SOVRANITÁ E DIRITTO GLOBALE
Tra le novità che il
pensiero unico anti-sovranista ci dispensa per esorcizzare l’avversario in
crescita ce n’è una poco trattata nei mass-media.
Ovvero che il sovranismo (meglio la sovranità) degli Stati sarebbe uno strumento superato perché il “diritto
globale” (e globalizzato) avrebbe escogitato un sistema più raffinato per
diminuire i conflitti: istituire dei Tribunali internazionali. I quali, in
effetti, nel secolo passato sono aumentati. Non tanto e non solo quelli penali,
quanto le Corti che giudicano su particolari materie (dalla pesca, all’ambiente,
dalla concorrenza alle scorie radioattive).
Va da se che a questo si
associa il consueto disprezzo/deprecazione per il sovranista che non avrebbe
compreso (o non vuole comprendere) come non vi sia bisogno di attizzare
conflitti e deciderli autonomamente:
basta istituire (o, se c’è, adire) un Tribunale internazionale che giudichi
delle pretese delle parti. Qualsiasi tipo di ostilità (e al limite, di guerra) e
controversia, o almeno gran parte, sarebbe così justiciable, cioè conoscibile e decidibile da un giudice (si spera
anche “terzo”). Il vantaggio di tale “sistema” consisterebbe nell’eliminazione/riduzione
dei conflitti e, in certi casi, delle guerre. La decisione del Tribunale
sarebbe così alternativa a quella della guerra.
Tale tesi è per lo più
esposta da giuristi di sinistra, i quali non sembrano imbarazzati dal ripetere
così quel che scriveva De Maistre “Partout où il n’y a pas sentence, il y a combat”[1].
Tesi che esprimeva nel libro II° del Du Pape, una delle più razionali (ed
appassionate) trattazioni della ineluttabilità (e degli inconvenienti) della
sovranità[2].
Gli argomenti che si
adducono a favore della tesi in esame hanno però più di un limite, che li rende
contraddittori. Vediamo quali.
In primo luogo si adduce
l’argomento il quale coniuga la competenza
agli interessi..
Come a livello locale
gli interessi locali sono attribuiti al Comune (alla Provincia, Regione ecc.) laddove
vi siano interessi a livello planetario o almeno sovrastatale devono, proprio
perché eccedenti l’ambito
nazionale, essere regolati a livello sovrastatale.
Se si può essere
d’accordo che una regolazione statale d’interessi eccedenti il territorio dello
stato corre il rischio di essere poco efficace e al limite inutile, altro è
farne conseguire che per avere quelle regole occorra un ente (organo, ufficio)
internazionale che le detti e giudichi le relative controversie. In effetti la
regola può essere posta o consensualmente (tramite un accordo) o unilateralmente
(con un comando dell’uno all’altro soggetto).
Quanto al primo – normale nel diritto internazionale (e,
ovviamente, non solo in questo) - si realizza con trattati, il fondamento dei quali è proprio che a negoziarli,
deciderli, applicarli sono degli Stati sovrani. I quali se non fossero sovrani,
non potrebbero né obbligarsi né essere responsabili dell’esecuzione. O quanto
meno avere una capacità internazionale limitata, corrispondente alla propria sovranità.
Come scriveva Santi
Romano “effetto della mancanza di sovranità è la limitazione della capacità
internazionale degli Stati protetti o tutelati”[3].
E il tutto si ripercuote
non soltanto sulla capacità internazionale ma anche sulla responsabilità per
eventuali illeciti. Lo Stato dipendente (protetto, federato) il quale non gode
di (piena) sovranità risponde, soltanto nei limiti delle attività che può
svolgere, nei confronti (anche) degli altri soggetti internazionali; ma per i
rapporti di competenza dello Stato protettore, a seconda dei casi può (o deve)
rispondere quest’ultimo.
Contrariamente a quanto
pensano certi globalisti è proprio la sovranità a fondare la capacità di
obbligarsi e il dovere di responsabilità. È ad essa quindi che dobbiamo la
possibilità di esistenza (ed applicazione) di norme giuridiche pattizie.
In secondo luogo, e
strettamente connesso al precedente, le regole possono emanarsi sia con accordi
liberamente assunti dai soggetti che con comandi che un soggetto da agli altri.
