giovedì 28 marzo 2013

Emmanuel Sieyes: Nazione e rappresentanza. Discorso pronunciato all’Assemblea costituente il 7 settembre 1789

In tempi di discussione sul mandato parlamentare (libero o vincolato) ci pare interessante pubblicare questo discorso di Emmanuel Sieyès, perché costituisce una chiara e razionale difesa del mandato libero, che oggi dev’essere difeso non dalle pretese delle assemblee di baliaggio, ma da quelle – ben più temibili – dei poteri forti, delle potestates indirectae, delle lobby, delle consorterie. Il fatto che si sia iniziato a indagare e compiere atti di polizia giudiziaria nei confronti di parlamentari per così dire “pellegrini” è un fatto preoccupante: la conseguenza che ciò presuppone è che il parlamentare sarebbe gravato di un obbligo giuridico (sanzionato penalmente) alla disciplina del partito, anche se fatto valere in forma indiretta. Va da se che certi episodi di “migrazione” lasciano sconcertati e sono per lo più  politicamente condannabili.

Ma a giudicarli e condannarli, o valutarne coerenza ed opportunità non è il partito o il Giudice, ma il popolo sovrano, rappresentato nel corpo elettorale; e il controllo di questo – come sostiene Sieyès - è essenzialmente sulle persone e non sui singoli atti (degli eletti). Se così non fosse verrebbe meno sia la concezione della rappresentanza moderna (dell’unità politica e non d’interessi settoriali) sia il circuito “virtuoso” tra volontà degli elettori e degli eletti, che è il sale del principio democratico di legittimità.

Buona lettura
Teodoro Klitsche de la Grange

* * *

Signori, plaudo alla saggezza dell’assemblea, che non ha voluto decidere nulla intorno alla questione della sanzione regia, prima d’aver chiarito i punti connessi e dipendenti della permanenza degli Stati Generali e dell’unità del Corpo legislativo. Forse queste stesse questioni non possono isolarsi in alcun modo, senza aver ancora necessità, per chiarirle del tutto, di esaminare e trarre insegnamento da tutti gli istituti pertinenti all’intera organizzazione della rappresentanza nazionale; ma ciò che è meglio non sfuggirà sicuramente alla Vostra sagacia. Sembra che l’assemblea abbia superato l’idea di attribuire al potere reale una parte integrante nella formazione della legge; ha avvertito che sarebbe alterare e perfino snaturare l‘essenza della legge facendovi entrare altri elementi, diversi dalle volontà individuali.

La sola definizione ragionevole che può darsi della legge è di chiamarla l’espressione della volontà dei governati. I governanti non se ne possono appropriare in tutto o in parte, senza avvicinarsi, di più o di meno, al dispotismo. Non bisogna tollerare una situazione dagli effetti così pericolosi. Che se, considerata la persona del Re sotto la qualità che meglio gli si addice, ossia come capo della Nazione, come primo ci ttadino voleste fare un’eccezione a suo favore, vi ricorderete le belle parole che Sua Maestà ha pronunciato in mezzo a noi, ancor prima che gli ordini confluissero insieme: «Io - ha detto - che non sono che tutt’uno con la nazione». In effetti, il principe, il capo della nazione, non può essere che tutt'uno con quella; e se lo separate un solo istante, se gli a ttribui te un interesse differente, un interesse a parte, da quel momento diminuite la maestà del Re, perché è troppo evidente che un interesse diverso da quello nazionale non può mai neppure confrontarglisi: che, in una nazione, tutto si piega, e deve piegarsi, davanti a questa.


Così il Re non può essere separato, neppure in teoria, dalla Nazione di cui rappresenta tutta la maestà. Quando la nazione pronuncia la sua decisione, il re la pronuncia con essa. Dovunque è capo, dovunque primeggia; ma tutti i suoi atti lo suppongono in mezzo a noi. Infine, soltanto qui possono esercitarsi i suoi diritti a legiferare. Se si riconosce che il Re non può concorrere alla formazione della legge fuori dall'assemblea nazionale, non si è ancora da tutti preso partito su quale sia la parte d’influenza proporzionale che può avervi.

Un elettore chicchessia, può in una qualunque assemblea, avere più voce di ogni altro? Tale questione ha i suoi aspetti profondi; ma non è necessario addentrarvisi a fondo, per riconoscere che la minima ineguaglianza, a questo riguardo, è incompatibile con ogni idea di libertà ed eguaglianza politiche. Mi contento di farvi rilevare che il sistema opposto riporta, diritto e subito, alla distinzione in ordini. Perché ciò che caratterizza la pluralità degli ordini è, per l’appunto, la disuguaglianza dei diritti politici. In uno stato non esiste che un solo ordine, o piuttosto non esistono più ordini dal momento in cui la rappresentanza è comune a tutti ed uguale per tutti. Senza dubbio nessuna classe di cittadini spera di conservare a proprio favore una rappresentanza parziale divisa o disuguale. Sarebbe un mostro politico: quello - per l’appunto - che è stato abbattuto per sempre.

