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Come scrive De
Benoist nella prefazione di quest’opera di Rougier “In realtà, il punto di
vista di Rougier può riassumersi nel modo seguente: lungi dall’essere fondata
sulla ragione, come credevano i filosofi del XVIII secolo e, dopo di loro, i
rivoluzionari del 1789, l’ideologia democratica si basa su una mistica che impregna i suoi principi
essenziali. Il nucleo di questa mistica è il “dogma dell’uguaglianza naturale”
… Questo dogma è stato poi diffuso e ridefinito dalla Scolastica cristiana, nel
protestantesimo calvinista e dalla
filosofia degli Illuministi. Ora, per Louis Rougier, l’egualitarismo è una
“semplice utopia”. Secondo Rougier “è il primato della ragione oggettiva, intesa in modo diverso ma ugualmente sostenuta
dalla teologia cristiana e dai filosofi “illuminati”, che permette di stabilire
tra questi un legame decisivo”: questo, spiega Rougier, perché il razionalismo
“proclama l’uguaglianza naturale degli uomini e l’identità della ragione di
ognuno di essi perché le verità razionali vengono comprese da tutti allo stesso
modo e perché i caratteri essenziali che caratterizzano una specie non
comportano diversi gradi di perfezione”. Tuttavia aggiunge “Le scienze storiche
ci rivelano che le razze, i popoli, le collettività, le classi sociali, i corpi
professionali hanno una mentalità distinta, una psicologia che è loro propria,
un’idiosincrasia che impedisce di confonderli tra loro. La disuguaglianza è
sempre prevista dalla natura”. Come Tocqueville (per l’aspetto istituzionale)
il filosofo fracese pone l’accento (per il pensiero politico e non solo) non
sulla rottura tra rivoluzione e ancien
régime, ma sulla continuità:
“Questa continuità, sottolinea Rougier, è evidente soprattutto nel caso della
nozione di uguaglianza, introdotta
nel pensiero europeo dal cristianesimo con il tema puramente metafisico di una
relazione egualitaria tra tutte le anime e Dio, poi ripresa dai filosofi del
XVIII secolo che, strappandola dalla sfera teologica, si sono sforzati di
inserirla all’interno della sfera “materiale”, profana, del mondo civile e
politico”. Ma dato che la disuguaglianza è nella realtà, l’aspirazione
all’uguaglianza è una mistica: una
credenza non fondata sulla realtà ma su convinzioni (a sfondo non-razionale).
In questo Rougier è debitore di due pensatori: Vilfredo Pareto e Gustave Le
Bon, ambedue convinti del ruolo delle azioni irrazionali nella condotta umana.
E anche di Guglielmo Ferrero, sia per l’importanza della legittimità (decisiva
per la conservazione delle comunità umane), che non è spiegabile razionalmente
(o del tutto razionalmente, Hobbes docet);
sia per la distinzione tra società qualitative
(antichità e Medioevo) e civiltà quantitative
(il cui prototipo sono gli USA).
Il libro è
impreziosito da un saggio di Giovanni Sessa su “Rougier e il problema della
democrazia” il quale scrive, “Il suo pensiero ci conduce al centro del
dibattito politologico contemporaneo impegnato a discutere attorno alla crisi della democrazia. A differenza di
Rougier, riteniamo che ad essere in crisi non sia tanto la democrazia in sé, la
democrazia nata in Grecia, quanto piuttosto il suo modello liberale”. Questo
perché il sistema prevalente di democrazia, è “quello rappresentativo, vale a dire
liberale, che ha subito, negli ultimi trent’anni, una radicale involuzione in
senso totalitario … La democrazia rappresentativa è oggi segnata dal tratto totalitario: il popolo, suo soggetto
politico, è stato posto in una condizione di sudditanza e minorità”.
