GIUDICI E GOVERNO
A valutare la
vicenda della Diciotti secondo i parametri (prevalenti nei commenti sui media) dell’ “uno vale uno” e della
legalità (egualitaria) si perde solo tempo in discussioni senza senso e senza
base. Meglio ragionare in termini a un
tempo più realistici e più ordinamentali,
e tener conto del pensiero politico-giuridico qualitativamente prevalente.
La questione è se
Salvini (ma ormai mezzo governo) debba essere giudicato per aver tenuto la
Diciotti e i suoi migranti “a bagno maria” non permettendone lo sbarco. A seconda
dell’angolo visuale da cui si guarda la vicenda il tutto può costituire un
reato (approccio giuridico-causidico-forenzese) ovvero una misura per la tutela
di un interesse azionale (visione politico-ordinamentale). E può essere – e
tante volte nella storia lo è stato – entrambi: un reato cioè, ma, al tempo.
una misura politicamente opportuna. Scriveva Vittorio Emanuele Orlando (il
quale da giurista e statista se ne intendeva)
che se avesse dovuto essere processato per tutti i passaporti falsi che
aveva rilasciato da Ministro, avrebbe trascorso in galera tutta la vita. Solo
che quei passaporti falsi “s’avevano da dare” per raccogliere le informazioni
opportune per vincere la guerra. Ossia a rispettare la legge avrebbe compromesso
l’interesse nazionale. E dato che salus
rei publicae surtema lex, la via “retta” era (ed è) evidente.
Ciò non toglie che
debba esserci un rimedio per conciliare le opposte conseguenze che derivavano
dalla prospettiva (visuale) diversa.
Dato che lo Stato
democratico-liberale è uno status mixtus
che si regge sia sui principi di forma politica che su quelli dello stato
borghese, il sistema per conciliare i punti di frizione è stato particolarmente
sviluppato. E la giustizia penale sui politici è quella che ha raccolto più
interesse anche “mediatico” da qualche secolo. Anzi già da prima Machiavelli
scriveva che la giustizia “politica” è opportuna in una repubblica: ma di stare
attenti alla composizione dell’organo giudicante “perché i pochi sempre fanno a
modo de’ pochi”. Dalla riflessione dei teorici dello Stato borghese (Constant
per primo) si desume che la giustizia “politica” non può che essere derogatoria: non cioè uguale a quella
ordinaria. Ne deriva che secondo Carl Schmitt “il carattere politico della
questione o l’interesse politico all’oggetto della controversia può venire così
fortemente in risalto che anche in uno Stato borghese di diritto deve essere
presa in considerazione la caratteristica politica di questi casi…per specie
particolari di vere controversie giuridiche è previsto a causa del loro carattere politico un procedimento
speciale o una speciale istanza (in cui)… deriva sempre il caratteristico
allontanamento dalla forma giurisdizionale tipica dello Stato di diritto, la
considerazione del carattere politico attraverso particolarità organizzatorie o
d’altro genere con le quali si attenuta il principio tipico dello Stato di
diritto della giurisdizione generale”.
Se però tali
deroghe e particolarità non sono poste in essere le conseguenze sono:
1) che l’organo
competente a decidere diventa un’istanza politica o addirittura l’organo reale
di direzione politica (così da ufficio giudiziario diventa autorità politica).
Lo Stato non è più uno Stato democratico-rappresentativo, ma uno Justizstaat, ossia uno Stato
giurisdizionale. E l’organo deputato alla giustizia politica è quello politicamente
più influente come, un tempo il Consiglio dei dieci a Venezia.
2) che se i
magistrati costituiscono una burocrazia reclutata per concorso – come avviene,
per lo più, nelle democrazie moderne – il carattere democratico-rappresentativo
dello Stato va perso. Avendo il potere di carcerare chi governa – nei fatti
rimuovendolo – a decider chi deve governare sarebbero i Tribunali e non i
governati che li hanno eletti.
Per ovviare a
questo evidente inconveniente un
giurista francese, Duguit, riteneva che l’organo di governo (nella specie il
Capo dello Stato) potesse continuare a svolgere le proprie funzioni pur in
stato di detenzione.
A questa soluzione
Orlando replicava ironicamente: come avrebbe fatto il Presidente detenuto a
ricevere un ambasciatore o anche un altro capo di Stato invece che all’Eliseo,
“in una cella della prigione della Santé”?
E il giurista
siciliano continuava qualificando impostazioni come quelle “aberrazioni, contro
cui resiste la forza delle cose” cioè la realtà dell’istituzione politica,
nella quale, con riguardo al problema, occorre conciliare il principio di
responsabilità con la necessità
dell’inviolabilità (assoluta o relativa) di determinati organi dello Stato.
Cosa che si realizza nella democrazia, rimettendo il giudizio sul governante ai
governati, cioè al corpo elettorale, che come ha il potere di eleggerlo, così
quello di rimuoverlo (direttamente o indirettamente).
Teodoro
Klitsche de la Grange
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