Notate, signori, un altro corollario del sistema cui mi oppongo. Se il voto di un elettore potesse valere come due voti di un altro, non vi sarebbe alcuna ragione perché la stessa autorità, che gli ha accordato questo privilegio politico, non possa accordargli quello di pesare come dieci, come mille voti. Vedete, Signori, che da ciò a contare come tutti il passo è breve. Se una volontà può valere due nella formazione della legge, essa può valere come 25 milioni. Allora la legge potrà essere l’espressione di una volontà sola; allora il re potrà dirsi solo rappresentante della Nazione. Abbiamo osservato un istante fa che la disuguaglianza dei diritti politici ci riportava all’aristocrazia: ed è chiaro che questo odioso sistema non sarebbe meno adatto al fine di continuare a tenerei nel più assurdo dispotismo.

È necessario quindi riconoscere e sostenere che ogni volontà individuale dev’essere ridotta all’unità numerica; e non crediate che l'opinione che ci stiamo formando di un rappresentante, eletto da un gran numero di cittadini distrugga questo principio. Il deputato d’un baliaggio è scelto direttamente dal suo baliaggio; ma indirettamente, è eletto da tutti i baliaggi. Ecco perché ogni deputato è rappresentante dell’intera nazione. Senza di ciò, ci sarebbe tra i deputati una disuguaglianza politica che niente potrebbe giustificare; e la minoranza potrebbe dettar legge alla maggioranza, come ho dimostrato altrove.

Il Re, preso come cittadino, è ridotto alla sua volontà individuale; a questo titolo, non può votare che in una delle assemblee primarie, laddove ad ogni cittadino è consentito votare. Considerato invece come primo cittadino, come capo della nazione, si suppone rappresentante della nazione in tutte le assemblee elette, fino a quella nazionale. Dovunque ha diritto di voto; dovunque gli spetta il primo posto; dappertutto è legalmente il primo, perché non può aversi un primo che in forza delle leggi; ma in nessun collegio il suo voto può contare due. Questo principio è dimostrato a sufficienza dagli inconvenienti di quello opposto, che vi ho appena mostrato. Attualmente, Signori, se volete considerare il Re come attributario di ogni funzione del potere esecutivo, è evidente che non può ravvedersi nulla nella sua autorità, per quanto estesa ed immensa possa essere, che possa entrare, come parte integrante, nella formazione della legge. Ciò sarebbe dimenticare che le volontà individuali possono solo comporre, come elementi, quella generale; che l'esecuzione della legge è successiva alla sua formazione; ed il potere esecutivo e tutto ciò che vi rientra non può considerarsi esistente che dopo la compiuta formazione della legge.

Precedentemente, ogni volontà individuale è stata consultata, o piuttosto ha concorso a redigere la legge. Quindi non esiste alcunché d'altro che debba essere chiamato a concorrervi. Tutto ciò che vi può essere, ci si trova di già; niente le fa difetto; non potevano esservi che delle volontà e vi sono tutte. Se poi l’esercizio del potere esecutivo dà esperienza, procura delle cognizioni che possono essere utili al legislatore, ben possono esserne ascoltati i consigli, invitandolo a dire la propria; ma questi pareri san ben al tra cosa dalla volontà. Non deve - lo ripeto - entrare nel processo di formazione della legge come parte integrante; in breve, se il potere esecutivo può consigliare la legge, non deve contribuire a farla.

Il diritto di impedire, a mio avviso, non differisce dal diritto di fare. In primo luogo è facile notare che il ministero reale farà proporre dai deputati, e sostenere da un partito, tutte le leggi di proprio gradimento. Se queste passano, tutto è fatto secondo i suoi desideri. Se invece vengono respinte, a sua volta il ministero respingerà tutte le decisioni contrarie. È sufficiente questa prima considerazione per capire che un potere tale è enorme, e che chi lo detiene è - grosso modo - il padrone di tutto. Si insisterà nel sostenere che impedire non è fare. Non so; ma, in questa stessa assemblea, non si delibera altra cosa se non ciò che vuole la maggioranza, cui, pertanto, non contestate il diritto di fare. Quando una rivoluzione è sostenuta soltanto da una minoranza, la maggioranza esprime le aspirazioni della nazione col rigettarla; esercita - senza limiti - il proprio potere di legiferare. In ciò è consentito porre questa domanda: cosa fa di più di un atto di cui si vuole conferire l’esercizio al potere esecutivo? lo dico che il diritto d'impedire che vuole accordarsi al potere esecutivo, è ben più incisivo: perché, in definitiva, la maggioranza nel corpo legislativo non fa altro che prevalere sulla minoranza, mentre il ministero paralizza la maggioranza stessa, cioè la volontà nazionale, cui niente può opporsi. Sono così colpito da questa differenza, che il veto sospensivo o assoluto, poco importa, non mi sembra altro che un ordine dato per mero arbitrio: non posso vederlo in altro modo, se non come un rescritto regio spiccato contro la volontà nazionale, contro la nazione tutta.

