lunedì 12 aprile 2010

Delenda: 37. Giorgio Israel: «La questione ebraica oggi. I nostri conti con il razzismo» (il Mulino, 2002). – I nostri conti con il sionismo.

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Sommario: 1. Prologo. – 2. “Non vi è nulla da rispondere a coloro che…”. – 3. Controcitazione: Robert Fisk al posto di Zola. – 4. Zola rivoltato. – 5. La polizia del pensiero. – 6. Popoli e individui. – 7. «Sionismo = razzismo»: proprio così! – 8. Non è il modo migliore di leggere. – 9. Menar il can per l’aia. –

Premessa

(questa partizione segue quella originale del libro,
via via che procede la nostra critica.
Il nostro sommario unificato è invece quello che si trova in testa.)

1. Prologo. – Appare quanto mai arbitraria l’affermazione con cui esordisce l’autore del libretto definendo la “questione” come «persistente rifiuto della presenza degli ebrei nella società», ma è nello stile dell’autore procedere per affermazioni propagandistiche e di comodo. Una diversa definizione potrebbe fermarsi alla semplice «presenza degli ebrei nella società», con la pretesa della loro elezione, con il disprezzo per i goym, per il loro costituirsi come stato nello stato: potrebbe essere fondato o meno. Si tratta di esaminarlo e dimostrarlo, invece il nostro Giorgino corre già a conclusioni quanto mai arbitarie e di cui neppure cerca in fonda la dimostrazione, cosa che non serve affatto alla propaganda in quanto tale. Tutti questi aspetti restano per il nostro Autore un… “mistero”, che in quanto tale per il suo alone religioso non bisogno assolutamente molestare ché sarebbe sacrilegio. Siamo del resto sul piano di una “guerra ideologica” che non è mai cessata da quando le armi hanno taciuto in Europa nel 1945 con la distruzione di tutti gli stati europei, che per lo meno nella prima metà del secolo XX potevano dirsi ancora “sovrani”. Dopo di allora in Europa di stati sovrani più non ne esistono. 200.000 persone nella sola Germania, dal 1994 in poi, sono state processate per reati di opininione, con un’ordine di scuderia che è partito da Israele e che trova nelle “comunità ebraiche” e nel loro associazionismo lobbistico gli apparati necessari.

Non è la prima volta che sento il bisogno intellettuale, per chiarire a me stesso concetti faticosamente attinti dopo essermi – spero – liberato di un generale lavaggio del cervello che ha interessato tutte le generazioni, come la mia, nate nel dopoguerra. Diciamo che la nuova classe politica, che si è vista regalare la gestione del potere da parte dei vincitori, non è stata capace di guadagnarsi una propria autonoma e distinta legittimazione per una dimostrata capacità di saper risolvere i problemi dei popoli che uscivano dalla disfatta bellica, dalle vere distruzioni del dopoguerra: non solo distruzioni materiali, ma una profonda distruzione spirituale che per effetti della continuazione programmata della “guerra ideologica” spinge ad ogni perdita di identità, alla rinuncia al proprio storico, ad ogni autonomia e libertà di pensiero sostituita dal cervello sovrastrutturato della carta stampata, dei media, dei discorsi sempre più insulsi dei politici che occupano le poltrone del potere con relativi appannaggi.

Il pensiero di ognuno di noi si forma spesso se non sempre come reazione a qualcosa che non si condivide o di cui proprio non se ne può più. Ad evitare dispersione nelle trattazione di testi di cui mi occupo extra cathedram riunisco qui in una sola rassegna unificata e ora unita da links in forma di ipertesto, questa recensione di un vecchio libro del signor Giorgio Israel, con il quale non ho mai avuto nessun contatto personale, pur lavorando egli nella mia stessa università a qualche centinaio di metri più in là. Lui professionalmente si occupa di matematica, ma è molto attivo nel campo sionista da molto prima che io, filosofo del diritto, prestassi attenzione a questa dottrina politica, che nasce nella seconda metà del XIX secolo e che a mio modo di vedere ha i connotati più autentici del razzismo. Ed è curioso come da questa parte con intento spregiativo si gridi al razzismo senza guardarsi nello specchio. En passant, in un senso rigoroso, ripeto qui che non credo nella possibilità etica del razzismo in quanto distinzione dell’umanità in razze differenti. L’uomo vede sempre nel suo prossimo un uomo, non un cavallo o un cane. Possono certo esserci differenziazioni di carattere antropologico e morfologico come colore della pelle o dei capelli e tutto ciò che può differenziare un individui o gruppi di individui da altri, ma non si tratta della stessa divisione che può esserci fra una specie animale e un’altra, salvo poi la comune appartenenza alla natura vivente distanta dal mondo inorganico fatto di minerali inerti. Possono esserci e continuano ad esserci, oggi forse più di ieri, contrapposizioni fra gruppi di individui (o popoli) ed altri gruppi. Purtroppo gli uomini non hanno mai cessato di farsi la guerra. Anzi, la guerra più lunga della nostra epoca, che ha superato i cento anni, ed è forse la guerra più lunga di tutta la storia umana, è quella che inizia in Palestina nel 1882, quando un gruppo di ebrei che si dicono sionisti e pretendono di essere e rappresentare tutti gli ebrei sbarcano in terre abitate da autoctoni e pretendono di cacciarli sulla base di un’ideologia che era stata elaborata nelle sue fasi finali proprio in quegli anni. L’impresa sionista non si regge senza una martellante propaganda accompagnata da un lavorio fatto di azione di lobbying e di omicidi mirati.

Naturalmente, gli uomini hanno avuto nel tempo relazioni pacifiche secondo il modello hobbesiano per cui la pace è la prima cosa che si deve cercare per essere sicuri della propria vita. Solo se la pace non è possibile occorre essere pronti alla guerra. Piuttosto che insultare il nemico offendendolo e diffamandolo in tutti i modi possibile, è preferibile cercare di capire cosa pone gli uomini l’uno contro l’altro. Solo per questa via si può sperare di evitare l’annientamento reciproco e costruire una pace su solide fondamenta. Fatte queste premesse di carattere generale, incomincio a dire qualcosa sul libro che intendo criticare.

È irritante e indisponente fin dalle prime righe. Mi chiedo se come metodo sia preferibile finire di leggerlo e poi darne un giudizio oppure dire subito ciò che ne penso via via che leggo. Trattandosi qui di scrittura sulla rete e non a stampa, credo sia possibile e preferibile questo secondo metodo. È comodo perché mi ci si posso dedicare quando trovo del tempo o dell’interesse per proseguire nella lettura, che potrebbe anche cessare dopo un certo numero di pagine. I libri si possono capire nel loro contenuto fin dalla prima pagina e non è detto che occorre giungere alla fine. Diceva un autore a me caro, che un dotto di mestiere mediamente “compulsa” duecento o trecento libri al giorno. Mi chiedevo come potesse fare, adottando il metodo della lettura sequenziale. Poi forse ho capito cosa intendeva dire e a quale metodo si richiamasse.

Basta con le ciancie, pur necessarie, perché danno inizio ad una nuova rubrica, unificata in una precedente, in pratica tutta di recensioni, dove ho però giò distinti volumi classificati come “freschi di stampa”, cioè di recente, oppure “testi di studio”, non recenti ma sempre successivi all’anno 2000, il cui contenuto – dal mio punto di vista – conserva intatta la sua validità e le cui informazioni devono essere acquisite e fatte proprie. Con i “Delenda”, scelti sempre fra libri usciti dopo il 2000, si tratta invece di “fare i conti”, espressione che conduce all’idea di “disputa” o più precisamente di “guerra ideologica”, un concetto che ho scoperto sfogliando gli archivi della seconda guerra mondiale mentre era ancora in corso. Quella “guerra ideologica” non è mai cessata ed il libretto di cui ci occupiamo ne è un reperto. Ho detto: “libretto”. Mi occupo qui soltanto di 166 fogli di carta, scritte su ambo le facciate. Non della persona che ha stampato quelle pagine e con la quale non desidero avviare nessuna astiosa polemica. Vorrei che ciò fosse chiaro, anche se non ci spero.

