AVEVA RAGIONE MARX?
Capita di leggere
che, a seguito del crollo del comunismo e del crescere del turbo-capitalismo
trionfante, il divario tra ricchi e poveri, in particolare nelle democrazie
“occidentali”, è aumentato: a meno ricchissimi corrispondono molti più poveri.
Ciò sembra una conferma tardiva della “legge” dell’immiserimento crescente,
connaturale al modo di produzione capitalistico, che Marx formula nel Capitale[1].
Come è noto tale
tesi era successivamente contestata da Eduard Bernstein, il quale fece notare
che le predizioni di Marx (e ancora più, dei marxisti) sull’imminente e
inevitabile crollo del capitalismo non solo non si erano realizzate, ma vi
erano prove evidenti che negli ultimi decenni le condizioni della classe
operaia erano notevolmente migliorate sul piano (politico ed) economico.
Al contrario
dell’immiserimento di masse sempre più numerose il capitalismo aveva arricchito
un numero sempre maggiore di individui. Da qui la necessità non di abbattere,
ma di riformare il sistema. Le tesi di Bernstein, come noto, influenzarono e
furono seguite dalla prassi della maggior parte dei partiti della Seconda
Internazionale.
Il teorico
socialista basava le proprie tesi sull’evoluzione del capitalismo ottocentesco:
la concentrazione delle aziende non aveva provocato una analoga concentrazione
del capitale, ma anzi aumentava il numero dei capitalisti, cioè degli azionisti
dell’impresa, dato che queste erano gestite – almeno le più grandi – quasi
tutte da società per azioni, così sempre più diffondendo il capitale. L’accrescimento della ricchezza aveva,
contrariamente alla tesi di Marx, non diminuito il numero dei magnati, ma
aumentato quello dei capitalisti[2].
La correlativa,
annunciata, scomparsa dei ceti medi non si era realizzata. A fronte di un
incremento della popolazione di un terzo – nei paesi industrialmente più
avanzati all’epoca – i ceti medi erano cresciuti di circa tre volte[3].
Le stesse imprese, peraltro non erano
spesso facilmente concentrabili per
cui quelle di piccola o media dimensione aumentavano a dispetto delle
previsioni del filosofo di Treviri.
Per cui Bernstein
ne concludeva che lungi dal provocare la polarizzazione della società in due
campi: capitalisti – pochissimi - e proletari - quasi tutti - destinati alla
lotta (di classe e politica), la situazione reale che si configurava non era
riconducibile ad uno scenario pre-rivoluzionario. Né era possibile prevedere il
crollo del sistema capitalistico[4]
Col XX secolo,
almeno fino al collasso del comunismo, la tesi di Bernstein, anche grazie
all’influenza del movimento socialista, al “compromesso fordista”, allo Stato
sociale, era confortata. Invece dell’incremento dei sempre più poveri e della
riduzione degli straricchi, a crescere erano le posizioni sociali intermedie.
Col turbo-capitalismo
o, come molti preferiscono chiamarlo, col neo-liberismo globalizzatore, pare
sia cambiato tutto. La profezia di Marx riprende vigore e Bernstein va in
soffitta. È il caso di rifletterci un po’.
2. Prima di Marx,
un acuto pensatore come de Bonald aveva intuito quanto poteva succedere.
Scriveva, infatti, a proposito della funzione della nobiltà e della borghesia “È
una contraddizione di cui è toccato a noi dare l’esempio, veder gli stessi
uomini che chiedono a gran voce lo spezzettamento illimitato della proprietà
immobiliare, favorire con tutti i mezzi la concentrazione senza freni della
proprietà mobiliare o dei capitali. L’appropriazione
di terre ha per forza termine. Quella del capitale mobiliare non ce l’ha, e lo
stesso affarista può far commercio di tutto il mondo” (il corsivo è mio)[5].