So bene che a forza di distinzioni da una parte, e di confusione dall’altra, si è giunti a considerare la volontà nazionale come se potesse essere cosa diversa da quella dei rappresentanti della nazione, come se la nazione potesse esprimersi altrimenti che per mezzo dei propri rappresentanti. Qui i falsi principi divengono estremamente pericolosi. Essi non vanno a parare altrove che a separare, a spezzettare, a lacerare la Francia in una infinità di piccole democrazie, che non si riunirebbero poi che con i legami di una confederazione generale, press’appoco come i 13 o 14 Stati Uniti d’America si sono ritrovati in una convenzione generale.

Tale problema merita la più attenta valutazione da parte nostra. La Francia non dev'essere un'accozzaglia di piccole nazioni che si governano, separa te, come democrazie; non è una collezione di Stati, è un tutto unico, composto di parti integranti; parti che non devono avere separatamente una esistenza completa, perché non sono affatto delle totalità semplicemente unite, ma delle componenti di un tutto unico. Questa differenza è fondamentale e ci interessa perché è essenziale. Tutto è perduto, se ci permettiamo di considerare i comuni che si vanno istituendo, o i distretti e le province, come altrettante repubbliche unite soltanto per i rapporti di forza o di protezione comune. Al posto di un'amministrazione generale, che, partendo da un centro comune, operi uniformemente sulle parti più distanti dall'impero; in luogo di questa legislazione, i cui elementi, forniti da tutti i cittadini, si fondono risalendo fino all'assemblea nazionale, incaricata solo d’intero pretare la scelta generale, che ricade dopo, con tutto il vigore di una forza irresistibile sulle stesse volontà che hanno concorso a formarla, non avremmo più all'interno del Regno, irto di barriere d’ogni sorta, che un caos di usi, regolamenti. divieti particolari a ciascuna località. Questo bel paese diverrà odioso ai viaggiatori ed agli abitanti. Ma mia intenzione non può essere di esporvi gli innumerevoli inconvenienti che opprimerebbero la Francia, se si trasformasse un giorno in una federazione di municipi o di province. Non è quello, signori, il nostro progetto; è dunque sufficiente notare che, se non stiamo in guardia, i princìpi che sembri ama adottare già coniugati a circostanze fin troppo influenti, potrebbero ben portarci ad una si tuazione politica che non è nelle nostre intenzioni, e dalla quale avremmo grosse difficoltà a tirarci indietro.

In conseguenza di queste brevi riflessioni, su cui sarebbe inutile, adesso, diffondersi ulteriormente, credo che si potrebbe richiedere fin d'ora, in forma di emendamento alla proposta che stiamo trattando: «Che sia formato da questa sera un comi tato di poche persone, per presentare all’Assemblea, entro due o tre giorni, un piano di comuni o di province, tale che, organizzata così, la Francia non cessi, in ogni caso, di formare un tutto, uniformemente sottomesso ad una legislazione ed ad una amministrazione comune». Non mi allontano dal tema, signori: è impossibile istituire la legislazione ordinaria senza conoscere gli elementi di cui si compone, ed i canali attraverso i quali le volontà individuali arrivano ai punti comuni d'incontro dove devono concentrarsi per formulare la scelta generale. La questione che trattiamo è collegata costantemente ed in modo essenziale al sistema di rappresentanza che vorrete adottare. Non potete trovarne le basi che nei municipi, non potrete proporzionare le parti che determinando, innanzi tutto, ciò che intenderete per provincia nella vostra nuova terminologia politica.

È più pressante ancora sapere quale grado d'influenza sui deputati nazionali volete dare a queste assemblee committenti. Non discuto dell'influenza sulle persone, che dev'essere completa, ma di quella dei committenti sulla stessa legislazione. È chiaro che se la volontà nazionale può manifestarsi nei municipi o nei baliaggi, e non fa che ripetersi nell'assemblea generale, è chiaro, dico, che il veto sospensivo, o piuttosto l'appello al popolo, cui sembra che oggi vogliamo ridurre il diritto d'impedire, assume un carattere ben diverso. D'altronde, se non occorre che enunciare una scelta già fatta dal popolo nei baliaggi o nelle municipalità, è veramente necessario, per un enunciato che non può cambiare, istituire due o tre Camere? È necessario renderle permanenti? Dei portatori di suffragi, o meglio, per servirsi di un'espressione d'uso corrente, dei corrieri politici non hanno bisogno di sedere in permanenza.

È quindi necessario convenire che il sistema di rappresentanza e i diritti che volete ricollegarvi in tutti i gradi devono essere determinati prima di decidere alcunché sulla divisione del corpo legislativo e sull'appello al popolo delle nostre deliberazioni. I moderni popoli europei somigliano ben poco a quelli antichi. Tra noi non si tratta che di commercio, di agricoltura, di opifici. Il desiderio di ricchezza sembra fare di tutti gli Stati d'Europa delle grandi fabbriche: si pensa assai più al consumo ed alla produzione che alla felicità. Così i sistemi politici, oggigiorno sono esclusivamente fondati sul lavoro; le attitudini economiche dell'uomo sono tutto; a fatica si sa mettere a profitto le facoltà morali, che potrebbero tuttavia divenire la sorgente più feconda delle soddisfazioni più veritiere.

