giovedì 29 aprile 2010

Freschi di stampa: 41. Robert Fisk: «Il martirio di una nazione» (2010). L’immagine israeliana del palestinese.

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1.

La superiore moralità dell’esercito israeliano

Stiamo procedendo nella lettura sequenziale del libro di Robero Fisk, Il martirio di una nazione, di cui approntiamo qui una scheda di recensione. Procedermo per nostri paragrafi a seconda di ciò che la lettura continuerà ad ispirarci. Dello stesso autore abbiamo già letto, in lettura rigorosamente sequenziale, cioè pagina dopo pagina, riga dopo riga, senza salti in diagonale, selezionando parti interessanti da leggere e poco o per nulla interessanti da poter saltare, un altro corposo volume: Cronache mediorientali. Non solo li abbiamo letti per intero questi libri, ma dovremo anche rileggerli perché è troppo vasta la massa dei dati da ricordare. Prevediamo pertanto almeno una seconda o terza lettura. Qui però in corso di lettura del «Martirio di una nazionale», vogliamo dare brevi estratti, citazioni, cui aggiungeremo un nostro necessariamente ampio commento per non incorrere in eventuali violazioni del copyright. La nostra è dunque una citazione del testo, la più striminzita possibile, e non una selezione antologica, che avrebbe bisogno di autorizzazioni che non sapremmo a chi chiedere, ma a chi può spendere i 35 euro di costo del libro ne raccomandiamo (= pubblicità commerciale gratuita) l’acquisto e soprattutto una lettura critica, seguita da discussione e dibattiti con le persone della propria cerchia privata. Rispetto alle mie personale vedute, i ambito storico e politico, Robert Fisk non è il non plus ultra, ma apprezzo la sua onesta informazione, assai rara presso i comuni giornalisti, della cui pasta del resto lo stesso Fisk ci informa, quando dice che non uscivano mai dall’albergo e chiedevano ai camerieri quelle notizie che poi noi avremmo letto sui nostri maggiori quotidiani o sentito riportare dalle televisioni.

Nella nostra lettura siamo giunti a pagine 278 su oltre ottocento di tutto il libro. Nelle pagine precedenti abbiamo appreso alcune nozioni importanti che già avremme desiderato condividere con i miei 19 lettori registrati. Provo qui a riassumere l’essenziale. Per chi segue i comunicati della propaganda israliana e sionista capita di imbattettersi in un loro pezzo “forte”, credono loro. Si tratta della vicenda del muftì di Gerusalemme, che avrebbe avuto “pericolose relazioni” con Hitler e il nazismo. Dedicheremo maggiori approfondimenti a questa vicenda che seguiamo con interesse. Qui la riassumiano per sommi e ci riserviamo di correggere in un secondo tempo eventuali imprecisioni, ovvero di fornire nomi e date, qui tratti a memoria.

Studiando la martoriata storia della Palestina ci si imbatte nella ribellione palestinese del 1936-39, che fu duramente repressa dagli inglesi. Venne allora falcidiate tutta la dirigenza politica palestinese, per cui la popolazione della pulizia etnica della palestinese nel 1948 era alla completa mercé dell’esercito israeliano, che da tempo aveva elaborato il suo piano Dalet, che prevedeva appunto l’espulsione degli abitanti originari della Palestina (Si noti: pulizia etnica = genocidio, per la cui equiparazioni si rinvia a Ilan Pappe). Un popolo, a differenza di una moltitudine (gente che passa da una stazione ferroviaria, entra o esce dallo stadio), ha bisogno dei suoi capi e delle sue elites dirigenti. La politica costante di Israele, dal 1948 in poi, ma anche prima, in pratica un disegno politico insito nel sionismo, è stata sempre di trasformare in moltitudine dispersa il popolo palestinese: il sionismo ha sempre respinto il concetto di “popolo” palestinese. Chi non capisce quanto razzismo vi sia in ciò, semplicemente non sa cosa il razzismo sia.

Ebbene, il muftì sopravvisse alla repressione della rivolta palestinese del 1936-39, ma fu dagli inglesi condannato all’esilio: non poteva ritornare in Palestina durante il mandato inglese e meno che mai quando la Palestina passò in mano sionista. Attenzione: lasciate perdere Wikipedia. È in mano sionista! Chiuso l’inciso. Che all’estero e dall’estero il mufti si adoperasse in favore del suo popolo martoriato è cosa che non dovrebbe scandalizzare una persona di buon senso. Ed invece la propaganda israeliana dà mandato ai suoi agenti di buttare sempre il pezzo del mufti nazista, visitatore di Hitler e simili. Le associazioni mentali che si intendono in questo modo suscitare sono facili da immaginare e non occorre qui illustrarle. Ma udite udite!