Tale sviluppo ha
avuto, sostiene Sessa “un iter
parallelo a quello della post-modernità…Per
la qualcosa, sarà bene affrontare il discorso relativo alla crisi della
democrazia, assieme all’esegesi della post-modernità, al fine di rintracciare
possibili vie d’uscita dall’una e dall’altra”.
Il tutto è dovuto
al fatto che nello Stato-Leviatano moderno, i cittadini delegano ai
rappresentanti l’esercizio della sovranità (di cui sono così spogliati).
Nella (fase)
post-moderna il potere reale è stato scisso dal potere politico. Le oligarchie
finanziarie “gestiscono i flussi finanziari in una situazione, sotto il profilo
politico, paradossale: lo ‘statalismo senza Stato’. Fluidità e breve durata
connotano la nuova ‘economia dell’esperienza’ che ha rinunciato a progetti a
lunga scadenza. La precarietà si è incisa, pertanto, come segno tangibile,
nelle vite di noi tutti. L’individuo post-moderno è solo perché è uomo senza Tradizione, senza passato e
memoria, proiettato in un presente deprivato di profondità esistenziale e
ridotto al consumo…Pertanto crisi della democrazia e della modernità, si
intrecciano ad una crisi esistenziale e valoriale senza precedenti. Le pagine
di Rougier, pur essendo attualissime, pensiamo debbano essere aggiornate alla
situazione contemporanea”.
Secondo Sessa
“L’alternativa possibile all’oligarchia finanziaria e transnazionale della governance, può davvero essere ravvisata
nel concetto greco di democrazia, nella democrazia organica, centrata sulla
sovranità popolare e sulle identità etno-culturali”; e solo “il pensiero di Tradizione, può indirizzare
gli uomini contemporanei a recuperare il loro ‘da dove’, in funzione del loro
‘per dove’. Solo la Tradizione è in grado di svolgere il ruolo alchemico del solve et coagula nei confronti della pulsione populista e di trasmutarla in visione comunitaria”.
In altre parole
“uno vale uno” non basta: come scriveva già Montesquieu (ripreso nel XX secolo
da Forsthoff) per far funzionare la democrazia occorre la virtù (carattere qualitativo per eccellenza).
Rougier scrive che
la mistica democratica non regge al confronto col dato reale: “Per far uso della sua autorità il popolo
sovrano deve procedere ad una organizzazione del potere. Dato che in un grande
Stato questo potere il popolo non può esercitarlo direttamente, esso lo delega
ai suoi rappresentanti e così si afferma ciò che il Michels ha chiamato la
legge ferrea delle oligarchie”.
Peraltro “regimi democratici tendono irresistibilmente
ad accrescere le prerogative dello Stato, o, per meglio dire, di coloro che lo
rappresentano, a detrimento delle libertà individuali”, con la conseguenza
che “I cittadini verranno sempre più
amministrati e per via della complessità delle funzioni dello Stato essi
saranno sempre meno in grado di controllare… Come secondo la leggenda
dell'apprendista stregone, l’individuo, dopo che sono stati fatti scorrere
fiumi di sangue per liberarlo, diverrà l’uomo-servo di una nuova feudalità, di
una feudalità più oppressiva di ogni altra perché anonima: della burocrazia
statale”. Come scriveva Max Weber ed è nel DNA del pensiero borghese,
almeno dall’epoca delle rivoluzioni francese ed americana.
Un libro
interessante, anche per gli sviluppi che profila. Una considerazione
conclusiva. Il concetto di rappresentanza, come mostrato da Carl Schmitt, non è
limitato all’ordinamento borghese; in realtà è un principio di forma politica,
il quale, insieme all’opposto, quello di identità, in varie conformazioni e
rapporti modella la concreta forma dell’istituzione politica. Al rapporto
necessario ha i due principi non sfugge alcun regime: né la monarchia, né la
dittatura, l’aristocrazia, né altra.
Costruire qualcosa
di nuovo, una democrazia organica e/o qualitativa non potrà prescindere da
questa necessità fattuale.
Teodoro Klitsche de la Grange