Per cui se una dimensione d’interessi
è di competenza di più Stati la relativa regolazione può essere data con
accordi tra gli Stati coinvolti, proprio in forza di quella - tanto disprezzata
e deprecata - sovranità. In alternativa uno Stato (o un’altra istituzione) che
si trova a esercitare poteri di comando sugli altri, può ordinare che valga la
regolazione da esso imposta; non è vero quindi che la sovranità ostacoli la
regolamentazione; ma è verissimo che impedisce che sia imposta una normativa non pattizia.
In terzo luogo, si
ritiene che i globalizzatori sono coloro che sostengono gli interessi
dell’umanità, mentre i sovranisti quelli particolari degli Stati.
Tale affermazione è
assai discutibile in fatto, perché presuppone che chi afferma di sostenere quelli dell’umanità, abbia il potere di
comandare a coloro che dicono di sostenere quelli dei popoli. Ma questo a sua
volta presuppone che gli uni e gli altri siano in buona fede. Il che, a quasi
cinque secoli dalla pubblicazione del “Principe” appare un atto di fiducia (e
credulità) foriero di molte delusioni. Avete mai sentito parlare di propaganda?
E sostenere che un
soggetto concreto debba essere sottoposto alla decisione di un altro soggetto
concreto – nella specie un organismo internazionale ovvero (forse) una
coalizione di Stati – perché questo tutela (interessi, valori o quant’altro) di
carattere superiore ripete, mutatis
mutandis la controversia tra Hobbes e i teologi cattolici della
controriforma sul rapporto tra autorità spirituale (il Papa) e temporale. Come
scrive Schmitt, il filosofo inglese “mette in discussione la pretesa che il
potere statale debba essere soggetto al potere spirituale, poiché quest’ultimo
costituisce un ordinamento superiore”[4].
La tesi di Hobbes era in
polemica con quella di S. Roberto Bellarmino, il quale difendeva la concezione
della potestas indirecta in temporalibus
del Pontefice. Il filosofo di Malmesbury la contestava con pluralità di
argomenti: che manca il consenso dei governati[5],
ma solo la pretesa di aver avuto tale potere da Dio[6]
ed il potere, a parte il fondamento, è sempre lo stesso[7].
Quando poi controbatte l’argomento del Bellarmino sulla gerarchia dei poteri
(che si riflette in gerarchia delle persone), applica in un certo senso il
rasoio di Ockam: il rapporto di potere – ossia di comando/obbedienza è relazione
tra persone concrete e non entità astratta[8].
Se si fanno discendere
dal cielo alla terra le argomentazioni del teologo e del filosofo, la
somiglianza tra la concezione del primo con quella dei globalisti è evidente.
Entrambe sono volte a
provare il diritto di chi detiene (o sostiene di possedere) un potere superiore a comandare coloro che ne
esercitano uno inferiore. Là per
volontà divina e per il bene delle anime, qua per coinvolgimento di un numero
maggiore di esseri umani – fino all’intera umanità ed al suo territorio, il pianeta – e per la bontà
delle intenzioni. La novità di questa concezione, rispetto a quella, oggigiorno
enormemente più invocata, dei “diritti umani” è di argomentare più dagli
interessi che dai valori.
Ma le fallacie in cui
incorre solo le stesse: la non necessità di istituzioni apposite (sia che si
tratti di Stato che di enti, Tribunali ed altro) per regolare ciò che è comune
a più popoli, e la ineluttabile necessità, di converso, se si vuole imporre la decisione (maggioritaria?) ai
dissenzienti. Il problema poi sotteso è di come imporre ai recalcitranti sia le istituzioni globali sia
le di esse decisioni. Si fa loro la guerra? E giacché col farlo si viola il
buonismo/irenismo imperante – oltre che essere gravemente contraddittorio con
lo stesso -, le si deve cambiare nome.
Escamotage già usato con le operazioni di polizia
internazionale -, ossia le guerre promosse e condotte da coalizioni di Stati benintenzionati contro Stati canaglia dissenzienti e
malintenzionati. Così violando i principi del diritto internazionale Westphaliano,
in primo luogo che par in parem non habet
jurisdictionem. Che invece in nome di un interesse superiore si pretende di
avere. Meglio allora un sistema
che, con tutta le sue crepe, si basa ancora sulla sovranità. E, di
conseguenza, sul diritto dei popoli a scegliere il proprio destino.
