Il documento
conclusivo licenziato dalle Commissioni Finanze di Camera e Senato su una
riforma fiscale complessiva è notevole per cose scritte e anche per quelle non
scritte.
Partiamo dalle
prime. Da (almeno) cinquant’anni si sentono ripetere luoghi comuni sulla
situazione fiscale, ed economica in genere, connotati dal carattere di
edulcorare la maggiorazione del prelievo a carico, s’intende, di tutti, ma soprattutto
di quelli che subiscono le attenzioni del fisco più rapaci. E, in genere, di ottundere, mistificare, illudere i
contribuenti.
Nel documento
tali luoghi comuni sono quasi tutti smentiti (anche se non esplicitamente, ça va sans dire). Esaminiamone alcuni.
“Il problema principale dell’economia italiana, da cui derivano molte delle
altre criticità, è un tasso di crescita del PIL sostanzialmente inferiore a quello dell’area-euro” e
subito dopo “Tutte le analisi macroeconomiche concordano nell’includere il mal funzionamento del sistema fiscale tra le
principali determinanti del nostro problema di crescita” (il corsivo è mio).
Credevamo, a
sentire i ciarlatani del regime, che il problema principale fosse quello
dell’evasione (ossia della violazione). Apprendiamo invece non solo che non è
quello, ma che probabilmente l’evasore di un sistema così controproducente è un patriota
che ha salvato (purtroppo solo i propri) quattrini delle pubbliche dissipazioni.
Secondo punto:
si legge che la tassazione sul lavoro (e non solo) “è nettamente superiore alla
media dell’area euro. In particolare, l’aliquota implicita di tassazione sul
lavoro è pari al 42,7%”. Ma il seguito è anche più interessante “L’eccessivo
carico tributario sul lavoro è un problema anche in virtù del trend di riduzione della quota di redditi da lavoro sul PIL, passata dal 68%
del 1970 al 52% del 2018”. Quindi jobs
acts e tutta la chincaglieria mediatica sul costo del lavoro è, in termini
macro economici, una litania volta ad occultare la riduzione delle retribuzioni
(e altro). C’è poi l’applicazione della curva di Laffer (“regolarità” economica
così semplice ed evidente che solo ai Balanzoni di regime non appare tale) “È
ragionevole ritenere, inoltre, che, da un lato, aliquote marginali effettive
elevate o altamente variabili possono spingere
i contribuenti di alcune fasce di reddito a sottrarre reddito all’imposizione
fiscale… la struttura delle aliquote marginali effettive presenti nel
nostro sistema imposte-benefici è altamente
inefficiente nonché dannosa per la crescita economica”. Laffer è
riabilitato.
La semplicità
legislativa. Si legge che “la complessità del nostro sistema tributario (è) uno
dei maggiori ostacoli alla crescita
economica” ed anche, aggiungiamo, maggiore incentivo alla corruzione, ad
applicare il famoso detto di Tacito corruptissima
res publica plurimae leges. In particolare occorre sottolineare quanto
afferma il documento sullo “Statuto del contribuente” riforma tanto strombazzata dai governi di centrosinistra “È
purtroppo però un fatto largamente accertato che lo Statuto del Contribuente
sia la norma meno rispettata del nostro
ordinamento giuridico”. Verissimo, ma non siamo d’accordo con la
“soluzione” proposta: costituzionalizzare lo Statuto del contribuente, perché
tutte le recenti costituzionalizzazioni, da ultimo quella dell’art. 111 Cost.,
si sono rivelate delle solenni affermazioni sulla carta di quello che, al
contrario, si legiferava, ma soprattutto si praticava nelle amministrazioni.
Erano cioè delle derivazioni (nel
senso di Pareto) preventive. Assai
meglio, per garantire che sia rispettato, seguire il consiglio di Gaetano
Mosca, da me citato nel mio ultimo articolo: sanzionare con una grossa multa il
funzionario che non rispetta lo Statuto del contribuente. State sicuri che se
quella sanzione verrà istituita e soprattutto applicata, lo Statuto del
contribuente sarà osservato almeno quanto in Inghilterra l’habeas corpus.
Da notare infine
il paragrafo sul contrasto all’evasione fiscale. Al posto del cinquantenario
ritornello “paghiamone meno, paghiamole tutti”, con cui si accompagna l’aumento
delle imposte a chi già le paga, si osserva che “vi è bisogno di un’evoluzione
culturale da ambo le parti: ciascuna di essere deve allo stesso tempo mutare i propri comportamenti in senso
virtuoso e abbandonare i pregiudizi nei confronti della «controparte»… Lo
Stato deve allontanare ogni tendenza a considerare il contribuente un «evasore
che ancora non è stato scoperto»”, e il contribuente deve internalizzare i
benefici di pagare le imposte. E il documento ribadisce “che il perseguimento
di tale strategia sia un processo di natura culturale travalica, non di poco, i confini di un documento di indirizzo, e forse
persino di ogni atto normativo” (il corsivo è mio).
Anche qui si
concorda: su cose che non risultano dal common
sense, poco può fare il legislatore. Ma assai può il popolo sovrano,
mandando a casa coloro che hanno creato un sistema siffatto e la cui
credibilità è sotto-zero. Al punto
che anche cose condivisibili, se proposte da certe forze politiche sono
percepite con diffidenza o rigettate tout-court
dalla maggioranza dei cittadini.
E quello che
manca? Non sappiamo se sia dovuto ad una preventiva delimitazione dell’indagine
o ad un’omissione (voluta); ma resta il fatto che se non si rimodella (verso la
parità delle parti) la giustizia tra privati e pubbliche amministrazioni, le
migliori intenzioni rischiano di rimanere almeno in gran parte tali.
Tale problema nel
documento non è affatto considerato, e l’omissione rischia di compromettere
l’encomiabile sforzo di ridurre idola
e mistificazioni. Perché se i diritti del contribuente e i doveri delle
pubbliche amministrazioni (e dei funzionari) non sono giudicati da magistrati
indipendenti, e soprattutto i relativi processi denotati dalla “parità delle
armi”, rischiano di essere i diritti di “un dio minore” cioè diritti enunciati
ma non (o poco) applicati.
Ma su questo ho
già scritto tanto, onde non posso far altro che rinviarvi il lettore.
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