e frazioni). Dei votanti, un po’ meno del 60% ha plebiscitato (per così dire) la eletta
on.le D’Elia (del PD). La quale ha occupato un seggio forte del consenso di
poco più del 6% degli elettori.
Il tutto pone
dei problemi che in una democrazia – anzi in ogni regime politico – sono
considerati primari se non decisivi. Non ripetiamo i nomi di coloro che se ne sono occupati, ma solo i
profili più importanti.
In primo luogo il
rapporto tra potere (dei governanti) e consenso (dei governati): perché un
regime politico sia vitale (nel senso
anche della durata) occorre che
potere e consenso convergano, di guisa che il comando della classe dirigente
trovi la minore resistenza possibile: la quale è tale se i governati credono al
diritto a governare nonché all’utilità del potere dei governanti. Se tale
convinzione non c’è o è scarsa, il potere si esercita essenzialmente attraverso
la coazione – esercitata dall’apparato (Donoso Cortès).
Ma un potere del
genere è, di norma, transeunte (come, ad esempio, quello dell’occupazione
militare) e di breve durata. Se riesce ad essere più duraturo è un potere
dispotico, cioè fondato (in prevalenza) sulla paura (Montesquieu). Quando si leggono
disposizioni accompagnate da sanzioni spropositate, si può star sicuri che, quanto
è più eccessiva la sanzione irroganda tanto più è diffusa la disobbedienza al
governo.
Resta il fatto
che un regime basato in gran parte sulla coazione è, concettualmente l’inverso
della funzione (e del pregio) della democrazia, quello di far “coincidere”
comando e obbedienza, onde la volontà generale (cioè del tutto) sia “posta da tutti per applicarsi a tutti”
(Rousseau).
In secondo luogo
ogni regime politico si fonda sull’integrazione.
Questo è il processo d’unificazione sociale che crea una polis armoniosa “basata su un ordine sentito come tale dai suoi
membri” (Duverger). Per realizzarla occorre un’unione reale di volontà (Smend);
a tale unione concorrono dei fattori d’integrazione (personale, funzionale o
materiale). Non esiste un gruppo sociale che “non implichi partecipanti attivi,
dirigenti e passivi”. In particolare l’integrazione funzionale si realizza in processi “il cui senso è una sintesi
sociale” tra i quali “elezioni e votazioni… voto e principio di maggioranza
sono forme d’integrazione più semplici ed originarie” (Smend), perché uno dei
presupposti dell’effetto integrativo è “la partecipazione interna di tutti ad
essa” (cioè alla vita istituzionale). In caso di elezioni, all’elettorato
attivo il quale tra i fattori d’integrazione funzionale riveste un ruolo
primario (anche se non esclusivo). Ma che succede se degli integrandi
va a votare un’esigue minoranza?
Sono possibili
due soluzioni.
Secondo la
prima, condivisa attualmente dalla grande maggioranza della comunicazione mainstream, non succede nulla di
rilevante.
Il
rappresentante eletto, anche se alle elezioni hanno partecipato tre elettori ed
abbia riportato due voti, è comunque legalmente
abilitato a legiferare, e governare lato
sensu. Tesi dovuta al combinarsi di due ragioni, concorrenti, ancorché in
misura differente: la prima che l’elezione è avvenuta secondo le regole legali
ed è quindi legale; la seconda che
comunque, un governo è necessario e non ci si può “prendere una vacanza”. È
inutile dire che la prima è quella preferita dalla maggioranza degli intellos di centrosinistra.
L’altra,
realista, è che tutti i regimi politici conoscono una parabola, al termine
della quale vengono sostituiti da un regime diverso. E tale sostituzione, quasi
sempre non avviene rispettando le forme legali, stabilite dal regime
senescente. Non è nelle possibilità umane creare una legalità eterna o comunque
durevole per secoli e millenni, come dimostra la storia. Della quale qualche
decennio fa era annunciata la fine, che la storia si è subito premurata di
smentire.
Ancor più se
tale legalità si basa su presupposti, attori, situazioni del tutto diverse da
quelle del suo nascere. Non è l’illegalità – o la non legalità – che fa si che
un regime sia vitale (e quindi
efficace):è, come scriveva Smend, che, anche in uno Stato parlamentare, il
popolo ha “una sua esistenza come popolo
politico, come unione sovrana di volontà… in una sintesi politica in cui
soltanto giunga sempre di nuovo ad esistere in generale come realtà statale”.
Esistenza,
popolo, politico, sintesi, unione sovrana di volontà: già la terminologia usata
dal giurista tedesco è idonea a suscitare la consueta raffica di anatemi ed
esorcismi del pensiero mainstream.
Popolo? Sovrano?
esistenza? Sintesi? È l’armamentario lessicale e concettuale dei sovranisti
odierni da Orban a Salvini, passando per la Meloni; e quindi da esorcizzare. Inutilmente
se non per taluni (molto pochi), perché le trasformazioni sociali avvengono con
o senza legalità: è il fatto che crea il diritto. Per cui l’alternativa non è –
sul piano fattuale – tra legalità e non legalità, ma tra cicli politici:
prolungare il vecchio significa soltanto allungare la decadenza. E allontanare
così l’aurora di un nuovo ciclo. Se in Italia assistiamo da circa 30 anni alla
progressiva riduzione del numero dei votanti, la conseguenza non è di intonare
peana se un deputato è eletto col 6% dei voti, ma solo sperare che l’ultimo
degli eletti si premuri di spegnere la luce. In tempo di caro-bollette farebbe
qualcosa di utile.
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