Siamo dunque forzati a non vedere, nella maggior parte degli uomini, altro che macchine da lavoro. Tuttavia non potete rifiutare la qualità di cittadino, e i diritti correlativi, a questa moltitudine senza istruzione che la necessità di lavorare assorbe completamente. Poiché proprio come noi debbono obbedire alla legge, devono anche, come voi, concorrere a farla. E questo concorso dev'essere uguale. Può esercitarsi in due modi. I cittadini possono accordare la loro fiducia a qualcuno di loro: senza spogliarsi dei loro diritti, ne affidano l'esercizio.  È in vista dell'utilità comune che nominano delle rappresentanze ben più capaci di loro di capire gli interessi generali, e d'interpretare, in vista di questi, la loro propria volontà.

L'altro modo d'esercitare il proprio diritto a formare la legge è di partecipare in prima persona a farla. Questa partecipazione diretta è ciò che caratterizza la vera democrazia. Quella mediata è connaturale al governo rappresentativo. La differenza tra questi due sistemi politici è enorme. Non è dubbio, tra noi, su quale debba esser la scelta tra questi due metodi per fare la legge. In primo luogo, la stragrande maggioranza dei nostri concittadini non ha abbastanza istruzione, né abbastanza tempo a disposizione per volersi occupare direttamente delle leggi che devono governare la Francia; la loro opinio ne è dunque di nominare dei rappresentanti; e poiché questo è l'avviso della maggioranza, anche gli uomini più colti devono sottomettervisi, come gli altri. Quando una società è formata, si sa che l'opinione dei più fa legge per tutti.

Questo ragionamento, che è già valido per i piccoli Comuni, diviene assolutamente irresistibile a pensare che qui si tratta di leggi che devono governare ventisei milioni di uomini, perché sono sempre convinto che la Francia non è affatto, né può essere una democrazia; né può diventare uno Stato federale, composto d'una miriade di repubbliche, unite da un qualsiasi legame politico. La Francia è e dev'essere un tutto unico, soggetto in ogni sua parte ad una legislazione e ad una amministrazione comune. Poiché è evidente che cinque o sei milioni di cittadini attivi, ripartiti su venticinquemila leghe quadrate, non possono riunirsi in assemblea, è certo che possono aspirare soltanto a legiferare per rappresentanza.

Quindi i cittadini che si nominano dei rappresentanti rinunciano e devono rinunciare a fare essi stessi direttamente la legge: e, di conseguenza, non hanno alcuna volontà particolare da imporre. Ogni influenza, ogni potere compete ad essi sulla persona dei loro mandatari; ma questo è tutto. Se dettassero delle volontà questo non sarebbe più uno stato rappresentativo; sarebbe uno stato democratico. Si è spesso osservato in questa assemblea che i baliaggi non avevano il diritto di conferire un mandato imperativo; ma, in effetti, compete loro ancora meno. Per quanto riguarda la legge, le Assemblee committenti, non hanno altro diritto che di commissionare. Oltre a questo, non si possono avere tra deputati e deputanti immediati che promemoria, consigli, istruzioni. Un deputato, come già detto, è eletto da un baliaggio, in nome di tutti i baliaggi: un deputato lo è della nazione intera; tutti i cittadini ne sono i mandanti; ora, poi ché in un'assemblea di baliaggio, non vorreste che colui che è eletto si facesse carico delle aspirazioni di una maggioranza, non potete volere, a maggior ragione, che un deputato di tutti i cittadini del reame tenga conto delle sole aspirazioni degli abitanti di un solo comune o d'un baliaggio, invece della volontà dell'intera nazione.

Così non c'è, né può esservi, per un deputato altro mandato imperativo, o del pari, altre aspirazioni, che quelle nazionali; non deve dar ascolto ai suggerimenti dei suoi elettori se non quando siano conformi ai desideri generali. Questi dove possono essere, dove li si può conoscere e valutare, se non nell'Assemblea generale stessa? Non è compulsando delle istruzioni particolari, se ve ne sono, che scoprirà le reali aspirazioni dei propri elettori. Non si tratta, qui, di registrare uno scrutinio popolare, ma di proporre, ascoltare, concertarsi, modificare le proprie opinioni, infine formare in comune una comune volontà.

Per fugare ogni residuo dubbio al riguardo, prestiamo attenzione: persino nella democrazia più rigorosa questo metodo è il solo per formare una volontà comune. Non è alla vigilia, e chiusi in casa propria, che i democratici più amanti della libertà formulano la propria particolare opinione, perché sia l'indomani esposta sulla pubblica piazza, salvo a rintanarsi di nuovo in casa per ricominciare, sempre in solitudine, nel caso che non si fosse potuto trarre da tutte queste opinioni isolate una volontà comune alla maggioranza.