Quindi
l’alternativa che poneva il pensatore francese è netta: il proprietario di beni
immobiliari trova nella natura delle cose stesse e nelle condizioni (culturali
e) sociali dei limiti; quello di beni
mobili, no. Sul piano semantico se ci sono limiti
(per natura o per volontà) l’accrescimento non può essere, ovviamente, illimitato. La possibilità di
appropriazione quindi del secondo è enormemente superiore a quella del primo. E
così il potere che ne consegue. Aggiungeva de Bonald di non voler valutare il patriziato auspicato dalla de Staël “come
istituzione politica, in relazione cioè alla forza e alla stabilità dello
Stato; ma sotto il profilo della libertà
e dell’eguaglianza, che è quello che la signora de Staël considera, e per
cui la preferisce alle antiche istituzioni della monarchia francese”[6].
Anche Fichte
notava che, ordinariamente, sono le costituzioni politiche a separare gli
uomini [7]
e che gli Stati moderni sono le “parti staccate di un tutto anteriore” (le società
feudale)[8].
“L’Europa cristiana era come un tutto unico, doveva perciò il commercio degli
Europei tra loro esser libero. L’applicazione allo stato presente delle cose è
facile a farsi. Se tutta l’Europa cristiana con tutte le colonie aggiunte e le
piazze commerciali in altre parti del mondo, è ancora un tutto unico, il
commercio tra le varie parti deve restar libero come era una volta. Ma se, al
contrario, essa è divisa in stati soggetti a governi diversi, essa deve
parimenti esser divisa in più stati commerciali rispettivamente chiusi”. E ne
concludeva “Tutti gli ordinamenti che permettono o suppongono il commercio
immediato di un cittadino con quello di altro stato … sono avanzi e risultati
di una costituzione da lungo tempo distrutta, elementi di un mondo passato, che
più non convengono al mondo nostro”[9].
Con questo il
filosofo constatava un fatto (la divisione
in più Stati) e una necessità (ed auspicio): che la politica dovesse prevalere
sull’economia. Ed è questa la sostanza della concezione di Fichte[10].
Come scrive Fusaro
la concettualizzazione dello Stato commerciale chiuso di Fichte è “coerente
reazione all’egemonia dell’utile (economico) e alla correlata soppressione
dello spazio veritativo della filosofia…. Per Fichte, fedele ai principi della
Rivoluzione e, ipso facto, nemico del
mondo che ne è scaturito, si tratta di contrastare l’egemonia dell’utile e
dell’egoismo sfrenato che ad esso si accompagna”[11].
È inutile
ricordare che tra i più accaniti sostenitori della distinzione tra economia
cosmopolitica (attribuita a A. Smith, J. B. Say) e economia politica (o
nazionale) si trova Friedrich List[12].
La concezione del
quale è ispirata alla prevalenza del bene comune delle comunità politiche su
quello dell’economia globale nel suo complesso.
3. Se è vero che
le economie delle società più sviluppate hanno sofferto della globalizzazione,
già prima della crisi, è anche vero che, di converso, quelle dei paesi
emergenti ne hanno beneficiato.
Da una statistica
- graduatoria degli Stati in base dell’incremento del PIL nel 2017 tra i primi
venti (per percentuale d’incremento nell’anno) non c’è un solo paese
“sviluppato”, ma ovviamente ci sono India e Cina. A parte l’Islanda e la
Romania (comunque al 25° e 26° posto), i primi paesi “sviluppati” li si trova
dopo il 55° posto in classifica. Tutti i primi 50, tranne Islanda e Romania,
sono “paesi in via di sviluppo”. E se si va a vedere le altre annate, a partire
dal crollo del comunismo, la tendenza è quella.
La conclusione è
che, se all’economia globale la globalizzazione ha fatto bene, alle economie
nazionali talvolta ha arrecato modesti vantaggi, talaltra no. Onde a ragionare
secondo il criterio di List (e non solo), occorre conformare la politica
economica all’esigenza del benessere (e alla potenza) della comunità nazionale;
“mercati”, intesi nel senso corrente, non sono sempre sinonimo di ricchezza
crescente. Scriveva List che l’economia cosmopolitica (quella di Smith)
“guardando all’umanità e all’individuo, aveva dimenticato la nazione. Mi
convinsi di due cose: la prima che era per due nazioni, entrambe sviluppate
culturalmente, la libera concorrenza poteva essere benefica soltanto se ambedue
si fossero trovate allo stesso grado di sviluppo industriale; la seconda che
una nazione, arretrata nel campo industriale,
commerciale e della navigazione, ammesso che avesse i mezzi
intellettuali e naturali per sviluppare questi rami, dovrebbe cercare da sola
di mettersi in grado di sostenere la libera concorrenza con le altre più
progredite. In breve: trovai la differenza tra l’economia cosmopolitica e
l’economia politica”[13].