Leggendo appunto il libro di Robert Fisk ci si imbatte nel nome Gemayel e nelle sue “falangi”, che di rapporti con il “nazismo” ne ha avuti certamente di più sostanziali di quelli del mufti. Per andare subito al sodo: le falangi sono i sicari “nazisti” che su commissione e con la tacita intesa di Sharon e di Israel commisero il massacro di Sabra e Shatila. Ma non solo quello. La loro presenza accanto alle truppe israeliano durante e prima l’invasione israeliana del Libano nel 1982 non fu per nulla marginale. Non sviluppiamo qui il concetto, cosa che abbiamo fatto altrove, ma ai propagandisti filoisraeliani che parlano del mufti “nazista” è facile obiettare che i rapporti fra nazismo e sionismo furono eccellenti e forse ininterrotti per tutta la durata del nazismo. Quindi, a chi ti dice: mufti; puoi efficacemente rispondere Gemayel, o Sabra e Shatila.

Ancora un concetto che ho compreso grazie a Robert Fisk. Cosa erano andati a fare gli israeliani in Libano? Cosa vogliono gli israeliani non solo dal Libano, ma da tutti gli stati limitrofi? All’osso: Gemayel, il “nazista” puro e duro, fedele servitore di Israele, aspirava ad essere insediato alla presidenza del Libano con l’aiuto dell’esercito israeliano. È vero che esiste qualche vecchio documento sionista che sposta i confini di Israele fino a tutto il Libano, ma resta un obiettivo a lunga scadenza. Una fase intermedia potrebbe essere quella di un regime di personaggi quisling, come appunto un Abu Mazen, o in misura diversa un Mubarak. La politica isrealiana, che si serve degli Usa e della lobby ivi stanziata, è di spingere alla guerra potenze maggiori per poi lucrare sulla capcità di determinare la politica estera americana. In pratica, voi fate la guerra per conto nostro e noi poi passeremo a raccogliere tutti i vantaggi. Ben venga la guerra a tutti i paese del Medioriente: Iraq, Afghanistan... Iran! Poi passeremo noi e ci faremo fare, per legge, tanti bei musei... dell’Olocausto!

Ecco dunque introdotta la citazione dal libro di Fisk. Siamo al momento in cui l’esercito israliano nel 1982 è giunta a Beiruth. Fisk intervista un soldatino, di quelli con la faccio da ragazzino, ma che sparano e ammazzano ed il cui “razzismo” è solare evidenza. Chiedo scusa per la lunga prefazione, ma era per poter giustificare l’ampia citazione, qui di seguito, cui seguirà una coda di commento:
Molti degli israeliani erano ebrei sefarditi e chiacchieravano in arabo con i miliziani falangisti che scendevano dalle postazioni delle batterie posizionate sulla collina sovrastante. Alcuni ufficiali erano ashkenaziti, come quelli che avevamo visto due giorni prima. Eppure qualcosa era cambiato. Non era solo l’assenza dei musulmani in gita, e neppure l’arroganza che adesso i falangisti lasciavano trapelare nei nostri confronti davanti agli israeliani, strappandoci di mano le tessere stampa, ordinandoci di tornare a Beirut Ovest e puntandoci contro i fucili quando protestavamo. Aveva qualcosa a che vedere con il modo distratto in cui gli israeliani chiedevano loro di lasciarci in pace. L’automatica accettazione da parte degli israeliani del fatto che le Falangi - una milizia che aveva antecedenti politici tanto foschi nell’Europa degli anni trenta - avessero diritto di partecipare a questa guerra faceva paura. Non si rendevano conto che la stessa parola «Falangi» parlava di dittatura e antisemitismo europeo? Non sapevano che molti di questi miliziani falangisti consideravano i palestinesi dei subumani degni solo di essere sterminati, con esattamente gli stessi sentimenti che i nazisti avevano manifestato nei confronti degli ebrei?