Diciamocelo chiaramente: questo modo di formare una volontà comune sarebbe assurdo. Quando ci si riunisce, è per deliberare, è per scambiarsi i punti di vista, per giovarsi reciprocamente delle buone idee, per confrontare i desiderata particolari, per modificarli, per conciliarli, infine per ottenere un risul tato comune a molti. Io mi domando: ciò che apparirebbe assurdo nella democrazia più conseguente e sospettosa, deve assurgere a regola di un'assemblea rappresentativa? È quindi incontestabile che i deputati siedano all'assemblea nazionale, non per comunicarsi reciprocamente le volontà, già formate, dei loro elettori, ma per deliberarvi o votare liberamente secondo il loro attuale convincimento, rischiarato da tutte le cognizioni acquisite in Assemblea.

È pertanto inutile che vi sia una decisione nei baliaggi o nelle municipalità, o in ciascuna casa di città o di paese, perché le idee cui mi oppongo non portano che ad una specie di Certosa politica. Questi tipi di pretese sarebbero assai più che democratiche. La decisione non spetta, e non può non spettare che alla sola Nazione, riunita in assemblea. Il popolo o la nazione non può a vere che una sola voce, quella della legislatura nazionale. Così quando sentiamo parlare di un appello al popolo, ciò non può voler dire altro, se non che il potere esecutivo potrà ricorrere dalla nazione alla nazione stessa, e non dai rappresentanti ai loro committenti; perché questi non possono farsi ascoltare che per mezzo dei deputati nazionali.

 L'espressione «appello al popolo» è quindi impropria; almeno se intesa senza senso politico. Il popolo, lo ripeto, in un paese che non è una democrazia (e la Francia non potrebbe esserlo), il popolo non può esprimersi, non può agire che per mezzo di rappresentanti. Da tutte le osservazioni che vi ho sottoposto bisogna quindi concludere, relativamente al diritto d'impedire, che non deve intendersi tale termine né nel senso di diritto di partecipare alla formazione della legge, né in quello di appello al popolo, e come ho provato, nello stesso tempo, che il dirillo d'impedire non è per nulla differente - il più delle volte - dal diritto di fare, mi sembra che potrei già trame tale conseguenza, e cioè che il veto, se è proprio necessario, non può essere conferito che a coloro che hanno il diritto di fare; che è come dire a coloro che partecipano già attivamente alla formazione della legge. È certo, e noi l'abbiamo anche provato, che al potere esecutivo non compete alcun diritto alla formazione della legge. Se quindi voi voleste accordare il veto al Re, questo non potrebbe essere in quanto depositario del potere esecutivo; ma solo quale capo della nazione o primo cittadino.

A tale titolo, ci ripetiamo, il Re può avere il diritto di votare in tulle le assemblee in cui è ordinata la rappresentanza nazionale. A questo titolo il Re non ha superiori: la maestà del Re eclissa tutti, perché è la stessa maestà della nazione. Al punto in cui sono arrivato, la questione trattata cambia aspetto: si riduce a vedere se il diritto d 'impedire è utile, quando e in cosa: e, nel caso lo si credesse utile, se bisogna farlo esercitare dal capo della nazione, col voto dell'assemblea legislativa, o da un'altra parte dell'assemblea legislativa.

Credo inutile premettere che il veto, di cui cerco di valutare l'utilità, non può essere il veto proposto in un primo tempo, col nome di veto assoluto, e che si spera oggi far adottare con la denominazione edulcorata di veto indefinito o illimitato. Non capisco che idea ci si fo rmi della volontà di una nazione, allorquando si ha l'aria di credere che possa essere annichilita da una volontà particolare ed arbitraria. Non può discutersi qui che del veto sospensivo. L'altro, occorre dirlo, non merita neppure che lo si discuta e lo si rifiuti sul serio.

La decisione nazionale di cui temete gli effetti, e che credete bene di sospendere fino a nuovo esame, può infatti riguardare la Costituzione, oppure soltanto la legislazione. Tali sono i due punti di vista dai quali consideriamo l’azione del veto. In Inghilterra non si distingue il potere costituente da quello legislativo; di guisa che il parlamento inglese, senza limiti nelle sue attribuzioni, potrebbe incidere sulle prerogative reali, se queste non ricomprendessero il veto ed il diritto di sciogliere il parlamento. Questa iattura è impossibile in Francia. Siamo concordi sul principio, fondamentaIe e costituzionale, che alla legislatura ordinaria non competerà l'esercizio del potere costituente, non più che di quello esecutivo. Questa separazione dei poteri è necessaria ed assoluta.

Se circostanze ineluttabili, se lo speciale mandato dei nostri elettori ci obbligano ad espletare, simultaneamente o successivamente, funzioni costituenti o legislative, riconosciamo comunque che questa confusione non potrà più sussistere dopo questa sessione: l'assemblea nazionale ordinaria non sarà altro che un'assemblea legislativa.  Le sarà vietato di modificare alcunché della Costituzione. Quando sarà necessario rivederla e riformare qualche parte, ciò sarà attraverso apposita Convenzione, e limitata a questo solo scopo, di far deliberare alla Nazione i mutamenti che sembrerà conveniente fare alla Costituzione; così che le norme fondamentali di ciascun potere non potranno cambiarsi sino ad una nuova Convenzione nazionale.