Inizia con una citazione di Zola, un autore che intervenne nell’affare Dreyfus. Ho nella mia biblioteca un ottimo libro di documentazione, acquistato per 50 centesimi su una bancarella. Non ritengo però che la «questione ebraica oggi» abbia a che fare con la situazione che gli ebrei vissero in Europa dopo la rivoluzione francese, quando a seguito della emanicipazione ottennero dappertutto l’equiparazione dei diritti, dando luogo ad un duplice fenomeno: l’assimilazione nelle società in cui vivevano e che avevano concesso loro gli stessi diritti, oppure ad una sorta di doppia (oggi tripla) cittadinanza: uno stato nello stato. Il primo libro che ha affrontato la storia del cosiddetto antisemitismo – termine relativamente recente a fronte di un fenomeno ben più antico – è stato Bernard Lazare, pure lui ebreo, che si opponeva a Drumont che molto aveva scritto sugli ebrei della sua epoca. Dal libro di Lazare è interessante un’osservazione che è sempre citata e che forse è la sostanza di tutto il libro: ma come mai che nel corso della loro storia religiosa, più che antopologica, direi, gli ebrei in tutte le epoche ed in tutte le latitudini si sono attirate le ostilità di tutti i popoli “ospiti” con i quali sono stati in contatto? Lazare ne concludeva che la causa dovesse essere ricercata negli ebrei stessi.

Credo che Lazare non sia ben visto dal sionismo. Vi sono poi state altre storie dell’antisemitismo, che sto leggendo tutte quante. Sono anche queste faziose e irritanti. Per fare un solo esempio: dell’ebreo Spinoza viene fatto un precursore delle camere a gas! Con i finanziamenti che vengono profusi a piene mani, costoro possono riempire biblioteche con le tesi più assurde. Al tempo stesso, ad esempio il caso Eisenmenger, ogni tesi contrario è soffocata senza scrupoli di sorta per i mezzi adoperati. Ogni libro che suoni critica al sionismo deve superare tantissime difficoltà per uscire alla luce. Senza poi parlare dei nuovi mezzi di comunicazione: la rete. Anche di questo blog è stata chiesta la chiusura da parte di personaggi che preferisco non nominare. È questo il loro spirito liberale, il loro “amor” del prossimo, che si alimenta di “odio” e produce l’«odio» e che non saprebbe vivere senza “odio” verso il prossimo e suscitato ad arte nel prossimo.

Insomma, è del tutto arbitrario collocare la «questione ebraica» dell’«oggi» con quella di «ieri». Per citare un’altro ebreo, storico di mestiere, Ilan Pappe, questi dice che oggi si è antisemiti se non si è antisionisti. È un moto che rinvia alle cose spiegate da Jakob Rabkin, un autore che Israel scrive di aver conosciuto di persona in Sud Africa. Deve essere stato però uno di quegli incontri che si fanno nei convegni, dove approdano le persone più disparate, che in modo o nell’altro vengono spesati da qualcuno in vitto, viaggio e alloggio, e magari con annesso onorario. Esiste anche qui un’industria. Se appena Jacob Rabkin, si fosse informato meglio di Giorgio Israel, non gli sarebbe certo venuto in mento di chiedere proprio a Giorgio Israel la diffusione dei suoi libri e delle sue analisi in Italia! Non so se avrò mai modo di incontrare anche io di persona Rabkin, ma gli direi che questa era davvero una bella ingenuità da parte sua!

Quindi sbagliata la citazione di Zola, che apre il libro di Israel: non ci azzecca nulla ed è già una forma di falsificazione della “questione ebraica oggi”. Naturalmente, ci si può ben occupare di quel periodo, ed è pure interessante farlo e lo facciamo in un ben diverso contesto. La mistificazione consiste fondamentalmente nel voler confondere l’antisionismo politico e filosofico con l’antigiudaismo religioso del passato, peraltro lecito in quanto si limiti ad ad critica teologica e filosofica e non riguardi l’aspetto persecutorio, di cui nella storia sono state vittime non solo gli ebrei, ma ieri come oggi ogni genere di spiriti liberi e oppositori e avversari politici. Paradossalmente, come ha detto di recente un altro ebreo, in un dibattito televisivo che non ho registrato, i sionisti si sono assunti una gravissima responsabilità nei confronti del giudaismo: quella di aver identificato l’avventura coloniale di Israele con l’ebraismo stesso. Ci vuole molta informazione per distinguere fra le due cose, ma la reazione che Israele con la sua politica suscita, in ultimo perfino nel faraone Obama e suoi vassalli, finirà fatalmente per coinvolgere tutto l’ebraismo.

2. “Non vi è nulla da rispondere a coloro che…”. – Mi sono chiesto più volte quale potesse essere una sorta di parola d’ordine che ho riscontrato più volte nei rari casi in cui mi era capitato di trovarmi in contraddittorio con questi personaggi, la cui frequentazione è piuttosto pericolosa. Ogni volta tutti allo stesso modo se ne uscivano con un “io non parlo con uno che…”. Per il modo di pensare quando si discute si parla con chiunque abbia argomenti e si affrontano le argomentazioni poste. Mi sembra già razzistico e discriminatorio dire ad uno: “sei un signor nessuno”, “con te non ci parlo”, e simili. Dopo la prima sorpresa di stupore, ho però approntato le mie difese. E mi sono divertito tanto e faccio divertire tutti quelli cui racconto il fatto, rigorosamente vero, quando allo stesso Tizio che me aveva detto una prima volta: “io con te non parlo...”, ho poi detto io, mentre lui insisteva ad iscriversi a un gruppo dal quale ripetutamente lo espellevo: “Adesso sono io che non voglio più parlare con te, giacché tu mi avevi detto che non volevi parlare con me!”. L’episodio è davvero divertente e ci vuole arte a saperlo raccontare.

Può darsi, ma non ne sono affatto certo, che una fonte di questo modo per me sconcertante di rapportarsi al prossimo abbia un’origine nella citazione di Zola con cui G. Israel apre la sua “resa dei conti” con non si sa bene chi. Per uno che non appartenga al loro universo e che consapevolmente non ha nessuna ostilità preconcetta contro il prossimo, chiunque esso sia, è sconcertante la supponenza, l’arroganza, la presunzione ed anche la cattiveria con la quale capita di scontrarsi. Con ogni verosimiglianza è stato un passaggio di non poco conto, duemila anni fa, l’abbandono dell’ebraismo (il “fratello maggiore”) per un nuova sensibilità religiosa diversa, il cristianesimo, che ponesse su ben altre basi il rapporto con l’altro, usualmente detto “i gentili” se non i “goym”, quasi che fosse tutto lo stesso brodo: noi e loro. In realtà, i “loro” sono alquanti differenziati in una gamma infinità di ricchezza infinità, di fronte a cui impallidisce la presunzione “monoteista”.

E che vi è da comprendere cira l’«elezione»? Se mi trovo accanto qualche personaggio che ritiene lui di essere di una pasta migliore della mia – chi è qui “razzista”? –, gli lascio tranquillamente credere quello che vuole. Ci sono personaggi che hanno talmente bisogno delle loro convinzioni che morirebbero se ne fossero privati. Ed io non voglio far morire nessuno. Chi ai miei occhi appare brutto e bruttissimo, può credere di essere bello e perfino bellissimo. Nulla quaestio. Il problema pratico sorge solo quando questo presunzione di “elezione” si traduce in comportamenti pratici che producono dissidi, divervenze, contrapposizioni. Così è stato nella storia. Ma qui non si devono confondere le acque: la storia è storia; il presente è presente. Ed io dell’«oggi» voglio occuparmi. In altri luoghi, in altri blogs tematici, mi occupo espressamente di storia, di teologia, di linguaggi.