Ovviamente i tempi
sono mutati dall’epoca di List, Bonald e Fichte, ma le esigenze alla base dalle
concezioni dei tre – pur nelle differenze determinate dai diversi “campi” da
questi esplorati - sono uguali: e che la politica e il bene
comune della comunità che questa deve perseguire – deve prevalere sul bene “globale”;
e che sia funzione del potere politico quanto meno, introdurre dei correttivi –
dei temperamenti – che concilino gli
interessi nazionali con quelli internazionali:
le nazioni con l’umanità. La nazione
non è l’umanità; i diritti dell’uomo non sono quelli del cittadino; il modo
d’esistenza delle comunità è il proprium
di ciascuna con i valori cui si ispira (e non è, in larga parte, misurabile).
4. Tornando alla
profezia di Marx, questa è stata falsificata perché comunque l’immiserimento
crescente non si è verificato. Tuttavia a ridimensionarla, non è totalmente
errata. Ciò per due ragioni: la prima perché contribuisce a una valutazione
(realistica); non è detto che ad un’economia (senza limiti e) globalizzata
corrisponda una ricchezza crescente per tutti (o quasi tutti). Come in altri
tempi la prosperità della Gran Bretagna era (anche) l’altra faccia della
miseria dei coolies indiani e cinesi,
così oggigiorno al crescente benessere di certi popoli corrisponde un diminuito
(o stagnante) benessere di altri. La seconda è che la politica ha corretto
l’economia, frenandone (spesso ma non sempre) le conseguenze meno desiderabili.
In fondo allo straordinario sviluppo economico del XX secolo ha contribuito in
modo determinante il compromesso fordista e le (varie) “terze vie” con le quali
si è cercato – riuscendoci – non solo di relativizzare e neutralizzare
politicamente il conflitto borghesia/proletariato ma anche di aumentare il
benessere e diffonderlo tra masse sempre più numerose. Così integrandole nello
“stato sociale”, ovvero nel “secondo tempo” delle democrazie liberali.
Infine appare
teoricamente – e praticamente, almeno in parte, realizzato – che la ricchezza
mobiliare, in particolare quella (dell’intermediazione) finanziaria e
commerciale può crescere in misura enormemente superiore sia a quella del
settore primario che, ancorché meno intensamente, anche a quella
dell’imprenditoria industriale. E le ragioni per limitare l’accrescimento di
potere – e anche la diminuzione di libertà – di quella e i pericoli che
comporta per lo Stato borghese – e per i principi di libertà ed uguaglianza,
sono evidenti.
Teodoro
Klitsche de la Grange
[1] “Con la diminuzione costante del
numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi
di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria,
dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la
ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata,
unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione
capitalistico” Marx, il capitale,
Libro I, “Tendenza storica dell’accumulazione capitalistica”
[2] v. “La forma della società per
azioni agisce, in larga misura, in senso contrario alla tendenza alla
centralizzazione dei capitali attraverso la centralizzazione delle aziende.
Essa permette un vasto frazionamento di capitali già concentrati, e rende
superflua l’appropriazione di capitali da parte di singoli magnati allo scopo
di concentrare le imprese industriali”. I
presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, (trad. it.
Bari 1974 p. 87.
[3] V. per i dati precisi Bernstein op. cit. p. 89; per cui concludeva “È
dunque assolutamente falso ritenere che l’attuale sviluppo indichi una relativa
o addirittura assoluta diminuzione del
numero dei possidenti. Il numero dei possidenti aumenta non «più o meno», ma
semplicemente più, ossia in senso assoluto e in senso relativo” (il
corsivo è mio).