Il tenente israeliano che ci si avvicinò era un giovane a cui i capelli ricci e gli occhiali con la montatura argentata davano un’aria gentile, quasi ascetica. Di primo acchito mi sembrò che stridesse decisamente con i carri armati e i camion per il trasporto truppe posizionati sulla collina sopra il campo di battaglia. I cannoni falangisti stavano sparando dalla loro postazione accanto alla chiesa maronita alla nostra sinistra, quando il soldato ci venne incontro con un tranquillo “Shalom” e si prestò spontaneamente a spiegarci con fare professorale che il pezzo d’artiglieria era un 155 mm. Sotto di noi, nella stretta piana che separava le colline dal mare e dall’aeroporto abbandonato, le granate continuavano a scoppiare sulla facoltà di Scienze, fiammate che correvano lungo il fianco dell’edificio cromato.

«Laggiù e nel campo profughi sulla destra ci sono terroristi» disse il giovane soldato, muovendo la mano genericamente in direzione di Beirut Ovest. Aveva vissuto in Francia per gran parte della sua giovinezza, ed era emigrato in Israele solo sei anni prima, per cui parlava inglese con un forte accento francese. In autunno avrebbe dovuto cominciare la sua prima sessione alla facoltà di Legge di Gerusalemme. Ma ora era un soldato, aveva combattuto, partendo dal Libano meridionale e passando per Tiro, facendosi strada fin qui, ed evidentemente sapeva che non tutti approvavano quello che aveva fatto il suo esercito negli ultimi dieci giorni. Aveva visto le rovine di Sidone.

«Immagino che non sia stato esattamente bello» disse. «Ma uno deve fare il proprio lavoro. Sapete, voi giornalisti non dovreste mai dimenticare come diventano i villaggi della Galilea dopo essere stati bombardati.» Guardammo insieme il fuoco delle granate che si abbatteva su Hadath, mentre i falangisti spostavano i loro pezzi d’artiglieria verso destra, facendo salire nuvole di fumo grigio dal limite del campo di Burj al-Barajne. Ma non pensava, gli chiedemmo, che forse la distruzione e il massacro dei giorni passati in Libano - si stimava che a quel punto fossero state uccise quasi 10mila persone - fossero in qualche modo sproporzionati rispetto a quanto accaduto nel Nord di Israele?

La sua risposta fu immediata. «Non fa differenza tra un morto e mille morti» disse. «Fanno male allo stesso modo. Vedere i bambini e le donne morti qui non è molto piacevole, ma in questa guerra sono tutti coinvolti, anche le donne, per cui non possiamo sempre punire esattamente la gente giusta, perché altrimenti ci costerebbe troppi morti fra i nostri uomini. E credo che per noi - spero possiate capirlo -la morte di un soldato israeliano sia più importante della morte di anche svariate centinaia di palestinesi. Non è una partita di calcio. Voglio dire, non è la quantità di morti che conta: è quello che stiamo cercando di fare. Io spero che in Libano ci sarà la pace, e se questo costerà molte vite, be', non c'è altro da fare».

Il ragazzo non sembrava rendersi conto delle contraddizioni insite in quel ragionamento. Disse che Israele stava cercando di trovare una soluzione per gli anni a venire, «forse la pace, un governo cristiano, o magari anche un accordo con i musulmani che ci permetta di vivere in pace con almeno uno dei nostri vicini». Non considerava l’Egitto in pace con Israele - si rifiutò di dirci perché - ma parlava di Israele come di un paese con una missione.

«Qui c’è davvero la possibilità di una pace duratura, perché la gente ha bisogno di noi» disse. «Noi abbiamo bisogno di avere relazioni pacifiche con loro, ma loro hanno bisogno di noi perché siamo più forti, siamo meglio organizzati, possiamo aiutarli. La gente può piacerci o non piacerci, ma abbiamo bisogno di loro perché è nel nostro interesse». C’era un che di troppo zelante in questo soldato, qualcosa di messianico nelle ragioni per cui era lì. Ci sentivamo a disagio, le sue parole ci innervosivano. Stavo registrando la conversazione per la radio canadese, ma lui sembrava piuttosto noncurante del microfono che gli tenevo davanti. L’artiglieria falangista sopra le nostre teste sparò ancora una volta, e dal complesso universitario sotto di noi si alzarono nuovamente le fiamme. Si udi il prolungato crepitio delle mitragliatrici, la forza che si manifestava attraverso il fuoco.

E che ne sarebbe stato, gli chiedemmo, dei palestinesi? li soldato israeliano sospirò leggermente, come se avesse sempre saputo che prima o poi quella domanda sarebbe arrivata. «Senta» disse «so che sta registrando, ma personalmente vorrei vederli tutti morti. Può mandare la registrazione dove le pare: vorrei vedere tutti i palestinesi morti perché sono un male dovunque vadano».

