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Antonio Pilati, La
catastrofe delle élite, Edizione Guerini e Associati, Milano 2018, pp. 143,
€ 17,50.
Dopo un silenzio
durevole quanto innaturale, seguito da svalutazioni stizzose (tutt’altro che
esaurite) da parte dalle élite in via di detronizzazione dopo il 4 marzo (le
“idi di marzo” – anticipate rispetto al calendario romano – della seconda
repubblica), la letteratura sul populismo e sul sovranismo ha avuto
un’impennata spettacolare, proporzionale alla pluriennale compressione del dibattito su tale svolta storica. Di libri che ne
parlano, e spesso, come questo, nel senso non di giudicarli rispetto a idee e valori,
ma Wertfrei in ossequio al “fattuale”,
ne escono non meno di uno a settimana. Al punto che, a leggerli tutti, sarebbe
necessario di fare di un interesse una professione: quella di populologo o sovranologo (variante sovranosofo).
Dato che non ho tempo di diventarlo, cerco di recensirne qualcuno. A questo
attento saggio di Pilati mi è venuto in mente che potrebbe essergli assegnato
il premio “eterogenesi dei fini” per l’importanza – tutt’altro che esagerata – data
a tale costante delle vicende umane rispetto agli altri saggi in circolazione.
Una parentesi per
il lettore: con eterogenesi dei fini si definisce quell’azione/i umana/e il cui
risultato è tutt’altro che quello voluto dall’agente. Omne agens agit proter finem, sosteneva S. Tommaso, ma non è detto
che le azioni portino alle conseguenze sperate, progettate, volute.
Ed è proprio
quello che è capitato nella storia di questi anni, e che Pilati evidenzia sin
dalle prime pagine del libro.
Le élite inconsapevoli (così – giustamente –
definite) non hanno né capito quanto stava succedendo – dopo il collasso del
comunismo – né elaborato una strategia che tenesse conto dei dati reali e delle
regolarità del politico (e non solo).
In fondo la rappresentazione più sintetica (o tranquillizzante) di tale visione
l’aveva data Francis Fukuyama col
notissimo saggio sulla fine della storia. Sul quale mi capitò di scrivere che
il filosofo nippo-americano aveva affermato due cose: a) che le democrazie
occidentali avevano vinto il confronto con il comunismo, ossia la guerra fredda
(vero); b) che, venuto meno il conflitto borghesia/proletariato sarebbe venuto
meno – o sarebbe stato eliminato, o almeno, minimizzato - ogni conflitto
(falso). Cioè superata la regolarità amico/nemico. Invece già l’11 settembre
2001 (al più tardi) si aveva uno choc
planetario, che provava quanto fosse frutto di (condivisibili quanto errate)
aspirazioni la tesi di Fukuyama. E già da prima maturavano le condizioni
politiche, economiche e sociali di un nuovo contenuto/scriminante
dell’amico/nemico: quello tra globalizzazione e comunità (e identità). Ma di ciò si è letto poco
fino a tre/quattro anni fa. Per cui chiamare inconsapevoli le élite che hanno
gestito la globalizzazione nel ventennio a cavallo dei due secoli è tutto da
condividere.
Scrive l’autore
che i punti-chiave della globalizzazione non compresi dai governanti di allora,
erano quattro: la crescita economica auspicata creava nuovi squilibri;
indeboliva il primato economico americano; genera divisioni tra Stati e
all’interno degli Stati tra i vincitori (pochi) e i perdenti (tanti) della
globalizzazione; infine le classi dirigenti erano cieche e insensibili alla
“caduta sociale (e al dolore esistenziale) di chi soffre con la nuova
globalizzazione ipertecnologica”. Ma ciò generava una nuova offerta politica, corrispondente alla domanda degli insoddisfatti. “La
spaccatura diventa insanabile e il conto arriva alle elezioni del 2016” (e non
è finita). Anche il tentativo di correre ai ripari, trovando (e costruendo) una
versione pop del Katechon paolino (che era l’Impero romano, istituzione di
tutt’altra consistenza e serietà) si risolve in un’eterogenesi dei fini: “l’invenzione
in provetta dello sprezzante elitista Macron”, peraltro lì per lì riuscita,
pare stia risolvendosi in un’abnorme crescita dell’opposizione anti-elitaria ed
extraparlamentare dei “gilet gialli”. In altre parole le ostetriche dei populisti sono state le élite
inconsapevoli (e mediocri). Scrive Pilati, a tale proposito sull’Italia e sui
governi Monti (e successivi) che la loro azione “accumula stasi dell’economia,
che si traduce in una cronica perdita di attività produttive e di reddito per
molta parte della popolazione, disordine amministrativo, che sfocia nel
proliferare dei poteri di veto,
fragilità nei rapporti internazionali che stringono i vincoli gravanti
sull’Italia e impongono più volte soluzioni onerose (sicurezza, banche,
energia)”.
Da cui la
prevedibile vittoria dei partiti anti-sistema; la quale conseguiva però anche
da un’incapacità di sintesi
sistemica. Mancando questa, il concretizzarsi di un’opposizione anti-sistema, è
una logica conseguenza; e anche d’altro, già evidenziato da Lasch oltre
vent’anni fa.
Tuttavia la
conclusione di questa fase è ancora da venire. “Il voto del 4 marzo 2018, con
il suo dirompente risultato che dà oltre metà dei voti a due movimenti o
neonati (M5S è alla sua seconda elezione nazionale) o appena rifondati (Lega) e
mette ai margini le forze che da un quarto di secolo dominano la scena
parlamentare e fanno i governi, è soprattutto un sintomo di malessere: chiude
una fase storica, ma non mostra la forza e la visione di aprirne una nuova.
Inaugura una transizione incerta, ancora da definire nei suoi tratti operativi,
esposta a molti contrasti e a contrattacchi violenti: più che un momento di
decollo segna una frattura – un’altra – nella storia della politica recente” ma
rispetto alle alte due crisi recenti (Tangentopoli nel ’91-’94 e governo dell’establishment del 2011-2012) c’è qualche
chances in più: “Nei casi trascorsi i
cambiamenti non hanno provocato esiti felici e la crisi italiana nel tempo non
ha fatto che aggravarsi: l’esasperazione testimoniata dai risultati elettorali
lo dimostra. Oggi però è il contesto internazionale, che in passato non ha
giocato per noi, è molto fragile… In Italia la presa dell’establishment, che ha sempre penalizzato gli impulsi innovatori,
appare confusa e contestata, l’innovazione della tecnologia offre chance
favorevoli”. Speriamo bene.
C’è tanto altro in
questo interessante saggio, ma la natura succinta della recensione non consente
di scriverne: ai lettori scoprirlo.
Teodoro
Klitsche de la Grange
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