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3. Controcitazione: Robert Fisk al posto di Zola. – Sarà un lavoro lungo procedere alla confutazione del libro di Giorgio Israel, che vuol “fare i conti” con un razzismo che rappresenta e dipinge come gli fa comodo, poco curandosi della facile obiezione che il sionismo è la forma peggiore di razzismo, un razzismo che oggi circola impunemente. Ad esempio, è ricorrente la rappresentazione secondo cui prima che gli “immigrati" invasori vi sbarcassero, la Palestina era una terra disabitata, un deserto che aspettava proprio i suoi occupanti invasori. Ebbene, se proprio c’era qualcuno, era poca cosa e non era certo degno di abitare in una terra che non gli apparteneva, pur essendovi nato da progenitori che vi abitava generazione dopo generazioni da secoli e millenni. Da Makk Twain e dalla peggiore letteratura orientalista – del cui razzismo Edward Said ha fatto giustizia – viene riporato come oro colato il peggior pregiudizio razziale. Tra i tanti libri che ho il vizio di leggere in contemporanea e la presunzione di comprenderne tutto il contenuto dalla semplice lettura di poche pagine, o con tecniche di lettura in diagonale, traggo questo brano da Robert Fisk, il cui libro, Il martirio di una nazione, è uscito in italiano da pochi giorni. Ne parlerò a parte. Qui riporto questa bella citazione, da inviare idealmente a chi ha aperto il suo libro con una vecchia e fuori luogo citazione di Zola. Ecco cosa scrive Fisk a proposito di quei tanti villaggi che sono stati distrutti e cancellati dalla carta geografica, avendo già fatto, curiosamente, gli israeliani esattamente ciò che imputano di voler fare ad Ahmadinejad. Hanno cancellato loro oltre la metà dei villaggi palestinesi:
«…In molte zone i villagi arabi sono scomparsi, i loro nomi cancellati dalle cartine. È scomparso persino il distretto di Deir Yassin, famoso nella storia della Palestina come il villaggio in cui nell’aprile del 1948 manipoli di ebrei massacrarono duecentocinquanta arabi, metà dei quali donne e bambini. Adesso si chiama Givat Shaul ed è un semplice quartiere di Gerusalemme, la cui strada principale è una sfilza di distributori di benzina, officine e altri condomini residenziali, più simile a Edgware Road a Brooklyn che alla scena di un omicidio di massa…»
Robert Fisk, Il martirio di una nazione,
il Saggiatore, 2010, p. 48.

E lor signori pretendono di convincerci della loro superiore moralità, del loro superiore diritto, della loro divina «elezione»! Pretendono di farlo, infliggendo in carcere a chi non si lascia convincere. Nella sola Germania dal 1994 ad oggi sono oltre 100.000 le persone processate per reati di opinione!

In effetti, vi è un deficit insanabile di legittimità nella fondazione di Israele. Poche pagine più avanti nel libro di Fisk si parla di un funzionario del governo israeliano, che ha sue curiose interpretazione della storia e dei titoli di legittimazione dell’esproprio di un intero popolo, quello palestinese. Udite! Udite! Invoca il diritto di conquista: “scusate, se abbiamo vinto”, dice, pensando di aver dimostrato qualcosa, di aver usato un argomento forte, invocando il diritto della forza, un diritto che può essere subito, ma che non ha titolo per essere riconosciuto. Questo tipo di argomentazione lo si incontra ancora oggi nella propaganda sionista in lingua italiana. Lo stesso Israel – non so ancora se nel prosieguo del suo libro –, ma in interviste registrate e archiviate su Radio radicale sostiene sfacciatamente il “diritto al non ritorno” per i profughi palestinesi del 1948. Ma che pretendono costoro?! Davvero una morale da extraterrestri, alla quale ci dovremmo assuefare grazie al loro controllo dei mainstream dell’informazione.

Con Fisk siamo per davvero all’«oggi», non al «ieri» che nulla c’entra, proprio nulla, con la situazione creatasi in Palestina con la «pulizia etnica» del 1948. Come è assurda la pretesa mitologica ad un possesso della “Terra Promessa”. Di queste favole ha fatto giustizia ben altro ebreo di nome Shlomo Sand, divulgando peraltro conoscenze già note. I discendenti dei Kazari pretendono che beviamo senza fiatare le loro frottole, ma quel che è peggio pensano di avere il diritto di sovvertire la retta coscienza di ognuno di noi, che sa riconoscere la prepotenza ed il torto là dove esso si manifesta con una chiarezza che non si può riscontrare e verificare in altri casi.

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4. Zola rivoltato. – Ma se si legge meglio il brano scritto da Zola nel 1896, se ne traggono conclusioni opposte a cui l’«eccelso sionista» ci vorrebbe condurre. Di chi è oggi “il bisogno selvaggio di scagliarsi sul proprio simile”? Se al posto dell’ebreo di ieri, di cui parla Zola, si colloca il palestinese di oggi e come suo oppressore il colono israeliano, si vede come le situazioni nella storia possono cambiare facilmente ed i ruoli inverrtisi, addirittura ad un livello maggiore di ferocia, ipocrisia, mistificazione. E mai come oggi gli innocenti furono più innocenti.

È vergognoso ed osceno il modo in cui dei palestinesi si è tentato di farne un surrogato degli odiati e odiosi nazisti. Per chi con un minimo di equanimità sa percorrere le vicende storiche tra le due guerre, durante le quali i popolo palestinese avrebbe dovuto cedere il posto ai beneficiari della Dichiarazione Balfour, con la quale si promette a chi ci offre qualcosa in cambio i beni non propri, ma di un terzo. Sarebbe come se entrando in un negozio compro tutto quello che voglio senza preocuparmi del prezzo perché sarà un’altro a pagarlo. Questo è stato l’Impero inglese, grande faro di giustizia e di umanità, crollato miseramento nel giro di pochi anni, vinta la guerra civile europea dei trentanni (1914-1945), dove il sionismo seppe certamente ben collocarsi!

È sempre Edward Said che ben descrive l’atteggiamento di “negazione” e “rifiuto” del palestinese da parte israeliana. La situazione descritta da Zola nel 1896 è in realtà peggiore oggi in quanto l’israeliano non riconosce nel palestinese un proprio simile. È una situazione ben peggiore dell’apartheid sudafricano. Sembra che qui all’inizio le intenzioni non fossero così malvagie come si sono poi rivelate. Pare che l’idea iniziale fosse quella di ottenere uno sviluppo separato di due diverse società: quella dei bianchi e quella dei neri, che dovevano restare separate, ma senza che l’una volesse cancellare l’altra. Invece, nel pensiero sionista non è contemplata la possibilità di esistenza del palestinese: deve sparire, ammesso che esista. In un’altra libro, che ho appena ordinato sul mercato antiquario, Le Mur de Sharon, di un autore francese di nome Menargue, è spiegato che il vero significato del muro è di natura religioso/razzista: l’arabo o palestinese è l’«impuro», dal quale occorre separarsi in tutti i modi. Questo è razzismo della specie peggiore, forse l’unica vera forma di razzismo, essendo tutte le altre eticamente impossibili, non giungendo esse mai a negare nell’altro, che pure si perseguita, la comune natura umana.

Un’altra argomentazione che trovo nella propaganda sionista è l’assunto che i palestinesi non sarebbero stati mai una nazione indipendente, con un proprio governo e proprie istituzioni. È una ben strana argomentazione. Intanto, esisteva l’Impero ottomano, al cui interno vivevano e convivevano, più pacificamente che non oggi, popoli diversi. Conosciamo le vicende della dissoluzione dell’Impero ottomano, sulle cui spoglie da secoli vigilavano gli occi avidi delle potenze coloniali europee, che non hanno saputo al mondo quell’apporto di civiltà che l’Impero romano diede, lasciando di sé il rimpianto di un ordine geopolitico mai più ripristinato. Il colonianismo ha lasciato dietro di sé una generale esecrazione. Ma il sionismo ne è un suo prodotto, ancora “sopravvissuto”.