Una qualsiasi parte delle istituzioni pubbliche non avrà da temere l'invadenza delle altre. Saranno tutte indipendenti nell'ambito delle norme fondamentali che le regolano. Deriva da queste osservazioni che, se il veto reale è necessario in Inghilterra, sarebbe inutile e fuor di luogo in Francia.  Il Re non avrà nulla da difendere contro il Corpo legislativo, perché sarà impossibile al corpo legislativo attentare alle prerogative reali. Sono d'accordo anch 'io che un potere, qualunque sia,
non si mantiene sempre all'interno dei limiti prescrittigli dalle norme che lo regolano, e che gli organi pubblici, possono come i privati, adottare dei comportamenti ingiusti gli uni verso gli alt ri. Su ciò io noto tuttavia che la storia ci insegna a temere gli attentati del potere esecutivo su quello legislativo assai più di quel li del potere legislativo sui depositari dell'esecutivo.


Ma non importa, all'uno e all'altro di questi inconvenienti è necessario portare rimedio; e poiché il pericolo incombe ugualmente su ogni potere, l'antitodo dovrà essere lo stesso per tutti. Affermo dunque che, poiché è possibile che i poteri pubblici, malgrado siano separati con cura, malgrado siano indipendenti gli uni dagli altri nella loro organizzazione e nelle loro prerogative, cerchino di abusare del loro potere verso gli altri, si deve trovare nella costituzione della società un mezzo per porre rimedio a tale disordine. Mezzo semplicissimo. Non è l'insurrenzione, non è la sospensione del pagamento delle imposte, e meno ancora il veto reale. Tutti questi rimedi sono peggiori del male; è il popolo ad esserne sempre la vera vittima, e noi dobbiamo impedire che il popolo sia la vittima. Il mezzo che cerchiamo consiste nel reclamare la delegazione straordinaria del potere costituente.

Una tale Convenzione è in effetti l'unico tribunale dove possano essere decise tali questioni. Questo modo di procedere sembra così semplice e naturale, tanto in linea di principio che di opportunità, che credo inutile insistere ulteriormente su questo vero mezzo d'impedire che alcuno dei poteri pubblici usurpi i diritti dell'altro. Si nota senza dubbio che, almeno, questo tipo di veto è imparziale; non ne faccio un privilegio esclusivo per i ministri; è praticabile, come dev'esserlo, da tutti i poteri dello Stato. Ho così provato che l'ordinato assetto del potere esecutivo e la prerogativa reale non hanno nulla da temere dai deliberati del potere legislativo, e che se i diversi poteri tentano delle usurpazioni, il vero rimedio a questo pubblico disordine non è il veto reale, ma un vero e proprio ricorso al potere costituente, di cui la parte lesa ha il diritto di domandare la convocazione o la delegazione nazionale.

Permettetemi di soggiungere di sfuggita che questa convocazione straordinaria non può essere che tranquilla in un paese nel quale tutti i poteri saranno organizzati in un sistema di rappresentanza generale, dove l'ordine delle deputazioni sarà ben regolato e le deputazioni legislative saranno frequenti.

Vi ho appena mostrato, signori, i mezzi per garantire tutti i poteri costituzionali dalle reciproche invadenze. Ora è necessario esaminare la pretesa necessità del veto reale, con riguardo alla legislazione.  In tale questione cerco con cura le ragioni, anche speciose, negli argomenti di coloro che credono all'utilità del veto, e confesso che non ne trovo nessuna_ Fintanto che il corpo legislativo si limiterà a fare delle leggi, di garanzia o direttrici, finché il potere esecutivo, finché il capo della nazione non avranno di che dolersi né per i loro diritti, né per le loro funzioni, né per le loro prerogative; infine finché ci si limiterà a domandare al potere esecutivo l'esecuzione della volontà nazionale nell'attuazione della legge, non concepisco in base a quale pretesto si vorrebbe che il potere esecutivo fosse dispensato dall'eseguire, e potesse opporre alla legge un veto sospensivo: altrettanto sarebbe dire che, quando i popoli domandano delle leggi alla loro assemblea legislativa, è giusto che essa possa impedirgli di farle. A me pare che ogni potere deve limitarsi alle proprie funzioni, e deve svolgerle con zelo e senza ritardi, tutte le volte che ne è richiesto da coloro cui spetta il richiedere.

Al di fuori di questi principi, non c'è pi ù disciplina in alcuna istituzione politica. Si dirà che l'esperienza matura nei funzionari pubblici delle cognizioni che è opportuno acquisire prima di promulgare le leggi? Sia pure; che i legislatori si giovino del consiglio di tutti coloro che sono in grado di darlo; ma, dal momento in cui la legge è deliberata, non mi si persuaderà mai essere buona regola che coloro che debbono farla eseguire possano esercitare un veto contro il legislatore, col pretesto che il legislatore abbia potuto sbagliare. Da un lato colui cui accordate il veto può anch'egli commettere un errore; e se si vuole paragonare la possibilità d'errore cui è soggetto, a quella cui è soggetto il legislatore, ci sembra che non possa essere pari. Il corpo legislativo è eletto, è numeroso, ha interesse al bene, è sotto l'influenza del popolo. Di converso, il depositario del potere esecutivo è ereditario, inamovibile, i suoi ministri sanno ispirargli un interesse a parte...