«Non è esattamente la stessa cosa» gli chiedemmo «che diceva Hitler degli ebrei?» «Sì, ma c'è una leggera differenza» ribatté lui «perché i palestinesi ricevono aiuto e qui attorno ci sono molti paesi pronti ad appoggiarli e ad aiutarli. Ma è tutta ipocrisia, vede? I paesi arabi li aiutano solo per distruggere Israele. Non sono interessati al loro benessere. So che è un modo un po’ duro di metterla giù, perché forse sono un po’ suscettibile a riguardo. Personalmente, non mi dispiacerebbe vedere tutti i palestinesi morti, né contribuire a raggiungere questo scopo».

Qualcosa di profondamente inquietante stava esplodendo nell’animo del giovane soldato, qualche fobia potente quanto l'artiglieria sopra di noi. Era come se il tenente avesse improvvisamente e inspiegabilmente deciso di sacrificare la sua moralità al potere di un emozione ben più sinistra. Forse fu il microfono a farlo esitare poco dopo. «So che non suona molto bello, e . .. » Si fermò per alcuni secondi, come se stesse cercando di agguantare i propri pensieri, di riprendere il controllo delle cose che gli erano sfuggite in quella manifestazione di odio. Alcune granate sibilarono sopra le nostre teste e pochi secondi dopo se ne udirono le esplosioni sorde sotto di noi. «Dicevate di Hitler. Conosco l’argomentazione secondo cui gli ebrei hanno sofferto per mano di Hitler e nessun altro deve subire la tirannia degli ebrei. Ma non la capisco. Il nostro primo interesse è vivere in pace e prosperare nel nostro paese, e se qualcuno ci disturba e cerca di distruggerci, non c’è ragione per cui non dovremmo distruggerlo per primi noi. Sa, viene detto anche nella Bibbia».

Nella piana sotto di noi lo scontro a fuoco stava crescendo di intensità e questo sembrava influenzare il soldato israeliano, la cui mano destra si era fermata sulla canna del fucile. «Io non dico: “Uccidiamo tutti”. È solo un desiderio. Personalmente, non penso che il nostro governo si assumerebbe la responsabilità di massacrare tanti palestinesi. Ma in ogni caso il minimo che possiamo fare è distruggere il loro potenziale militare e la loro organizzazione diplomatica».

I pensieri del soldato tornarono sulla questione della potenza israeliana. «Ma noi siamo forti» disse. «Su questo non c’è dubbio. E siamo forti abbastanza per poter scegliere [. .. ] Se non entriamo adesso a Beirut Ovest, non è perché non possiamo: è perché non vogliamo. Ma adesso siamo in una posizione di forza. Spero che i palestinesi non tornino mai nel Sud. A meno che qui non si instauri una vera e propria presenza militare - e spero che non sarà israeliana, ma piuttosto americana, o delle Nazioni Unite - a meno che non si instauri questa presenza, i palestinesi torneranno nel giro diqualche anno e tutto questo sarà stato inutile».

Anche adesso, quando riascolto la registrazione di quell’incredibile intervista (il nastro disturbato dalle granate dei falangisti sparate sopra le nostre teste), sento la mia voce farsi stridula per l’incredulità ad alcune delle parole del soldato. Oggi mi rendo conto che si trattava di un’affermazione straordinariamente profetica. Allora era solo un altro segno di quanto stava per accadere, un esempio dello slittamento morale che avrebbe trasformato l’invasione nella prima sconfitta militare israeliana.

Salutammo molto cortesemente il giovane tenente, che fece persino scattare la mano destra alla fronte in una sorta di cordiale saluto militare. Guardammo di nuovo giù, in direzione della piana, dove ora il fumo proveniente dal complesso universitario aveva formato un ristagno di nuvole scure sulla parte occidentale della città, un cerchio sudicio che aleggiava sul mare fondendosi impercettibilmente con la foschia causata dal calore. La pace avrebbe continuato a costare vite umane.

R. Fisk, Il martirio di una nazione,
ed. cit., p. 275-78.


Mi chiedo se di fronte a questa intervista la ministra Germini consentirà a me di “allibire”, lei che allibisce facilmente di fronte a dichiarazioni a me attribuite. Mi chiedo anche se mai “allibirà” alla lettura di questa intervista del 1982 o se al contrario – come vi è da temere – non pensa di individuare il “soldatino” descritto da Fisk e di proporlo a qualche sindaco d’Italia per una “cittadinanza onoraria”: faremo la fila per stringergli la mano!