Che i palestinesi non abbiano avuto proprie istituzioni sovrane poco, anzi nulla rileva davanti al diritto di ognuno di abitare la propria casa e di vivere nel proprio villaggio, nella terra che è sempre stata dei propri padri. Ma questo presunto obbligo alla sovranità statuale non lo hanno mai avuto neppure gli occupanti coloniali, a meno che – come in effetti fanno – non invochino il “diritto di conquista”. Ma che siamo ai tempi del Far West del XIX secolo? Il nostro mondo che pretende di essere governato dal diritto internazionale, dalle convenzioni firmate da tutti gli stati, può riconoscere la guerra come creatrice del diritto? Il tema è certamente complesso e difficile, ma secondo la comune concezione la guerra è la patologia del diritto, non la sua condizione normale di vigenza. La guerra chiama solo guerra.

Nessun diritto può essere riconosciuto all’occupante coloniale. Anche i nostri clandestini immigrati chiedono semplicemente di poter essere accolti ed integrati, di trovare un lavoro presso di noi, una casa, una sistemazione. E ciò, quando possibile, è stato sempre concesso agli stranieri da parte dei popoli presso i quali erano andati in pace. Ma come reagiremmo se anziché trovare nelle nostre strade clandestini che tendono le mani ed implorano ci dovessimo imbattere in uomini armati e minacciosi che pretendono di prendere cià che è nostro e di scacciarci dalle nostre case e dalle nostre città? È quel che è successo in Palestina dal 1882 in poi, attraverso successivi e scientifici insediamenti sionisti in terra palestinese, senza mai aver avuto rispetto dei diritti e della dignità dei legittimi abitanti, poco importa se costituiti o meno in forma statuale: erano e sono uomini!

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5. La polizia del pensiero. – È davvero difficile andare avanti nella lettura anche di una sola pagina di Giorgio Israel. Sono talmente faziose ed opinabili ognuna delle sue affermazioni da costringere a prendere carta e penna, ovvero sedersi nuovamente alla tastiere, per scriverne confutazioni invero per nulla difficili. Sembra che questo autore abbia il gusto della provocazione, dalla quale occorre ben guardarsi: è quello che si aspetta perché possa gridare all’antisemita. Un solo esempio di frase rivoltante e provocatoria:
«…esse forniscono ragioni e alibi a coloro che vogliono giustificare il proprio e altrui sentimento di ostilità contro gli ebrei» (p. 8).
Ebbene, io normalmente penso che nessuno debba giustificare sentimenti di ostilità verso chicchessia, ebrei o meno, oppure abruzzesi, genovesi, indostani e così via. Se mai, dovrebbe essere chi avverte ostilità nei propri confronti a cercare di capirne la causa, se fondata o meno. Stando alla prima legge naturale enunciata dall’uomo la condizione normale è lo stato di pace verso il prossimo, non di ostilità. Fino a qualche anno fa non mi interessavo affatto di questi problemi. Appena mi sono visto attaccato da “sionisti”, per non dire “ebrei”, rischiando di fare un torto ad innocenti, ho incominciato con il chiedermi: ma costoro perché mi sono “ostili”? Perché ce l’hanno con me senza neppure darsi la briga di leggere ciò che io ho effettivamente scritto, non quello che in malafede mi attribuiscono?

Non posso non pensare qui a Spinoza, pure lui ebrei, perseguitato da ebrei, il quale ebbe a dire che l’«odio» è in effetti l’essenza stessa dell’ebraismo. Ma ritorneremo con maggiori approfondimenti su questo problema. Qui voglio toccare alcuni punti particolarmente disonesti ed irritanti nell’impostazione del problema. In una delle sue tipiche affermazioni, io dico da birichino, capita testualmente di leggere:
«…ora tentanto di cancellare dalla memoria storica i misfatti dell’Inquisizione e dei crociati, ora tentando persino di negare l’esistenza dei campi di sterminio» (p. 8).
Lascio stare i “misfatti” dell’Inquisizione, di cui poco sa – e dubito Israel ne sappia di più –, se non per ricordare il misfatto moderno contro Ariel Toaff, reo di aver voluto studiare i documenti di quei misfatti. Colgo invece occasione per porre un diverso problema. Se si è assolutamente sicuri di quella che è la verità storica intorno ai campi di concentramento, perché proibirne con pesante condanne penale la libera discussione ed il libero confronto delle tesi, soprattutto tenendo conto che per la stragrande maggioranza delle persone si tratta di fatti remoti, che possono essere ricostruiti solo con i metodi della (libera) ricerca storica? Riporto qui una tabella proveniente da fonte governativa tedesca e non facilmente accessibile:

Cittadini tedeschi processati ogni anno per reati di opinione
Anno
Destra
Sinistra
Stranieri
Totale
19945.562
185
235
5.982
19956.6555
256
276
7.087
19967.585
557
818
8.960
199710.257
1.063
1.029
12.349
19989.549
1.141
1.832
12.522
19998.698
1.025
1.525
11.248
2000
13.863
979
525
15.367
2001
8.874
429
353
9.656
2002
9.807
331
467
10.605
2003
9.692
431
1.340
11.463
2004




2005









Totale:
90.395
6.397
8.886
105.678
Mi mancano i dati per gli anni successivi al 2003 ed anche quelli qui dati andrebbero ulteriormente analizzati e possibilmente studiati singolarmente, caso per caso. Stimo che ad oggi i casi ammontino a circa 200.000 nella sola Germania e senza poter calcolare la situazione degli altri 13 paesi europei dove esiste una legislazione analoga.

Qui dobbiamo intenderci di quale barbarie si tratti. Di una barbarie connessa ad un eventi storico verificatosi prima della nostra nascita o di una diversa barbarie, a noi contemporanea ed alla quali ci è dato di assistere, di poter sapere, di poter prendere posizione a favore o contro. Credo che il sistema costituzionale mi consenta ancora di ritenere autentica barbarie dei nostri tempi il fatto che ben 105.678 cittadini tedeschi siano stati processati per reati di opinione dal 1994 al 2003, mancando i dati successivi, ma temo ancora più allarmanti perché praticamente secretati. A me non interessa l’oggetto del reato di opinione: che lo sbarco sulla luna non sia mai avvenuto, che l’11 settembre sia stato ordito dai servizi segreti, che i falsi armamenti di saddam erano falsi, e così via. Mi interessa che ogni persona sia libera di fare le affermazioni che meglio crede, lasciando poi alla comunità scientifica il poterne liberamente giudicare. Chi affermarse che “Napoleone non è mai esistito”, si assumerebbe un ben grave fardello davanti alla comunità scientifica, ma la questione non dovrebbe in nessun modo interessare il giudice penale o i collegi amministrativi di disciplina.

Più avanti, nel testo, si può evincere il pensiero dell’Autore sul suo modo di intende la libertà di opinione, attingendo egli ad una frase di Sartre, che qui e ora non possiamo verificare nel suo contesto. Ma ricordiamo che Sartre, pure lui ebreo, è anche il fondatore del Tribunale Russel, che oggi accusa Israele per crimini contro l’umanità e che ha dato inizio ad apposita procedura per individuare le responsabilità di lobbies e politici nel genocidio consumato con “Piombo Fuso”, per il quale è stata posta l’equiparazione fra Gaza ed Auschwitz, respinta chiaramente da G. Israel, ma senza argomentazioni plausibili. La prendiamo comunque nel suo senso letterale, a prescindere da cosa Sartre intendesse effettivamente dire:
«l’antisemitismo – e, aggiungiamo noi [= G. I.], il razzismo – non rientra nella categoria dei pensieri protetti dal diritto di libera opinione» (p. 9).
Ed eccola qui rientrare il Tribunale dell’Inquisizione, contro le cui “infamie” si era prima data mostra di volersi scagliare. È infatti da chiedersi cosa l’antisemitismo sia – e aggiungiamo noi [= A.C.] e il razzismo, ovvero se il sionismo non sia esso stesso la forma più compita di razzismo – e soprattutto chi debba decidere cosa esso sia, quale il regime penale da infliggere, chi ne debba applicare la pena ed in cosa debba consistere detta pena.