Teodoro
Klitsche de la Grange
[1] Du
Pape II, 1
[2] Il popolo è fatto per il sovrano, come
il sovrano per il popolo; e l’uno e l’altro esistono (son faits) perché ci sia una sovranità … Nessun sovrano senza
nazione, come nessuna nazione senza sovrano”. Op. loc. cit..
[3] Corso
di diritto internazionale, Padova 1933, p. 117 e prosegue “limitazione che
si ha non solo verso lo Stato protettore o la Società delle nazioni, ma anche
verso i terzi, il che conferma che non si tratta di semplici obbligazioni, ma
di una posizione personale… data la grande varietà che il protettorato può
assumere, è difficile formulare principii
generali, ma si può affermare che essi implicano sempre una limitazione della
capacità di diritto e inoltre la perdita in taluni casi, o la diminuzione in
altri, della capacità di agire”
[4] Teologia
politica in Le categorie del politico,
Bologna 1972, p. 57; e prosegue “Ad una argomentazione del genere egli
risponde: se un «potere» (power, potestas)
dev’essere sottoposto all’altro, ciò significa soltanto che colui che ha il
primo potere dev’essere sottoposto a colui che ha l’altro potere… Ciò che gli è
incomprensibile («we cannot understand») è che si parli di sopra-ordinato e di
sub-ordinato, preoccupandosi però nello stesso tempo di rimanere sul piano
astratto. «Infatti soggezione, comando, diritto e potere riguardano non poteri
ma persone»”. Cosa che invece i globalisti ritengono opportuno fare.
[5] v. Leviathan
parte III, c. XLII “Quando si dice che il Papa non ha – nel territorio degli
altri Stati – il supremo potere civile direttamente, noi dobbiamo intendere che
egli non pretende ad esso – come gli altri sovrani civili – in virtù della
originale sottomissione di coloro, che debbono essere governati, poiché è
evidente, ed è stato già sufficientemente dimostrato in questo trattato, che il
diritto di ogni sovrano deriva originariamente dal consenso di ognuno di
quelli, che debbono essere governati, sia che lo scelgano per comune difesa
contro un nemico, come quando si accordano tra di loro, per eleggere un uomo od
un’assemblea di uomini, affinché li proteggano; sia che lo facciano per salvare
la propria vita, sottomettendosi ad un nemico conquistatore”.
[6] “ma non cessa tuttavia dall’invocare il
suo diritto da un’altra parte, cioè – senza il consentimento di quelli, che
debbono essere governati – per un dritto datogli da Dio” op. loc. cit.
[7] “Ma da qualunque parte egli lo pretenda,
il potere è lo stesso, e – se fosse accolto come un diritto – egli potrebbe
deporre principi e governi, sempre che ciò fosse per la salvazione delle anime,
cioè sempre che gli piacesse, poiché egli pretende per sé anche l’assoluto
potere di giudicare se ciò sia per la salvazione delle anime umane o no” e prosegue
“Questa distinzione tra potere temporale e spirituale non è infatti che di
parole; ed il potere vien realmente diviso, ed in modo altrettanto dannoso per
tutti i riguardi, tanto col far partecipe altrui di un potere indiretto, quanto
di un potere diretto” op. loc. cit.
[8] “Non vi sono che due modi, per i quali
queste parole possano dare un senso; poiché, quando noi diciamo che un potere è
soggetto ad un altro potere, il senso è o che colui, che ha l’uno, è soggetto a
colui, che ha l’altro, o che l’un potere sta all’altro, come i mezzi al fine.
Infatti noi non possiamo intendere che un potere abbia il potere sopra un altro
potere, o che un potere possa avere il diritto di comandare sopra un altro,
poiché la soggezione, il comando, il diritto ed il potere sono accidenti non
dei poteri, ma delle persone…Quando il Bellarmino dice che il potere civile è
soggetto allo spirituale, egli intende dire che il sovrano civile è soggetto al
sovrano spirituale” op. loc. cit..
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