Ma passo rapidamente ad alcune considerazioni tratte dalla lettura del brano sopra riportato.

1°) Ho detto che apprezzo i libri e le interviste di Robert Fisk, con qualche riserva critica. Intanto il giornalista britannico è nato nel 1946, cioè dopo la seconda guerra mondiale, o meglio al termine della trentennale guerra civile europea (1914-1945). Quando parla di nazismo può solo ripetere ciò che ha sentito o ha letto, ma in Libano e in altri luoghi del Medio Oriente ci è stato di persona e per questo scrive di cose che ha visto, spesso a rischio della sua vita. Lui non se ne stava in albergo, come la maggior parte dei suoi colleghi, ma andava direttamente sul luogo della guerra, dove il rischio di lasciarci la pelle era elevato, e più volte Fisk ha corso questo rischio. Gli si deve perciò tutto il rispetto, ma apprendiamo da lui, quando egli ci dice delle cose che ha visto e non quando parla di cose che non ha visto e che forse non conosce bene, condividendo un diffuso pregiudizio, la cui creazione è dovuta al governo di quel ragazzino, già sporco di guerra e ormai privo di innocenza, che era andato ad intevistare circa 18 anni fa.

2°) Quanto al ragazzino leggiamo sopra che lui in Israele, ovvero in Palestina, ci era venuto da appena sei anni! Era venuto dalla Francia! Ma i palestinesi che lui mostra di odiare così tanto e di voler cancellare dalla faccia della terra – lui erede delle “vittime” – ci sono nati, e prima di loro i loro padri e i loro nonni, per secoli e per millenni. La «Bibbia» di cui forse assai impropriamente parla comanda innanzitutto: non uccidere, non rubare, etc. Quanti sono andati a privare i palestinesi delle loro vite e delle loro case hanno tutti ucciso e rubato. In nome di un Dio? Del loro Dio? Se fosse così, non abbiamo nessuna esitazione a respingere loro stessi e il loro Dio. Ma avendo letto qualche libro (v. Rabkin) non sappiamo che sionismo e giudaismo sono probabilmente del tutto incompatibili. Voglio crederlo! Se così non fosse, la faccenda sarebbe maledettamente assai più grave.

3°) Un altro elemento di riflessione, che ritengo altamente verosimile, tocca l’essenza della politica sionista e israeliana. La loro immagine del palestinese, se non è quella preferita e più gradita del palestinese morto e meglio dell’arabo morto, giacché hanno bandito dal loro vocabolario ufficiale il nome palestinese, è l’immagine dello schiavo, dell’essere inferiore al quale si offre di benevolenza, se si sottomente e diventa servile. Il giovanotto dimostra di aver ben capito il nocciolo della costante politica israliana: distruggere qualsiasi organizzazione militare e diplomatica ovvero statuale del popolo palestinese. Il che equivale ad un autentico genocidio, che non è la semplice uccisione fisica di una sommatoria di individui, ma l’eliminazione “politica” di un popolo in quanto soggetto politico. È un fenomeno che si è verificato numerose volte nella storia. La scienza politica volgare non solo non ha consapevolezza del fenomeno, ma fa di tutto perché altri non ne abbia mai consapevolezza. Passando ai nostri giorni, si può ben comprendere quanto siano ingannevoli e oziose tutte le chiacchiere sul “processo di pace”. In realtà, si può ben parlare, e con maggior fondamemto, di ricerca ed attuazione di una “soluzione finale” del problema palestinese. Un problema che sarebbe già stato risolto da un pezzo, se fosse dipeso dai soldatini – come quelli sopra intervistati e da noi gratificati con la “cittadinanza onoraria” – e dal loro degno governo, ma che pone non pochi problemi a noi che sappiamo quel sappiamo dalla tv di stato o dai discorsi dei nostri politici e dei nostri ministri. Ho detto “nostri” ma sarebbe più vero dire “loro” politici e ministri.