Non fidandoci della citazione di Sartre fatta da Giorgio Israel, siamo andati in cerca del libro di Sartre, presente per fortuna nella Biblioteca del Dipartimento. Si tratta di un libretto non arduo da leggere, di appena 107 pagine, uscito in prima edizione nel 1947, in seconda nel 1960 ed in terza edizione nel 1964, ma con un “oggi” che in nota è fatto corrispondere all’ottobre 1944. Compare la parola sionismo e si accenna allo stato di Israele. Un testo con varie stratificazioni temporali. Lo leggeremo tutto, ma ci sono bastate le prime righe di Sartre per farci un’idea che ha poi trovato conferma nel prosieguo della lettura, che andremo ad indicizzare per eventuali usi futuri.
«Se un uomo attribuisce tutte o parte delle disgrazie del paese e delle sue proprie disgrazie alla presenza di elementi ebraici nella comunità, se egli propone di rimediare a questo stato di cose privando gli ebrei di alcuni dei loro diritti o escludendoli da certe funzioni economiche e sociali o espellendoli dal territorio o sterminandoli tutti, si dice che egli è di opinioni antisemite».

J.P. Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica,
Edizioni di Comunità, 1947, p. 7.
È da chiedersi se le “opinioni” di cui Sartre parla e che possiamo formarci nella “situazione” su Israele e sulla sua politica valgano nella situazione creatasi dopo il rapporto Goldone, pure lui ebreo e per giunta sionista. Che io sappia nessuna delle oltre 200.000 persone che dal 1994 in poi sono state incriminate in Germania ha mai inteso privare gli ebrei di alcun loro diritto. Possiamo anzi dire che accade oggi il contrario: sono i cittadini non ebrei ad essere privati di elementi diritti in fatto non di “opiniono” ma di “pensiero” non meno filosoficamente dignitoso di quello dello stesso Sartre che scriveva nel 1947, quando la “pulizia etnica” della Nakba non poteva essergli nota, o che forse non ha mai voluto conoscere ed ammettere negli anni successivi. Se nel brano di Sartre si toglie ebreo e si mette “malocchio”, il tutto suona allo stesso. Opinione può essere il chiedersi come mai e per quale ragione gli ebrei furono discriminati, perseguitati e internati nella Germania nazista. È una domanda lecita, alla quale non capita di trovare risposte. Deprecabile certamente la discriminazione e persecuzione non solo verso gli ebrei, ma verso chiunque. Ciò non toglie tuttavia che sia lecito tentar di trovare delle spiegazioni: non togliere diritti a chicchessia. Ma esercitare il proprio diritto a porsi domande e a cercare risposte. Ed è esattamente ciò che oggi non è consentito di fare a centinaia di milioni di cittadini europei. I diritti sono stati qui tolti, ma non agli ebrei, bensì ai cittadini europei ed in nome e per conto degli ebrei: la “situazione” si è diametralmente capolta rispetto a quella descritta da Sartre.. Un anziano professore della mia facoltà, ci ammoniva sempre: di ogni libro che leggete per prima cosa guardate l’anno in cui è stato scritto. E qui siamo nel 1947. Non credo che la negazione del “diritto di libera opinione” a chi in realtà non si limita affatto ad esercitare un mero opinare ovvero un esternare volgari superstizioni, ma concretamente e attivamente a privare altri di diritti riconosciuti nelle carte costituzionali, ci autorizzi a credere che si possa accettare oggi che a 200.000 tedeschi si debba infliggere una sanzione penale per un mero giudizio di carattere storico sulla esistenza o non esistenza di certi macchinari, o sul numero effettivo delle vittime decedute nei campi di concentramento.

L’«oggi» della “Questione ebraica” in realtà lo si ripete forse da 3000 anni. Sartre usa spesso il concetto di “situazione” come criterio ermeneutico: tutto si spiega partendo dalla situazione. Riporto qui una testimonianza che potrebbe trovarsi nel libro di Ilan Pappe sulla “Pulizia etnica della Palestina”, ma che invece è stata raccolta da Robert Fisk ed ora si legge nel libro sopra citato, Martirio di una nazione, da pochi giorni uscito in edizione italiana: «Pensavano che saremmo stati lontani solo qualche giorno» disse.
«Ma gli ebrei entrarono nel villaggio. Mio marito era nei campi e li vide far saltare la nostra nuova casa. Trovarono l’olio che avevamo lasciato lì e presero tutti i nostri frantoi. Gli ebrei distrussero tutto il villaggio. Persino il cimitero fu demolito: mio padre era stato sepolto lì».

Robert Fisk, op. cit., 64.
Non c’è che dire: un bello esempio di pietà ebraica. E poi vai a metterla sull’antisemitismo! La testimonianza della signora Fatima Zamzam è una di quelle che potrebbero farsi per ognuno delle 750.000 persone, pari al 50 % della popolazione complessiva di allora, furono cacciate dalle loro case, che vennero distrutte perché i loro abitanti non potessero più ritornarvi ad abitare. La “casa nuova” di cui si parla nel brano era stata edificata appena l’anno prima, nel 1947. Raccontare che i palestinesi se ne andarono e non furono scacciati è quanto di più stolido e disonesto la propaganda sionista possa inventarsi. Per credere a simili fandonie bisognerebbe essere altrettanto disonesti o infinitamente stupidi ed ottusi. Queste cose Sartre, scrivendo nel 1947, non poteva saperle.

Che dell’«antisemitismo» – e non solo di questo – si sia fatta strumentalizzazione e industria lo dice un altro ebreo di nome Norman G. Finkelstein. Noi, cioè io che ora scrivo, preferisco attenermi alla certa distinzione fra il fare e il dire o persino il pero pensare ed opinare. In una società ordinata dal diritto e non soggetto all’arbitrio dei potenti e prepotenti di turno solo una concreta condotta, che si riveli concretamente lesiva della vita o dei beni altrui può essere penalmente sanzionata. Ma si sacrifica il principale dei diritti democratici, cioè la libertà di pensiero, ogni sanzione che colpisca il pensiero perfino non espresso o quello espresso in pubbliche dichiarazioni non certo sulla virtù della moglie di Cesare, ma su argomenti prettamente storici come quelli di cui stiamo qui parlando.

A lettura terminato, ci ha alquanto deluso il libretto di Sartre, al quale non attribuiamo particolare valore e che rimandiamo al Tribunale Russel per una sua valutazione. Intanto lo stereotipo dell’antisemita che Sartre usa ci sembra non meno arbitrario della figura dell’ebreo attribuito all’immaginazione dell’antisemita, del cui esistenza dubito fortemente. Intanto, è da chiedersi se Sartre abbia scritto nel 1947 la prima edizione su commissione di Stalin, che per antipatia verso gli inglesi, ovvero per suoi calcoli geopolitici di allora, aveva deciso di far nascere no stato di Israele sulla pelle di terzi, cioè i palestinesi, per i quali Sartre non spende neppure mezza parola: non esistono! Eppure sarebbero proprio loro i veri semiti come veri antisemiti sarebbero quelli che sono andati a cacciarli dalle loro case e dai loro villaggi: ebrei francesi o francesi ebrei, per non dire polacchi, russi, europei-orientali, a seconda delle “situazioni” da cui si parte. La bufala di un ritorno alla Terra Promessa dopo 2000 anni è una bufala, che un ebreo “non autentico” – per usare la terminologia sartiana – come Shlomo Sand è andata divulgando in questi ultimi due anni.

Credo che Sartre possa essere indicato come il padre filosofico della legge Fabius-Gayssot, una legge creata ad personam dopo che Robert Faurisson veniva regolarmente prosciolto sulla base della normazione precedente. Sono stati creati non solo in Francia ma in parecchi altri stati d’Europa quei reati di opinioni che stridono con ogni idea di illuminismo e di razionalismo. Trovo di marginale importanza o interesse il merito delle condanne comminate rispetto al fatto bruto di una condanna per non importa qualsivoglia reato di opinione.