Come, in una tale disuguaglianza di possibilità, si ha sempre l'aria di sbigottirsi per i possibili errori del legislatore, e si temono così poco quelli probabili del ministero? Questa parzialità, dovete convenire, non è naturale. ... Ma infine, di rete ancora, fretta ed errore non sono impossibili, nei lavori del corpo legislativo ... È vero e malgrado questo pericolo sia infinitamente meno frequente che in un ministero, anche il meglio composto, è pur tuttavia giusto garantirsene finché possibile.

Dal momento in cui non si presenta più il veto sospensivo che come mezzo per diminuire, in favore della Nazione, la possibilità di errore sulle deliberazioni dei suoi rappresentanti, lungi dall'oppormi, io lo sostengo fermamente; ma occorre offrire un veto che abbia veramente tale carattere; e bisogna metterlo nelle mani che possano adoperarlo con più vantaggio per il popolo. Per esempio, quand'è necessario di fare o riformare una legge, come mi si proverà che possa esser utile al popolo di rinviare la revisione o il nuovo esame di uno o due anni? Non è quella una sospensione utile.

Perché prolungarla oltre il termine necessario? Forse in tale lungo intervallo sarà indifferente rinunziare a giovarsi di una buona legge, o esser tormentati da una cattiva? Si pretende che le stesse persone possano di malgrado rinunciare alle loro prime idee, e che è opportuno attendere il rinnovo dell'assemblea. Risponderò in primo luogo che non è sempre male rimanere del primo avviso; e, d'altronde, io non mi sento di abbandonare la mia tesi, che il potere legislativo, per poco e male che sia organizzato, sarà comunque assai meno soggetto ad errori facendo le legge, del ministero nel sospenderla.

Rispondo, in secondo luogo, che non si può rinviare la seconda discussione ad eccessiva distanza di tempo, senza essere obbligati, per questo a porre la questione agli stessi deputati. Questa soluzione, che concilia tutti gli interessi, è volta ad istituire non una o due camere, ma due o tre sezioni della stessa Camera. Ricordatevi, Signori, della nostra deliberazione del 17 giugno, che è fondamentale, perché da quel giorno inizia la nostra esistenza quale Assemblea nazionale, lì avete dichiarato che l'assemblea nazionale è una ed indivisibile. Ciò che fa l'unità e l'indivisibilità di un'assemblea, è l'unità di decisione, e non l'un ità di discussione.

È evidente che talvolta è opportuno discutere due e financo tre volte la stessa questione_ Niente impedisce che questa triplice discussione si faccia in tre sale separate, davanti a tre sezioni dell'Assemblea, dalle quali, proprio perciò, non avete più da temere che possano ricadere nello stesso errore, deliberare con troppa fretta, ed essere sedotte dallo stesso oratore. Sarà sufficiente che la deliberazione o il decreto sia il risultato della maggioranza dei voti, raccolti nelle tre sezioni, allo stesso modo che se tutti i deputati si trovassero uniti a votare nella stessa sala; in altre parole, per servirsi di un'espressione corrente, tenuto per fermo che i voti siano conteggiati per testa e non per camera.

Istituendo la triplice discussione come la propongo, saranno soddisfatte le esigenze e fugate le preoccupazioni della maggior parte di coloro che chiedono il veto sospensivo, di tutti coloro - quanto meno - che non vogliono del veto che i vantaggi. Non si avrebbe più necessità di attribuire il veto a nessuno, perché si trova naturalmente nella divisione indicata, dato che se una sezione dell'Assemblea giudica opportuno ritardare la discussione, avete, solo per questo, lo stesso effetto del veto sospensivo. Se invece succede che ciascuna delle tre sezioni voglia, su una certa questione, decidere sollecitamente, questa è una prova - evidente a mio giudizio - che così richiedè l'interesse generale, e che, in questo caso specifico, l'effetto del veto sospensivo sarebbe nocivo.

Nel progetto estremamente semplice che v'ho proposto, c'è dunque una sorta di veto sospensivo; calcolato al giusto grado d'utili tà che deve avere, senza che comporti alcun inconveniente. È quindi questa la proposta da sostenere. Non vedo, infatti, perché, se l'esercizio di un veto sospensivo è giusto ed utile, si dovrebbe toglierlo dalla sede dove la natura delle cose l'ha posto, nella stessa assemblea legislativa. Il primo che, in meccanica, si servì del regolatore, si guardò bene dal parlo fuori dalla macchina di cui voleva moderare il movimento precipitoso.