4°) Al di là del testo sopra riportato aggiungo conclusivamente che di massacri come quello di Sabra e Shatila, o in ultimo di Piombo Fuso, siamo tutti noi “occidentali” responsabili, anche se non personalmente tutti nella stessa misura, ma in un senso tutto politico, per aver permesso i “miti” della fondazionale dello stato di Israele, che come nessun altro, per riprendere Jaspers, merita la patente di “criminale”. Qui sarebbe complesso riprendere un discorso che abbiamo più volte abbozzato, senza mai essere giunto ad una trattazione organica: meriterebbe tutto l’impegno di un libro. Intendo dire che la demonizzazione del nostro passato storico antecedente il 1945 è all’origine di fatti come quelli descritti nel brano e più in generale di un quadro politico globale la cui tragicità non è inferiore alla situazione torico-politica, forse prodotta ad arte nella prima metà del XX secolo. Per dare una misura quantitativa del problema qui accennato basta ricordare la bomba atomica, i cui arsenali sono sufficienti a distruggere il mondo non una ma numerose volte, riducendo la Terra ad un ammasso di meteroriti espulsi nello spazio cosmico.

2.

Informazione Corretta

Una persona normale, ognuno di noi, il quale vuole che certe cose non accadano o non possano accadere usa tutta la diligenza di cui è capace perché non accadano, o se non proprio tutta la diligenza di cui è capace o che possibile, usa almeno una normale diligenza. Il brano che segue è tratto dallo scenario in Sidone, bombardata dagli israeliani si offre alla vista di Robert Fisk insieme ad un suo collega di nazionalità americana, che proprio per questo aveva potuto forzare il blocco israeliano, che impediva l’ingresso ai giornalisti. Lo strazio di cadavere che senza nessuna pietà venivano lasciati alle mosche ed allo scempio dei cingolati è in perfetta sintonia con la filosofia dell’uomo, con la superiore civiltà umana che abbiamo desunto dal brano riportato nel paragrafo precedente. Segue adesso un brano più breve, dove i giornalisti Fisk (inglese) e Randall (americano) vedono morti in putrescenza nello scantinato di una scuola di Sidone. Ecco il loro racconto:
Sul tetto della scuola c’era un buco, come quello che avevamo visto prima sulla porta del municipio, provocato dalla bomba. Non era esplosa a contatto con il tetto. Era stata progettata per detonare solo quando non avrebbe più potuto sfondare le superfici dure che incontrava. Quindi aveva attraversato i tre piani dell'edificio fino a raggiungere la cantina buia nella quale i rifugiati si erano accalcati in preda al terrore e soltanto allora, quando era arrivata a contatto con il pavimento solido e impenetrabile, era scoppiata.

I corpi giacevano in un’enorme catasta, con i bambini in cima e le donne sotto di loro. La bomba doveva aver sollevato la massa di corpi e risucchiato i più pesanti in un vortice. La polvere di calce biancastra formava uno strato più spesso su alcune parti del cumulo piuttosto che su altre, lasciando esposti i bambini, con le gambe divaricate e la testa all’ingiù. Randal era vicino a me e scribacchiava sul suo taccuino. Poi se lo mise in tasca e guardò semplicemente il grande mucchio di corpi. Vidi spuntare le lacrime nei suoi occhi. «Dio santo» disse. «Povera gente, povera gente».

Il giorno dopo, a Beirut Est, un ufficiale israeliano «addetto ai contatti con la stampa» mi avrebbe detto che la storia dei cadaveri insepolti di Sidone era solo «propaganda dell’Olp», che tutti quelli che erano morti nella città erano «terroristi» o - nel peggiore dei casi - erano morti per mano dei «terroristi». La notizia che più di cento persone, bambini compresi, erano morte nello scantinato di quella scuola era «una sciocchezza». Mi consigliò di «controllare i fatti» prima di scrivere articoli diffamatori. Quando gli dissi che ero stato nella scuola e avevo visto i corpi con i miei occhi, mi disse che non ero stato autorizzato ad andare a Sidone. Che avrei dovuto essere accompagnato da un ufficiale israeliano e che non sarei più dovuto tornare in quella città.
R. Fisk, Il martirio di una nazione,
ed. cit., p. 283-84.