Oltre all’obiezione di arbitrarietà di tutta la sua costruzione, credo si possa facilmente rilevare nello scritto di Sartre la totale mancanza di come l’ebreo – intendiamo quello della Torah e del Talmud oltre il sionista – veda il non ebreo. Eppure sarebbe un excursus assai istruttivo. Ci aveva pensato, nel 1700, Eisenmenger, ma il suo testo, già allora, era stato subito tolto dalla circolazione dagli ebrei di corte, potentissimi. Ai nostri giorni assistiamo ad ingerenze continue da parte ebraica nella liturgia cattolica senza che sia consentito il contrario. Dobbiamo accettare una Riforma quale neppure Lutero aveva immaginato: Gesù Cristo, se mai storicamente esistito, era un volgare “agitatore politico” che si era meritato il fatto suo. Così in una nota di Sarte sulla versione evangelica che in termini mistico-religiosi più che storici menzione la responsabilità degli ebrei nelle non accettazione del Messia Gesù e quindi nella sua condanna a morte:
«Notiamo subito che si tratta d’una leggenda (! corsivo mio) creata dalla propaganda cristiana della diaspora. È abbastanza evidente che la croce è un supplizio romano e che il Cristo è stato giustiziato da romani (corsivo di Sartre) come agitatore politico»
(op. cit., p. 48, nt 1).

Anche noi notiamo subito che se volessimo adottare il metodo della più recente critica storico-esegetica del testi evangelici non potremmo essere neppure certi non del fatto che i romani abbiano giustiziato il malfattore, ma dell’esistenza stessa della figura storica di Gesù Cristo. Le religioni però non nascono come i Trattati internazionali o come le Convenzioni che oggi si stipulano con sempre maggiore frequenza. Le religioni nascono su base metastorica o trans-storica. Non sarebbe mai sorta nessuna religione se avesse avuto bisogno di una registrazione notarile e di timbri burocratici. È perciò essenza ineludibile del cristianesimo – per nessuno è obbligatorio crederci – che esso nasca dalla morte in croce della figura religiosa di Gesù Cristo, figlio di dio, rinnegato dagli ebrei e messo in croce dagli ebrei per disegno dello Spirito Santo. All’incirca. Non siamo teologi di professione, come non lo è certamente neppure Sartre. Naturalmente, nessun vuol celebrare un processo penale contro gli attuali ebrei dopo due mila anni dalla morte in croce. Religiosamente e teologicamente parlando, è da questo episodio che poi si diparte la scissione radicale e irreversibile del cristianesimo dal giudaismo: nessun fratello maggiore e minore. Il cristianesimo ha senso religioso in quanto sia cosa radicalmente e totalmente altra dal giudaismo e parli ai non ebrei con linguaggio nuovo e diversa da quello con cui ancora oggi gli ebrei parlano ai goym, qualcosa che è al di sotto della razza umana. Tutto questo potrà piacere o non piacere, ma è il cristianesimo che in qualche modo in Italia, Francia, Europa abbiamo tutti conosciuto. Se dobbiamo proprio mandarlo in pensione, riprendiamoci allora le nostre divinità dette spregiativamente “pagane”, ma non chiedeteci di porgere il prepuzio per la circoncisione.

Insomma, mi sembra un grave limite scientifico da parte di Sartre non aver compreso o meglio non aver voluto considerare l’assoluta liceità della critica religiosa al giudaismo, quale vi è stata nel corso di 2000 anni. Ciò non implica necessariamente forme di intolleranza e persecuzioni di sorta. Lo Stato moderno nasce proprio con l’intento di evitare che fra le diverse confessione religiose, sorte dalla Riforma di Lutero, ci si scannasse proprio in nome di dio. È davvero strano come Sartre non abbia voluto comprendere – pagato da qualcuno? – che introdurre sanzioni penali per mere opinioni significa ritornare all’epoca delle guerre di religione. Nessuna onesta conoscenza, nessun uomo che abbia il senso della sua libertà e della sua dignità, accetterà che gli vengano imposte per legge o in maniera surrettizia e truffaldina credenze, per giunta prettamente storiche, che non corrispondano alle loro convinzioni.

Ed in effetti possiamo considerare i 200.000 tedeschi processati dal 1994 ad oggi come veri e propri “martiri” non di una fede, ma addirittura della ragione umana, che il “filosofo” Sartre ed altri con lui hanno consegnato al boia e al patibolo. Le bugie che si pretendono di imporre per legge su aspetti perfino futili cadono giorno dopo giorno come i birilli, ma cadendo infliggono un colpo tremendo alla certezza e dignità del diritto. Secoli di civiltà giuridica vanno a farsi benedire: forse è questo il mondo divinato da Sartre, quello governato dal denaro, che puà comprare e corrompere le coscienze, come egli stesso dice interpretando l’ebraicità “autentica”.

Sul piano strettamente storico-documentario, pur usando qualche volta i termini sionismo, Israele, etc., Sartre non ci dice nulla di fatti pur noti quando lui scriveva: la dichiazione Balfour, e quindi la sua legittimità; la partecipazione del sionismo (per non dire ebraismo) alla prima e alla seconda guerra mondiale nonchè a eventi tra le due guerre e anche prima di esse. Ad esempio, la dichiarazione di guerra che il sionismo fece alla Germania nel marz0 1933 ha avuto qualche conseguenza sulla persecuzione che ricevettero poi gli ebrei visti dai nazisti come il “nemico interno”? Di queste situazioni storico-concrete che spiegherebbe parecchio il filosofo Sartre non ci dice proprio nulla nella sua foga di volerci vedere tutti circoncisi per legge di stato.

Ancora un’osservazione. Avendo letto i due grossi volumi sulla “situazione” degli ebrei in Russia durante il XIX secolo ed il XX secolo, siamo indotti a non prestare nessun credito ai pochi accenni di Sartre al riguardo. Crediamo che il nome e la filosofia di Sarte sia legata alla figura di Stalin e di quel tipo di comunismo, il cui naufragio è un fatto ormai acclarato. Dico ai pochi amici che ancora insistono sul comunismo che sono ben disposto a considerare tutte le buone intenzioni dell’utopia marxiana, ma il senso storico mi obbliga a prendere atto di un fallimento epocale e senza che ritenga affatto migliore il trionfo del capitale e della finanza. Quanto alle rivoluzioni di cui Sartre ancora parla nel libretto mi senbra ancora più evidente il fallimento. Come ritengo strabiliante che un filosofo non abbia saputo riconoscere nel vero genocidio “semita”, quello palestinese, la più grande tragedia epocale che ancora si trascina davanti ai nostri occhi. Solo una filosofia dogmatica poteva produrre tanta cecità. Sartre è morto da non pochi anni, ma idealmente mando a lui nell’al di là, il rapporto Goldstone, redatto da un “ebreo” poco importa se autentico o meno. Gli ricordo ancora che duecento testate atomiche israeliane sono puntate sulle nostre terre, grazie suppongo ad “ebrei francesi”, ma devo ancora ricostruire le vicende che hanno indotto la Francia a dare il primo aiuto ad Israele per il suo armamento atomico. Credo che il mondo non sia mai stato in pericolo come adesso.


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6. Popoli e individui. – Non saprei spiegare se non come una forma sofistica, forse di origine talmudica, la distinzione che trovo nel libro fra popoli e individui che ne fanno parte. Seguendo l’accezione schmittiana, consideriamo nozione eminentemente politica il termine “popolo”. Questa qualificazione è tenacemente negata dal sionismo al popolo palestinese, ma la si rivendica per il “popolo ebreo”. Ma che significa ciò? Quando si ha un popolo ebreo e dove esiste esso? Dove si colloca geograficamente e territorialmente?

Ragionando tecnicamente sulla nozione di popolo, potrebbero qui porsi differenti quesiti, la cui risposta è facilmente arguibile. Intanto, le singole di ebrei presenti in molti paesi, debbono considerarsi “popolo ebreo”, secondo l’espressione che si trova nel libro di G. Israele che vuol fare i suoi conti il razzismo, sperando lasci a noi il diritto di farli con il sionismo, senza dover scontare a nostra volta l’accusa sionista di razzismo ed antisemitismo? E se debbono intendersi come “popolo” in senso proprio in che rapporto si collocano con il popolo dello stato dove si trovano (Italia, Francia, Germania, USA, Canada, etc.) e con lo stato odierno di Israele?

