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Questo è il terzo
libro che gli autori dedicano alle vicende economiche del recente passato; tratta
delle privatizzazioni che hanno connotato le politiche economiche di molti
paesi occidentali, con riguardo – quasi esclusivo – a quelle italiane. Il
giudizio è negativo; parte della tragedia del ponte Morandi, che rivelò
all’opinione pubblica come la vendita di Autostrade abbia generato enormi
profitti per l’acquirente-concessionario, dovuti – anche – ai risparmi sulla
manutenzione delle opere.
Analizzando buona
parte delle privatizzazioni la costante principale che ne ricava è che sono
state assai profittevoli per gli acquirenti, ma, di conseguenza, assai poco per
il venditore (lo Stato italiano nelle sue varie articolazioni).
Le notizie che si scorrono
nella lettura sono in larga misura già note: il pregio del libro è averle organizzate
in un tutto organico che ne rende manifesta la logica generale come i rapporti
tra i protagonisti pubblici (creditori) e privati (acquirenti).
Curiosamente in Italia il maggior
privatizzatore è stato il centro-sinistra (altrove sono stati i partiti di
destra).
Il motivo
esternato di tante (e imponenti) svendite era non tanto d’opportunità economica,
ma ideologica: si voleva ridurre la presenza pubblica nell’economia perché si
riteneva la mano invisibile del
mercato migliore e più razionale produttrice di ricchezza.
Solo che a
riprendere la teoria di un economista come Friederich List ciò che è valido per
l’economia globale, può non esserlo per l’economia nazionale, ossia per le
comunità umane organizzate in Stati; del pari ciò che è economicamente
vantaggioso può non esserlo per l’interesse nazionale (il bonum commune) che è il fine della politica.
É il caso di
ricordare che è legittimo e prevedibile che il privato operi per il proprio
profitto, cioè l’interesse individuale
(anzi e proprio questo il presupposto della “mano invisibile”); ma, del pari –
è – o meglio dovrebbe essere – che il
pubblico operi per quello pubblico. La conseguenza è che nella generalità delle
situazioni c’è la necessità di bilanciare (e regolare) interesse pubblico e
interessi privati, senza enfatizzare l’ “appartenenza” al settore d’attività. L’esempio di “scuola” è quello del monopolista:
il quale di solito manovrando per il proprio interesse privato spesso danneggia
quello pubblico, quello dei consumatori e, ovviamente la stessa dinamica
concorrenziale. Non è detto quindi che, specie nell’assenza o
nell’insufficienza di una regolazione appropriata e di procedure trasparenti,
la mano invisibile non finisca per impinguare
sempre gli stessi portafogli. Proprio quello che purtroppo è spesso capitato
nelle privatizzazioni-maccheroni realizzate in Italia.
Queste sono state
frequentemente caratterizzate da condizioni di grande favore per gli
acquirenti. Gli autori, pagina dopo pagina mostrano che i corrispettivi di cessione
erano modesti rispetto al valore delle aziende e dei beni ceduti; che spesso
quanto comprato è stato rivenduto a terzi a prezzi enormemente superiori; che
privatizzatori pubblici e acquirenti privati erano legati da interessi,
frequentazioni, affari; frequentemente lo erano quanto meno i primi con i
consulenti che avrebbero dovuto assisterli (a pagamento) nelle procedure.
Inoltre “Era il 1992. Il cartello finanziario internazionale aveva messo gli
occhi e le mani sul nostro Paese con la complicità e la sudditanza di una nuova
classe politica imposta dal cartello stesso. Il suo compito era quello di
cedere le banche e i gioielli di Stato italiani ai potentati finanziari
internazionali anche attraverso il filtro di imprenditori nostrani”.
La stessa
“tangentopoli” è quindi vista dagli autori in quest’ottica: occorreva delegittimare
e detronizzare la vecchia classe dirigente della prima repubblica, meno incline
a realizzare il piano. Manovra reiterata nel 2011, col governo Monti, dato che
Berlusconi era meno disponibile a favorire gli interessi stranieri a scapito di
quello nazionale, come fatto dal “governo tecnico” xenodipendente.
Nel complesso un
libro interessante, documentato e che si spera, possa contribuire a un common sense del popolo italiano più
consapevole dei propri interessi e meno influenzato dalle derivazioni del terzo millennio. Ossia dell’occultamento di
interessi sotto la copertura di obiettivi esternati che coniugano idola a carattere economico
(tecnocrazia, progresso) con idola a carattere morale-legalitario.
Quelli, come diceva Craxi, dei moralisti “un tanto al chilo”.
Teodoro
Klitsche de la Grange
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