La qualità di “corretta informazione”, oggi nel 2010, “ufficiale” e “autorizzata” è rimasta la stessa di quella che era nel 1982, all’epoca cioè dell’invasione israeliana del Libano, la cosiddetta operazione “pace in Galilea”. Forse mai come ai nostri tempi la parola “pace” è stata tanto insultata. Il linguaggio umano non ha mai subito tanta violenza. Mai si è stati tanto lontani dalla semplicità e sincerità evangelica:
«Ma il vostro parlare sia: “sì sì no no”.
Ciò che è in più viene dal maligno».
Non è stato diverso il divieto israeliano durante l’operazione “Piombo Fuso”. Non erano diverse le ragioni. Non era minore la volontà di genocidio. Lo stesso “odio” del 1982, del 1948, del 1882, quando vi fu il primo insiediamento sionista in Palestina. Finché non ci precluderanno l’uso della rete – ci stanno provando – forse oggi riusciamo tuttavia a sapere quello che nel 1982 sarebbe stato impensabile. Va qui aggiunto e sottolineato con forza che la propaganda e l’informazione è diventata essa stessa oggi una parte della guerra, non un suo semplice strumento. Ognuno di noi è quindi un “combattente” nella misura in cui lotta per la verità o per la menzogna, per il riconoscimento puro e semplice di ciò che è o per il suo nascondimento e per la sua mistificazione. Possiamo dire con profonda convinzione che la stragrande maggioranza della stampa e della televisione nonché dei circuiti ufficiali dell’informazione, compresi i discorsi ufficiali dei nostri politici, è parte della menzogna in piena sintonia con la situazione politica del nostro paese, da sempre, cioè da prima che io nascessi, soggetto ad una sovranità limitata ed agli ordini che vengono da oltreoceano e soprattutto dalle lobbies nostrane. Naturalmente, esistono margini di resistenza e ribellione, sia pure rischiosi. Ci diranno che siamo dei “terroristi” anche noi, perché vogliamo e cerchiamo la verità.

Nota. – Il libro di Fisk ha avuto una recensione, positiva, di Stenio Solinas, apparsa – fatto insolito – sul “Giornale”, dove danno il tono ben altre firme. Come prevedibile, l’articolo è ripreso dall’agenzia di propaganda israeliana “Informazione Corretta”, che non abbiamo preso a monitorare da qualche anno. Leggendo il libro di Fisk, in particolare come egli descrive il modo di funzionare e di presentarsi della propaganda israeliana già negli anni ’80, e i cliché abituali della “Informazione Corretta”, di cui qui parlasi, possiamo notare una fortissima analogia di stile, di contenuti, di argomentazioni, di espressioni, di automatismi, luoghi comuni. Sembra la stessa mano o almeno lo stesso ufficio. Non abbiamo un nostro servizio investigativo per indagare oltre. Possiamo solo basarci sull’analisi logica, linguistica, formale. Naturalmente, proseguendo nella lettura del libro di Fisk, che i «Corretti Informatori» ben si guardano dal leggere, si nota tutta la superficialità ed inconsistenza del “corretto commento”. Non potendo noi certo qui pubblicare tutte le 800 pagine del libro, daremo però piccoli estratti e citazioni, appositamente scelti per fare giustizia di anni di propaganda messa in rete da questi sionisti in Italia.

3.

La complicità americana

Daremo di seguito un piccolo brano, che deve essere riprodotto nel suo testo originale per darne tutta l’efficacia stilistica. Ne anticipo brevemente il contesto. Per andare a vedere quanto era successo nello scantinato della scuola, come sopra riportato, Robert Fisk ed il suo collega americano del Washington Post, dovevano superare un posto di blocco israeliano. Il militare sionista aveva ricevo il chiaro e tassativo ordine di non far passare nessun giornalista: il comando politico e militare sapeva bene cosa aveva da nascondere, cosa non si doveva far sapere. Il blocco fu forzato non da Fisk, che era solo un inglese, ma da Randall, che era un americano. Con quali mezzi e con quali argomenti? Direi con la forza della mimica: Randall, in quanto americano, stava lui pagando con le sue tasse il carro armato che stava lì e serviva a massacrare tanti poveri innocenti e a dare a noi, “occidentali”, una sensazione di perpetua vergogna, un senso di frustrazione e impotenza. Ecco il brano:
Non c’era da sorprendersi se gli israeliani non volevano che i corrispondenti stranieri residenti in Libano raccontassero quanto era successo a Sidone. I giornalisti che arrivavano da Israele erano sotto scorta militare e dovevano sottoporre i loro articoli alla censura israeliana. Senza contare il fatto che, i reporter che venivano in macchina da Tel Aviv e da Gerusalemme potevano andare solo sul lungomare di Sidone, al castello dei crociati, nella zona vicino al suq, che non era stata danneggiata dai bombardamenti, e più tardi, al campo di Aio al-Helwe spianato dalle bombe. Ma a nessun giornalista di Beirut era permesso di entrare nella zona di occupazione israeliana.