D'altronde, abbiamo provato e riconosciuto prima, che il diritto di impedire e di sospendere non è differente da quello di fare; che è inopportuno volerIi separare; che, soprattutto, non occorre, in alcun caso, attribuirne l'esercizio al potere esecutivo. Attribuirlo, invece, in maniera naturale alle differenti sezioni dell'assemblea legislativa stessa, non toglie niente ai diritti del capo della Nazione. Avrà sul veto la stessa influenza che ha sulla legge, e, secondo la mia convinzione è sempre egli che è tenuto a pronunciarla in mezzo a noi.

È vero che coloro che cercano nel veto altre cose che i vantaggi, coloro che, al posto di chiedersi quali sono i veri bisogni d'un'istituzione. secondo la sua stessa natura, cercano sempre, fuori dal loro oggetto, dei modelli da imitare, non vorranno riconoscere nel veto naturale che io sostengo quello che hanno di vista. Ma, dal momento in cui saremo sicuri di aver stabilito tutto ciò che l'interesse della Nazione esige, e di conseguenza l'interesse del Re, è consentito andar oltre? Si opporrà, infine che, malgrado tutte le precauzioni prese da noi, non è assolutamente impossibile che un errore possa sempre esservi in una deliberazione legislativa?

Rispondo - in ultima analisi - che preferisco, in questo caso assai raro, lasciare che sia il corpo legislativo stesso a riformare l'errore, nelle sessioni seguenti, piuttosto che ammettere nella macchina legislativa un congegno estraneo, a mezzo del quale si può sospendere d'arbitrio lo svolgimento delle sue funzioni. Prima di terminare, dirò una parola sulla permanenza dell'assemblea nazionale, non per provarne la necessità, che è imperiosamente richiesta dai principi, dalle circostanze, da valide considerazioni, per temere che non abbia dalla sua quasi l'unanimità dei suffragi. Mi permetterò soltanto d'osservare che commettono un errore, a mio avviso, coloro che vogliono rinnovare per intero i deputati ad ogni sessione legislativa.

Occorre evitare con cura tutto ciò che può istituire un regime aristocratico, ma quando si sono prese precauzioni più che sufficienti, non occorre che una paura irrazionale ci faccia ricadere nel pericolo - estremamente reale - di non fa. le leggi che a scossoni; non bisogna rendere impossibile l'identità di principi e l'uniformità di interventi che si deve trovare in ogni buona legislazione. Infine, occorre che l'esperienza degli uni non sia perduta per gli altri. A non perder di vista che non si tratta d'esercitare il potere costituente (questo potere, in verità, esigerebbe ad ogni sessione, un rinnovamento totale dei suoi membri), ma solo di deliberare le leggi ed i regolamenti necessari all'ordinario mantenimento della libertà, della proprietà, della sicurezza, e di sorvegliare la raccol ta e la spesa del pubblico denaro, ci si può persuadere senza dubbio che il rinnovo dei deputati può, senza pericolo, essere parziale, e farsi ogni anno per un terzo, di guisa da avere sempre un terzo dei membri con l'esperienza di due anni, un altro terzo con quella di uno, ed infine un ultimo terzo che proviene, di anno in anno, dalle province, per esporre sempre al corpo legislativo i bisogni e le ultime opinioni del popolo.

Un parlamento così composto non diverrà mai aristocratico, se decidiamo, nel contempo, che occorrerà un intervallo di tempo qualsiasi per essere nuovamente eleggibile. Termino col proporre all'assemblea l'emendamento che ho enunciato nel corso del mio intervento. E lo presento perché lo credo d'urgente necessità. Se non è appoggiato o se è rigettato avrò quantomeno fatto il mio dovere, mettendovi in guardia sul pericolo che minaccia la Francia, se si lasciano le municipalità organizzarsi in repubbliche autosufficienti ed indipendenti.

Ecco la soluzione che propongo: "Che sia nominato in giornata un comitato di tre persone per presentare, il più presto possibile, all 'assemblea un piano di municipalità e province, tale che si possa sperare di non vedere il regno dissolversi in una moltitudine di statarelli retti in forma di repubblica; e che, al contrario, la Francia possa formare un tutto unico, uniformemente soggetto, in ogni sua parte, ad una legislazione e ad un'amministrazione comune».

(Traduzione di Teodoro Klitsche de la Grange)


APPENDICE

Sulla problematica del divieto di mandato imperativo, che costituisce l’angolo visuale sul quale è stato riproposto il saggio di Sieyes, edito nel primo numero della rivista Behemoth, apparsa nel lontano 1986, pare opportuno tentare una ricerca bibliografica online. Si avverte che i criteri ed i risultati della ricerca sono del tutto casuali, condizionati dalle parole chiave immesse nei motori di ricerca e dal momento stesso in cui la ricerca viene fatta oltre che dal materiale documentario e bibliografico esistente online. Non escludiamo di far seguire a questo primo post una serie antologica di autori classici che si siano pronunciati sulla stesso tema.

 1. Luigi Principato, Il divieto di mandato imperativo da prerogativa regia a garanzia della sovranità assembleare.
2. Salvatore Curreri, Rappresentanza politica e divieto di mandato imperativo nel progetto di riforma costituzionale.






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