Essendo insita alla nozione di popolo anche quella di cittadinanza, quante cittadinanze possiedono gli ebrei? Una connessa all’essere “popolo ebreo” all’interno di un popolo ospite, l’altra che si condivide con gli altri cittadini dello stesso stato sulla base dell’emancipazione seguita alla rivoluzione francese e sulla sulla piena equiparazione dei diritti (con qualche privilegio in materia di doveri), un’altra ancora che ogni ebreo ha già virtualmente in tasca potendola ottenere in qualsiasi momento, se non l’ha già, dallo stato di Israele, che la nega pertinacemente ai palestinesi espulsi nel 1948.

7. «Sionismo = razzismo»: proprio così! – Cliccando sul link del titolo si accede al numero odierno della rassegna stampa sionista “Informazione Corretta”, di cui G. Israel è redattore. Con rammarico, lasciando intendere che un quotidiano come “La Stampa” non può che essere al servizio della causa sionista, si sorbisce un articolo di Shlomo Sand, che riassume tesi ampiamente svolte nel suo libro, non ancora disponibile in italiano. I miti fondativi dello stato israeliano vengono chiariti a beneficio di chi non vuol sottostare alla propaganda, sia pure di un “eccelso sionista” come Israel, omen nomen. La bugia della “fuga” dei palestinesi nel 1948 ha gambe davvero assai corte. Ma anche se la si volesse prender per buona, ciò non fa perdere i suoi diritti a che quella casa ha “lasciato”, non “abbandonato”. È davvero un ben curiosa concezione del diritto che si possa perdere il diritto alla propria patria, alla propria identità, solo per la colpa di essersi messi in salvo. Che non vi siano mai state le famose trasmissioni radiofoniche arabe che incitavano i cittadini a lasciare i villaggi è presentato come fatto acclarato, in ultimo anche nel libro di Fisk sopra citato. A sua volta, Sand parla non di “democrazia” come vorrebbe la propaganda israeliana, ma di “etnocrazia” secondo quanto già si legge in altro storico pure ebreo: Tony Judt. L’etnocrazia è una forma di razzismo, forse unico nel suo genere. Sand ben descrive il problema costituito da quel 20 per cento di popolazione palestinese che è sopravvissuta alla pulizia etnica del 1948. Piuttosto che riassumerne il contenuto ci sia concesso, riportarlo a mo’ di ampia citazione ed utile e autorevolissima critica alle tesi del libro di Giorgio Israel, qui criticato.
Ai loro primi passi quasi tutte le nazioni sono state guidate dal sogno di impersonare l’autocoscienza e la memoria «etnica» di un popolo. Le varie modalità di definizione dei gruppi nazionali hanno dato la stura a conflitti a partire dal XIX secolo, alcuni dei quali perdurano tutt’oggi. Ma, nella maggior parte degli Stati-nazione liberali e democratici, alla fine si è imposta una concezione civile e politica della nazionalità, mentre negli altri resta dominante una concezione etnocentrica di appartenenza.

Il sionismo, nato nell’Europa orientale, ha senza dubbio caratteri prevalenti etno-biologici ed etno-religiosi. I contorni della nazione non vengono individuati nella lingua, nella cultura secolare corrente, nella presenza sul territorio e nel desiderio di integrazione nella collettività. Invece l’origine biologica e frammenti di «nazionalismo» religioso costituiscono il criterio di inclusione nel «popolo ebraico». Sarebbe impossibile a chiunque integrarsi in questa nazione sulla base di un’appartenenza volontaria secolare, così come è impossibile smettere di appartenere al «popolo ebraico». Questi elementi originari sono tuttora basilari in Israele, e ciò costituisce la vera fonte del problema.

La colonizzazione sionista ha rafforzato questo tipo di nazionalismo. Ai primi stadi si è manifestato, in realtà, qualche dubbio sui confini della nazione ebraica. Si è ipotizzato di includervi gli arabi presenti in Palestina; ma dal momento che costoro si sono opposti con vigore alla colonizzazione, la nazione si è definita una volta per tutte secondo linee etniche e religiose.

L’etnocentrismo ebraico non ha fatto che rafforzarsi negli anni recenti; il risultato delle ultime elezioni legislative ne è una chiara testimonianza, mentre nel mondo occidentale si è assistito a un relativo ritiro della concezione tradizionale della nazionalità e alla nascita di forme più inclusive di spirito comunitario, legate alla globalizzazione culturale e all’immigrazione di massa. Che sia religiosa o secolare, l’identità ebraica in quanto tale non può essere soggetta a discussione, e dopo Hitler e il nazismo sarebbe folle e sospetto contrapporvisi. Ma se questo contribuisce all’isolamento degli ebrei dai loro vicini e all’identificazione con il militarismo israeliano e con una politica di dominazione di un altro popolo tramite la forza, c’è di che preoccuparsi.

Israele nei primi anni del XXI secolo si definisce come Stato degli ebrei e proprietà del popolo ebraico, cioè anche degli ebrei che vivono nelle altre parti del mondo, e non come Stato dell’insieme dei cittadini d’Israele che risiedono sul suo suolo. Per questo motivo è più appropriato definire Israele come un’etnocrazia che come una democrazia.

I lavoratori stranieri e le loro famiglie non hanno alcuna possibilità di essere integrati nel corpo sociale, anche se vivono in Israele da decenni. Quanto a quella quota di popolazione identificata dal ministero dell’Interno come «non ebraica», pur avendo la cittadinanza non può identificare in Israele il «suo» Stato. È difficile valutare quanto a lungo gli arabi israeliani (il 20% degli abitanti del Paese) continueranno ad accettare di vivere da stranieri nella loro stessa patria. Lo Stato si fa sempre più ebraico e sempre meno israeliano, nello stesso tempo in cui i cittadini arabi si israelizzano nella lingua e nella cultura, ma diventano sempre più anti-israeliani nelle loro posizioni politiche. È una serie di fatti paradossali. Non sarà forse lecito temere che una futura Intifada possa scoppiare non nel territorio occupato della Cisgiordania, soggetto a un regime in stile apartheid, ma invece nel cuore stesso dell’etnocrazia segregazionista, cioè dentro le frontiere dell’Israele del 1967?

È ancora possibile chiudere gli occhi per evitare di vedere la verità. Continuare a sostenere che il popolo ebraico sia esistito per quattromila anni come «Eretz Israel». Ma se i miti storici sono stati capaci, con una buona dose di immaginazione, di creare la società israeliana, in futuro rischiano di contribuire alla sua distruzione.

Shlomo Sand, Israele, attenti al mito!
in La Stampa del 15 aprile 2010, p. 47.

Costoro, cioè i sionisti, non solo non vogliono vedere la verità, ma quel che è peggio e ci offende assai è che non vogliono farcela vedere neppure a noi. Sand giustamente concentra la sua attenzione sulla società israeliana e su quanti vivono in Israele, ma il problema coinvolge tutti i cittadini europei, irretiti da una propaganda che ha alte complicità governative e che si avvale di una lobby pro Israele, ormai tranquillamente riconosciuta nel nostro paese, nel nostro parlamento, dove dovrebbe valere il divieto del mandato imperativo e l’obbligo da rappresentare la nazione italiana, non quella israeliana. Il presunto diritto di Israele a difendersi – nel linguaggio della propaganda – è in realtà la volontà di tenersi stretto il maltolto, mantenendo un regime di apartheid e negando il ritorno a chi dalla sua casa è stata scacciato, contro ogni elementare senso del diritto e della giustizia.

Nel suo libro, del 2002, G. Israel concentra la sua tesi, del resto, proprio sulla “questione israeliana”, volendo sostenere che l’antisemitismo deve essere identificata con l’ostilità allo stato di Israele. Le lobbies d’America e d’Europa stanno lavorando da anni per ottenere in aggiunta alla legislazione liberticida che vieta la critica storica dell’«Olocausto» vuole porre e sanzionare penalmente l’equazione antisionismo = antisemitismo, dove però già sionismo è uguale a razzismo. Ogni certezza del diritto è ormai pressoché svanita nel regime giuridico introdotto dal Tribunale di Norimberga, un tribunale di vincitori che giudicano e condannano i vinti per “crimini” che essi stessi hanno compiuto in misura maggiore, restando però impuniti.

