Carl Schmitt (1888-1985) |
Antonio Caracciolo
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CARL SCHMITT,
Dialogo sul potere,
Adelphi, Milano 2012, pp. 124, € 7,00.
Sono pubblicati in questo volume due dialoghi di Schmitt, trasmessi negli anni ’50 dalla Radio tedesca.
Il primo “Dialogo sul potere e sull’accesso al potente” era stato tradotto in italiano (da Antonio Caracciolo) e pubblicato sul numero 2 di Behemoth. Tratta in particolare dell’accesso al potente e del “sotto-potere” che ne deriva allo “staff” del capo-politico.
La problematica del potere è sintetizzata da Schmitt in diversi punti: “fintanto che ci sono uomini che obbediscono a un altro uomo quest’ultimo detiene, grazie a loro, il potere. Se non gli obbediscono più, ecco che il potere svanisce...Perché gli uomini tributano il loro consenso al potere?... Dal punto di vista umano il legame tra protezione e obbedienza rimane l’unica spiegazione del potere. Chi non ha il potere di proteggere qualcuno non ha nemmeno il diritto di esigerne l’obbedienza. E viceversa: chi cerca protezione e la ottiene non ha il diritto di negare la propria obbedienza”; il potere ha un “plusvalore” maggiore della somma dei consensi che ottiene. Esso “è una dimensione peculiare e autonoma, anche rispetto al consenso che lo ha creato, e vorrei mostrarle ora che lo è anche rispetto allo stesso potente. Il potere è una dimensione oggettiva e autonoma rispetto a qualsiasi individuo umano che di volta in volta lo detiene”. La necessità che ha il potente di collaborazione è la ragione del potere dell’apparato “Ogni potere diretto è quindi immediatamente sottoposto a influssi indiretti. Vi sono stati potenti che, avvertendo tale dipendenza, sono stati colti da accessi di collera furibonda” per cui “davanti a ogni camere del potere diretto si forma un’anticamera di influssi e poteri indiretti, un accesso all’orecchio del potente, un corridoio verso la sua anima. Non c’è potere umano che non abbia questa anticamera e questo corridoio”.
Il potere, insiste Schmitt ha una dimensione e una logica autonoma, esulante dall’uomo che lo esercita. Fino al XVIII secolo valeva l’affermazione di S. Paolo che il potere è “buono” perché voluto da Dio; da quando il diritto divino è stato “detronizzato” è in genere ritenuto “cattivo” “É strano infatti che la tesi del potere cattivo abbia iniziato a diffondersi proprio a partire dal XIX secolo. Non eravamo giunti alla conclusione che il problema del potere sarebbe stato risolto, o comunque appianato, in virtù del fatto che esso non deriva né da Dio né dalla natura, bensì è qualcosa che gli uomini stabiliscono tra di loro? Di che cosa mai dovrebbe avere ancora paura l’uomo, se Dio è morto e il lupo non spaventa più nemmeno un bambino?. Eppure, esattamente a partire dall’epoca in cui sembra compiersi questa umanizzazione del potere – cioè dalla Rivoluzione francese -, si diffonde irresistibilmente la convinzione che il potere sia in sé cattivo. Il detto «Dio è morto» e l’altro «Il potere è in sé cattivo» nascono nel medesimo tempo e dalla medesima situazione. E in fondo significano la stessa cosa”.
Queste tesi sul potere, strettamente collegate, costituiscono esattamente l’inverso delle concezioni diffuse nell’era contemporanea, in contrasto all’evidenza della realtà. La dimensione e la logica autonoma del potere è conseguenza della finalità dello stesso: la protezione della comunità. Per cui è “buono” ciò che ne conserva l’esistenza e “cattivo” quanto la compromette.
Uno statista non può ma deve infrangere leggi e norme morali, anche quelle di cui sia convinto, se necessario a quello scopo: l’etica dell’uomo politico è, come sosteneva Max Weber, (prevalentemente) un’etica delle responsabilità e non dell’intenzione. Quanto al luogo comune, tanto diffuso sui rotocalchi, del moralismo legalitario, Schmitt pensava che “da uomo pensante mi vergognerei di sostenere che il potere è buono se ce l’ho io ed è cattivo se ce l’ha il mio nemico. Dico solo che è una realtà autonoma rispetto a ciascuno, anche rispetto al potente, che il potere irretisce nella propria dialettica. Il potere è più forte di ogni volontà di potenza, più forte di ogni bontà umana e, per fortuna, anche di ogni umana cattiveria”.
Il secondo dialogo è nella scia degli scritti del “secondo” Schmitt (da Land und meer al Der Nomos der Erde) sulla situazione geo-politica nel secondo dopoguerra. I tre personaggi: Altmann, Neumeyer e MacFuture rappresentano tre posizioni, riferibili al pensiero “classico” a quello moderno e a quello futuro (o futuribile) e a tre “spazi”: terra, mare e cosmo.
La dialettica tra terra e mare, più volte è stata ripresa da Schmitt nelle opere cennate, e non è luogo ripeterla: qui vi si aggiunge la dimensione dello spazio cosmico (sostenuto da MacFuture) quale “nuova frontiera” dell’espressione umana (e più concretamente delle potenze imperiali).
Ciò che è più originale di questo dialogo non è pertanto tale contrapposizione, ma come è posto il problema del potere e della tecnica, in un mondo da poco sconvolto dalle prime esplosioni atomiche, terrificante risultato della tecnica moderna. Schmitt lo riconduce all’ordine concreto, e non a scenari futuribili “Mi sembra anzi che la tecnica scatenata, più che aprire nuovi spazi all’uomo, lo chiuda in gabbia. La tecnica moderna è utile e necessaria, ma è ben lungi dall’essere a tutt’oggi la risposta a una chiamata. Essa soddisfa bisogni sempre nuovi, in parte indotti da lei stessa. Per il resto è proprio lei a essere messa in questione, e già per questo non può essere una risposta... Colui che riuscirà a catturare la tecnica scatenata, a domarla e a inserirla in un ordinamento concreto avrà risposto all’attuale chiamata assai più di colui che con i mezzi di una tecnica scatenata cerca di sbarcare sulla Luna o su Marte. La sottomissione della tecnica scatenata: questa sarebbe, per esempio, l’azione di un nuovo Ercole! Da questa direzione sento giungere la nuova chiamata, la sfida del presente”. E in effetti il problema di fronte ad ogni nuova sfida è come inserire le forze che questa suscita o scatena in un ordine concreto, che ne consenta, si direbbe oggi, con termine accattivante e riduttivo, la “governabilità”.
Teodoro Klitsche de la Grange
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