[4] V. “Se la società fosse costituita
o si fosse sviluppata secondo le ipotesi tradizionali della dottrina
socialista, il crollo economico sarebbe soltanto una questione di breve
periodo. Ma come vediamo non è così. Ben lungi dall’essersi semplificata
rispetto a quella precdente, la struttura della società si è in larga misura
graduata e differenziata, sia per quanto concerne il livello dei redditi sia
per quanto concerne le attività professionali” (op. cit. p. 91.
[5] E proseguiva “Ma il lusso segue
dappresso la ricchezza, il mercante arricchito poco pressato a vendere, alza il
prezzo della propria merce, e costringe così il consumatore a pagare i lussi
della Signora e del Signore. Questa è una delle ragioni del
rialzo dei prezzi delle derrate in Inghilterra, nei Paesi Bassi e anche in
Francia, e dovunque il commercio non ha altro fine che il commercio e dove i
milioni chiamano e producono altri milioni.
I grandi
patrimoni immobiliari fanno inclinare lo Stato verso l’aristocrazia, ma le
grandi ricchezze mobiliari lo portano alla democrazia; e gli arricchiti,
divenuti padroni dello stato, comprano il potere a buon mercato da coloro cui
vendono assai cari zucchero e caffè” V. Observations
sur l’ouvrage de M.me la Barone de Staël …” trad. it. La Costituzione come esistenza, Roma 1985, pp. 43 - 44.
[6] V. op. loc. cit. p. 45.
[7] v. Lo Stato secondo ragione, trad. it. Milano 1909 p. 68.
[8 e prosegue “Durante l’unità
dell’Europa cristiana si è formato, tra le altre cose, anche il sistema commerciale,
che dura, almeno ne’ suoi tratti fondamentali, fino ad oggi” op. cit., p. 69.
[9] Op. cit. p.71
[10] “… è in questo: che lo stato si chiuda completamente ad ogni
commercio coll’estero, e formi d’ora in poi un corpo commerciale così
separato, come finora ha formato un separato corpo giuridico e politico”, op. cit. p. 98.
[11] e, poco dopo, afferma “in un’epoca
di “compiuta peccaminosità” e di egoismo universale, diventa necessario
l’intervento massiccio di uno Stato “commerciale chiuso” che sappia opporsi al
cosmopolitismo utilitaristico del mercato e al codice individualistico su cui
esso si regge, per far valere l’istanza morale di un comunitarismo solidale
nell’epoca della “compiuta peccaminosità” v. L’aporia dello Stato in Fichte, GCSI – Anno 3, numero 5, pp.
122-123.
[12] Il quale, tra l’altro, riteneva
che “Tutti gli esempi che la storia ci può presentare dimostrano che l’unione politica ha preceduto l’unione commerciale.
Non si conosce nessun esempio dove sia avvenuto il contrario. Ci sono però dei
motivi molto forti, e secondo la nostra opinione incontestabili, per far
presumere che, nelle attuali condizioni mondiali, la libertà commerciale
universale non porterebbe ad una repubblica universale, ma alla universale
soggezione delle nazioni meno progredite alla supremazia della potenza
preponderante nell’industria, nel commercio e nella navigazione… l’economia nazionale si presenta come quella
scienza che, tenendo conto degli interessi esistenti e delle condizioni
particolari delle nazioni, insegna in che modo ogni singola nazione possa
essere elevata a quel grado di sviluppo economico giunta al quale l’unione con
le altre nazioni ugualmente progredite, - e quindi la libertà di commercio – le
risulterà possibile e vantaggiosa. La scuola, però, ha confuso fra di loro le
due idee; ha commesso il grave errore di giudicare le condizioni delle nazioni
secondo i principi cosmopolitici e di disconoscere, per ragioni politiche, la
tendenza cosmopolitica delle forze produttive”, v. F. List Il sistema nazionale di economia politica 8° cura di G. Mori) trad.
it. Milano 1972
[13] Op. cit., Prefazione, p. 4.
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