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8. Non è il modo migliore di leggere. – Sono rimasto impressionato nel vedere che la precedente versione di questo post risale addirittura ad un anno fa! Caspita, come scorre veloce il tempo. Perché mai tanta esitazione nell’affrontare per le corna il nostro «eccelso sionista», come è stato salutato ed omaggiato dal suo clan di “Informazione Corretta”? Intanto, gli attacchi di cui sono stato oggetto, come semplice scrittore di un blog, guarda caso nella stessa piattaforma nella quale pure ne ha uno il mio “Collega”, al quale la comune università dalla quale dipendiamo non ha mai ritenuto di chieder conto della sua professione “sionista”, mentre invece ci si è dato pensiero del mio “antisionismo” dichiarato: il classico due pesi, due misure. Ma tant’è! Vi è poi il mio metodo dello scrivere a getto, la mia scrittura sull’acqua, che può presentare dei rischi se il testo non è rivisto e purgato magari di qualche aggettivo, per giunta superfluo ed ultroneo. Il non poter mettere in simboli gli innumerevoli pensieri che passano per la nostra testa produce dapprima una sorta di autocensura ed in seguito una perdita di interesse al tema per il sopraggiungere di nuovi pensieri che scacciano i precedenti. Vi è poi infine una questione metodologica e filologica. Vi è una teoria che considero sbagliata e che richiederebbe la fine della lettura di un libro, magari di diverse migliaia di pagine, prima di poterne scrivere e di poterlo criticare. Intanto, un libro di diverse centinaia o migliaia di pagine non è mai stato scritto un pochi minuti o in una sola seduta di lavoro. È il risultato di una tecnica e di un lavoro programmato e proiettato nel tempo. Spesso è anche la sommatoria delle sue pagine senza costituire un’assoluta unità logica per la quale ogni pagina è strettamente collegata alla successiva o all’ultima. In pratica, sono gli stessi pensieri di cui prima parlavo, che vengono raccolti e poi messi a stampa tutti insieme, magari sapendo di aver già un editore pronto per gli aspetti economici dell’impresa commerciale. Quindi, è perfettamente naturale poter dare giudizi su un libro nel corso stesso della lettura, pagina dopo pagina, e salvo a rivedere i propri giudizi se ne ve sarà bisogno. Inoltre, si può sempre essere criticamente vigili nello scrivere in tempo reale e direttamente in rete, come in questo momento.

Mi duole non aver scritto in corso di lettura su altri libri che appartengono alla stessa letteratura propagandistica sionista, di cui fa parte Israel. Ho voluto aspettare di leggere fino alla fine libri come quello di Mesnaghi. Battista, Compagna e forse qualche altro: tutti di fragile impianto e di natura non scientifica, ma propagandistica. Disserterò in altra occasione su cosa intendo per “scientifico”. Di quelle letture mi è rimasta l’impressione complessiva della loro inanità, ma sono andate perse tutte quelle osservazioni che avrei potuto fare in margine ad ogni pagina in corso di lettura.

Quindi, resto persuaso che se si vuol criticare o commentare un libro qualsiasi è meglio farlo in margine ad ogni pagina, via via che si prosegue nella lettura. Salvo, ripeto, a rivedere i propri giudizi se l’ultima pagina del libro dovesse far ricredere dai giudizi formatisi alla prima pagina o nel prosieguo della lettura. Sul tema della razza sono stato contattato nel frattempo da un Editore che mi chiede un mio commento introduttivo al volume di Paolo Orano che vorrebbe ripubblicare. Ho risposto che avevo bisogno di terminare alcune letture in corso, fra cui quella di Giorgino, che nel suo sionismo è imperterrito e va avanti come un treno ad alta velocità. Le pagine da cui riprendo la lettura sono ancora quelle iniziali, alle quali mi ero fermato giusto un anno fa, preso da scrupoli filologici. E devo dire che mentre leggo le sue due pagine (le 16-17) dove discetta se il razzismo possa essere soltanto “biologico” e non ve ne sia di un altro “non biologico”, mi viene il sospetto che abbia di mira Evola, che appunto non era l‘assertore di un razzismo “biologico”. Ma vedremo più avanti. Per adesso la reazione principale è una domanda che pongo metodologicamente in corso di lettura: ma l’ebraismo, o perfino il sionismo, non ha esso stesso nulla a che fare con la “razza” e non è forse la punta estrema esso del più bieco razzismo? La domanda non è per nulla retorica, bensì metodologica, e ne daremo noi stessi la risposta in prosieguo di lettura. Noto l’apparire nelle pagine citate di un altro autore della stessa congrega, ma non italiano, bensì francese, o forse neppure. Intendo quel Taguiff che molta della sua produzione e del suo tempo di lavoro ha dedicato e dedica alla costruzione del sionismo ed all’oppressione ideologica di tutti noi che non siamo dei loro. Ahimé! Brutti tempi dove non basta difendersi, avendone il diritto, ma occorre saper trovare il modo giusto per poterlo fare, per non cadere in quelle trappole del diritto positivo, che sempre si tendono ai propri avversari politici, quando si tiene in mano il quadrante della produzione legislativa. Ne sanno qualcosa in Francia e in Germania quanti si trovano in galera solo per essersi palesati di diverso avviso da quello degli autori citati. Se quelli passati siano stati regimi peggiori del presente, io non so dire, non essendovi vissuto e non essendomi concesso di indagare su di essi. So che nel regime vigente la libertà di pensare e di potersi liberamente esprimente non è un diritto garantito ad ognuno.

9. Menar il can per l’aia. – È questa l‘espressione che mi viene in mente mentre proseguo per la lettura di un altro paio di pagine, dove il nostro Giorgino ci dice cosa è o dovrebbe essere scienza e cosa invece non lo è non lo dovrebbe essere. Ci dice anche cosa lui valuti essere la più funesta nella storia e così via. E chissà per quante pagine ci toccherà ancora osservare il suo cane condotto per l’aia del suo “eccelso” pensiero. Dove lui voglia andare a parare in realtà lo sappiamo già, ma si tratta di coglierlo sul fatto e tocca aver pazienza. Se no ci dicono che non abbiamo metodo, appunto “scientifico”. Per la scienza vale poi all’incirca ciò che vale per i regimi politici: chi viene dopo dice lui che è scienza la sua e non lo è quella dei predecessori, se non graditi o caduti in disgrazia. Ma tocca percorrere, dietro al cane ed al padrone, ancora metri e metri se non chilometri di aia. Pazienza! È la virtù dei forti, come una saggio motto insegna.

Di pazienza bisogna averne per vedere come il nostro Autore la mette con la genetica, di cui non ho certo titoli per stabilire io se merita o no lo status di “scienza”. Quel che so che l’analisi del DNA viene assunto dalla polizia scientifica per la raccolta delle prove processuali. Della mappatura del genoma abbiamo tutti sentito parlare, salvo poi a capirne veramente di queste cose e poterne parlare di prima mano con cognizioni originarie e di prima mano. Così è lo stesso per tante cose. Parliamo spesso per sentito dire. Usiamo il computer con il quale sto ora scrivendo, ma è tutt’altra cosa saperlo costruire in casa e conoscerne tutti i meccanismo e poterli riparare quando e se si guastano. Ma per la genetica e per le tesi a cui pensiamo vada puntando l’Autore del libro che vogliamo criticare non possono non venirci alla memoria altre pagine di ben altro libro di ben altro autore: Shlomo Sand. Egli critica proprio le teorie genetiche che pretenderebbe do dimostrare la discendenza “unica” del “popolo” ebraico, che dopo quasi 2000 rivendicherebbe il diritto tutto “genetico” e “razziale” nonché “razzista” di ritornare a casa, cioè in Palestina, scacciandone gli autoctoni abusivi. Ma dobbiamo aver pazienza ed andare avanti nella lettura.


(Segue: il discorso è lungo e questa recensione prevede più sedute. Per oggi basta: chi è interessato ritorni ogni tanto alla pagina che è in progress. La scrittura è pure di getto. La forma letteraria sarà l’ultima cosa di cui ci occuperemo.)

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