A.A.V.V. (a cura
di Chantal Mouffe) La sfida di Carl
Schmitt, Novaeuropa, € 23,00, pp. 346.
Questo libro è
stato pubblicato nel 1999 e tradotto ed edito in Italia solo due mesi fa. Preme
sottolinearlo per due ragioni.
La prima, che
l’attualità del pensiero di Schmitt, morto nel 1985, è stata confermata proprio
dagli eventi succedutisi al collasso del comunismo e del (conseguente) mondo
bipolare; e in particolare da quelli del secolo corrente.
La seconda che i
vent’anni trascorsi tra l’edizione inglese e quella italiana del libro
confortano anche le (polifoniche) interpretazioni di aspetti delle concezioni
politico-giuridiche di Schmitt raccolte nel volume: da quello filosofico (Dotti
e Zizek) a quello politico-istituzionale (Mouffe, Dyzenhaus, Ananiadis) giuridico
(Carrino e Preuss), solo per citare parte dei contributi raccolti nel volume.
Ricordiamo a
titolo d’esempio il contributo di Chantal Mouffe, sul confronto di Schmitt con
la democrazia liberale. Parte dell’esigenza del confronto: “i teorici politici,
in modo da portare avanti un concetto di società liberal-democratica capace di
ottenere l’attivo supporto dei propri cittadini, devono essere disponibili
a confrontarsi con le tesi di coloro i
quali hanno sfidato le dottrine fondamentali del liberalismo… La mia
intenzione… è quella di contribuire ad un simile progetto attraverso l’esame
della critica schmittiana alla democrazia liberale. Infatti, sono convinta che
un confronto con il suo pensiero ci permetterà di riconoscere – e, pertanto,
essere in una migliore posizione per cercare una negoziazione – un importante
paradosso inscritto nella reale natura della democrazia liberale”. Analizzando
in specie l’esigenza di omogeneità nella cittadinanza, sostenuta da Schmitt, la
politologa belga scrive “la sua teoria è che la democrazia richiede una
concezione di uguaglianza come sostanza , e che non può soddisfare se stessa
con concetti astratti come quello liberale. Dato che l’uguaglianza è
politicamente interessante ed inestimabile solo fintanto che ha sostanza, egli
pone la questione del rischio e la possibilità dell’ineguaglianza. In modo da
essere trattati come uguali, i cittadini devono, così dice, essere parte di una
sostanza comune”.
Di conseguenza
l’idea di uguaglianza (in primo luogo) politica di tutti gli uomini non
fornisce alcun criterio per stabilire delle istituzioni politiche. “Nella sua
prospettiva, quando parliamo di uguaglianza, dobbiamo distinguere tra due idee
differenti: quella liberale e quella democratica. La concezione liberale
postula che ogni persona è, in quanto persona, automaticamente uguale ad ogni
altra persona. La concezione democratica, però, richiede la possibilità di
distinguere chi appartiene al demos e
chi gli è estraneo; per questa ragione, essa non può esistere senza il necessario
correlativo dell’ineguaglianza”. Si è uguali (politicamente) se si appartiene
allo stesso demos, che fonda anche la
differenza rispetto a coloro che non ne fanno parte. Il concetto democratico di
uguaglianza si fonda su tale distinzione. “Ecco perché dichiara che il concetto
centrale di democrazia non è «umanità» ma il concetto di «popolo», e che non ci
potrà mai essere una democrazia del genere umano. La democrazia può esistere
solo per un popolo”. Prosegue confrontando il pensiero di Schmitt con quella
della “democrazia deliberativa” (in particolare di Habernas).
Tanto per
ricordare un evento che (clamorosamente) conferma la tesi “sostanzialista” di
Schmitt, decisiva nelle democrazie politiche, questo fu proprio il collasso del
comunismo e il fallimento del “Trattato dell’Unione” proposto da Gorbaciov per
l’URSS, nel quale si prevedevano istituzioni democratiche al posto del
centralismo oligarchico comunista. Dato che i tanti popoli dell’URSS erano poco
o punto omogenei come un baltico protestante può esserlo con uno slavo
ortodosso o un turco ottomano, conciliarli in una democrazia politica era impresa mai
riuscita (e neppure – che ci risulti – tentata). Di guisa che, più realisticamente,
Eltsin con la CSI dette il “rompete le righe” alle repubbliche ex-sovietiche.
Passiamo ad un
altro saggio: quello di Carrino che riguarda la concezione giuridica di
Schmitt. Carrino parte dal saggio Dic
Lage der europaischen Rechtswissenschaft: “il saggio mostra la fondamentale
importanza della struttura giuridica del pensiero schmittiano – vale a dire, il
ruolo centrale dello jus nella
struttura dei lavori di Schmitt che non sono basati su una dottrina giuridica
ma, piuttosto, sulla realtà concreta”. Per molti anni, non solo in Italia, lo
studio di Schmitt è stato lasciato a politologi, filosofi e storici, mentre
Schmitt, ancora poco prima di morire, diceva “sarò un giurista finché morirò”.
Scrive Carrino “Proprio per questo motivo il suo saggio sulla scienza giuridica
europea dovrebbe essere letto en juriste,
nella consapevolezza del fatto che egli fu un grande giurista, e che non fu
interessato meramente alle meccaniche del diritto; ma, al contrario, era anche
aperto ad una prospettiva più ampia della cultura giuridica e della civiltà
legale”. Carrino nota che la critica alla modernità del giurista di Plettemberg
comincia con l’opposizione alla metodologia cartesiana “Schmitt è un realista,
un uomo per il quale le cose hanno una loro durevole realtà” onde “Il
decisionismo schmittiano (che in questo senso mai fallisce) è il suo proprio
realismo perché è la realtà che decide in favore o contro il soggetto, a volte
frantumandolo o superandolo…Il diritto è parte di questa realtà – o, piuttosto,
è identificato con la realtà, che lo stesso Schmitt ha definito come «l’ordine
giuridico concreto» o jus
(successivamente conosciuto come nomos),
che è, a sua volta, il diritto separato dalla legge positivista. Schmitt
concepisce il diritto non come un obbligo, puro Sollen, ma come un modo di essere. Il Sein nel pensiero di Schmitt non è in contrasto con l’obbligo (Sollen), come nel caso del pensiero di
Kelsen; ma è, tuttavia, in contrasto con il Nicht-Sein”.
L’esistenza della
comunità politica e la necessità (assoluta e prevalente) di proteggerla è la suprema lex, e non il positivismo di
norme, scivolato poi nel positivismo di valori, che ha connotato la dottrina
costituzionalista italiana (e non solo) del secondo dopoguerra, e in parte
continua ancora.
Anche qui, se la
decisione concreta diventa quella di Machiavelli tra serbare gli ordini e rovinare,
o per non rovinare, romperli, normativismi, codici, commi e così via devono
essere (almeno) sospesi - al fine di conservare l’esistenza - e il modo di
esistenza della comunità. Ne abbiamo avuto conferme anche recenti. E si
potrebbe continuare così per gli altri contributi, alcuni dei quali relativi ad
aspetti dell’opera di Schmitt poco frequentati, almeno in Italia (come i saggi
di Ananiadis e Colliot-Thélène.). Al lettore, cui si consiglia, il compito (e
il piacere) di scoprirli.
Teodoro
Klitsche de la Grange
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