Il maggiore che fermò me e il giornalista del Washington Post Jonathan Randal sulla strada a sud di Khalde ce lo disse senza mezzi termini. Era un uomo grassoccio, con i capelli castani striati di grigio e parlava un inglese modesto. Si appoggiò al tetto della nostra auto e ci guardò attraverso il finestrino scuotendo vigorosamente la testa. «Ho ricevuto ordini di non permettere a nessun corrispondente di Beirut di andare più a sud di qui» disse. «Dovete tornare indietro». Randal gli spiegò lentamente e pazientemente che, sebbene fossimo giornalisti - gli mostrammo spontaneamente i nostri tesserini - in realtà stavamo andando a Sidone per vedere se la moglie e la figlia di un nostro collega libanese erano ancora vive. Dovevamo portarle dei soldi da parte del marito. «Niente da fare» disse il maggiore. «Mi scusi», rispose Randal. «Ma evidentemente lei non ha capito. Stiamo andando a Sidone a cercare la famiglia di un nostro collega. Perciò deve lasciarci passare».

Intorno a noi, la strada era nel caos. Camion militari che trasferivano le truppe in prima linea, mezzi corazzati per il trasporto del personale e pezzi di artiglieria trainati da altri camion stavano cercando di infilarsi tra la nostra auto e la buca scavata da una bomba che era scoppiata a un metro dalla carreggiata. Una salva di razzi katyusha sparati dall’Olp da dietro l’eroporto di Beirut fischiò sulle nostre teste ed esplose su un dirupo sopra di noi. Il maggiore era furioso. E Randall lo era altrettanto. Scese dalla macchina. Era un uomo snello e muscoloso, fissato con i dettagli come tutti i giornalisti, e molto irascibile. «Stia a sentire, amico» - Randal chiamava tutti «amico» quando era nervoso o arrabbiato - «le ho già detto che dobbiamo passare. Deve assolutamente lasciarci arrivare a Sidone. La nostra è una missione umanitaria». Il maggiore agitò un dito sulla faccia di Randal. «Non me ne importa niente» urlò.

Randal alzò gli occhiali sulla fronte - questo era sempre un segnale pericoloso -e attraversò la strada passando davanti a un altro camion militare. Dietro c’era un carro armato Merkava,
con la sua enorme canna puntata a nord verso l'aeroporto. Randal gli si avvicinò, seguito dal maggiore. «Vede quel carro armato?» chiese. Il maggiore lo guardò. «Be’ io pago le maledette tasse perché voi possiate avere quei maledetti giocattoli, quindi ci faccia passare e non discuta». Un altro uomo si avvicinò a loro, un ufficiale più giovane che parlò al maggiore in ebraico. «Non sposterò la macchina da questa maledetta strada fino a quando non mi farete passare». Il maggiore alzò un dito ammonitore. «Dico sul serio. Lei vorrebbe ordinare a un americano di togliersi di mezzo, ma finché dovrò pagare le vostre maledette guerre con i miei soldi, non ho nessuna intenzione di muovermi di qui». L’ufficiale più giovane fece un cenno a Randal. «Potete andare» disse. Fu così che raggiungemmo Sidone.

R. Fisk, Il martirio di una nazione,
ed. cit., p. 283-84.
Questo è però solo un piccolo episodio. Per capire la “complicità” americana nell’invasione del Libano di questi anni, nel 1982, occorre spostarsi al Dipartimento di Stato, dove pare vi sia stata la copertura di Haig, che aveva già dato tacito via libera a Sharon per l’invasione e poi soprattutto aveva nascosto al presidente Reagan i ripetuti messaggi che arrivano dai sauditi, i quali non gradivano l’invasione e minacciavano il blocco petrolifero e l’uso delle loro armi finanziarie. Quando finalmente il messaggio arrivò a Reagan, vi furono le immediate dimissioni di Haig. Ciò che impressiona, e deve farci riflettere, magari approntando apposite schede, è il vero e proprio “tradimento” di un segretario di stato. Come non piegare ciò con la capacità di infiltrazione di quella lobby descritta da Mearsheimer e Walt, ma anche da Alan Hart? Purtroppo, non si possono rilevare queste connessioni senza provocare l’accusa di “antisemitismo”, e solita cantilena.

4.

La perfidia israeliana
(segue)

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