mercoledì 17 dicembre 2025

Teodoro Klitsche de la Grange: "Trump e il ratto d'Europa (II)"

 

Dato che non cessa il dibattito sul National Security Strategy 2025 di Trump, siamo andati a chiedere lumi al sempre cortese Niccolò Machiavelli, il quale ci ha ricevuto.

A concentrarsi sul nocciolo del NSS 2025 questo qual è? E cosa lo distingue dal pensiero delle élite europee?

Il Trump l’è il migliore dei miei allievi, almeno nella vostra parte del mondo. Ciò che accomuna le sue argomentazioni e la distinzione dal pensiero dei governanti europei è che ha capito assai bene che chi trascura la realtà per andare appresso all’immaginazione è destinato a rovinare se stesso e la propria comunità.

Ma non crede che, in definitiva, le buone intenzioni e le belle prospettive possano costituire un punto di incontro tra le comunità umane?

Certo: a patto che tutti i governanti e i governati del pianeta le condividano. Ma questo non risulta né a me né a nessuno. Neppure a quelli che lo pensano, giacché per primi – e logicamente – indicano il nemico, che è colui che non condivide le loro immaginazioni. Cioè Trump, ma anche tanti altri: Putin, Xi, Modi, gli Ayatollah, ecc. ecc. Cioè la grande maggioranza di governanti e governati del mondo.

Ma non crede che nel futuro possano crearsi dei modelli di cooperazione e coordinamento?

Può darsi nel futuro. Fino a quel momento vale quello che scrissi nel Principe: che si governa (e si combatte) con le leggi e la forza. Ma occorre per farlo che le leggi pretese siano accettate dai governati. Il che, adesso, non risulta anche per parte dell’Europa. Se nel futuro ciò si realizzerà, forse sarà possibile.

In cos’altro differisce il Trump-pensiero da quello “corrente”?

In primo luogo che si basa su fatti ed esperienza storica (cioè sulla realtà), come da me fatto quando mi vestivo elegante per ragionare sulle vicende passate. Ad esempio nel documento si legge: “Chi un Paese ammette entro i propri confini – in quale numero e da dove – definirà inevitabilmente il futuro di quella nazione. Qualsiasi Paese che si consideri sovrano ha il diritto e il dovere di definire il proprio futuro… Nel corso della storia, le nazioni sovrane hanno proibito la migrazione incontrollata e concesso la cittadinanza solo raramente agli stranieri, che dovevano soddisfare criteri rigorosi. L’esperienza dell’Occidente negli ultimi decenni conferma questa antica saggezza. In molti Paesi del mondo, la migrazione di massa ha messo sotto pressione le risorse interne, aumentato la violenza e altri crimini, indebolito la coesione sociale, distorto i mercati del lavoro e minato la sicurezza nazionale”. Quando i romani, i quali tra l’altro, concedevano la cittadinanza con notevole larghezza, persero il controllo dell’immigrazione, l’Impero d’Occidente collassò in circa un secolo.

Al posto di quello subentrarono i regni romano-barbarici che erano tutt’altro dall’impero distrutto (anche se ne conservavano qualche vestigia).

Accusano Trump di non desiderare alleati, ma solo allineati alla visione americana.

Anche le mosche vogliono guidare i cavalli, perfino in politica. Figurarsi se non lo desidera il capo della prima superpotenza del pianeta. Accusare Trump di ciò è sfondare una porta aperta. Attraverso la quale passano tutti.

Ma Trump ha il senso del limite che diversi suoi predecessori avevano smarrito. Scrive infatti che “L’epoca in cui gli Stati Uniti sorreggono da soli l’intero ordine mondiale come Atlante è finita. Tra i nostri molti alleati e partner contiamo decine di nazioni ricche e sofisticate che devono assumersi la responsabilità primaria per le loro regioni e contribuire molto di più alla nostra difesa collettiva”. Io ho sempre sostenuto che per essere indipendenti occorre disporre di potenza e virtù propria, e non fondarsi su quella di altri. Indicando ciò, Trump indica la via maestra per determinare liberamente il proprio destino.

Ma tanto in Europa non vogliono capirlo.

Col rischio di finire a servizio permanente di altri. Oggi Trump, domani Xi o Modi passando per Putin. Gli è che si immaginano che la lotta per il potere si faccia con le favole.

Come scrissi secoli fa, discorrendo dei profeti disarmati o armati “Nel primo caso, sempre capitano male e non conducono cosa alcuna: ma quando dependono da lloro proprii e possono forzare, allora è che rare volte periclitano: di qui nacque che tutti e profeti armati vinsono e li disarmati ruinorno”. Vale in ogni caso, ma ancor più per coloro che credono – e spesso è così – di portare novità, come sostenevo “se uno principe ha tanto stato che possa, bisognando, per sé medesimo reggersi, o vero se ha sempre necessità della defensione d’altri. E per chiarire meglio questa parte, dico come io iudico coloro potersi reggere per sé medesimi che possono, o per abbondanzia di uomini o di danari, mettere insieme uno exercito iusto”.

Gli altri è meglio che si organizzino a difesa, la quale necessita in particolare, della fedeltà e convinzione dei sudditi. Che già ridotta, diminuisce ancora, come si legge nel documento.

Mi pare però che l’abbiano capito anche in Europa, dato che, specie la Germania, si stanno riarmando.

Era ora. Solo che per non perdere la faccia, seguono già il pensiero di Trump, ma lo attaccano per far dimenticare decenni di prediche contrarie, recitate a ogni piè sospinto. Alcuni a quelle prediche sono così affezionati che mostrano di non averlo capito neppure oggi.

Concludendo che cos’altro l’ha colpita?

Il fatto che Trump abbia ricordato a tutti quello che ha sostenuto il mio successore Hobbes: che lo scambio politico è tra protezione ed obbedienza – lo ripete più volte. Non si obbedisce a chi non protegge: ma se protegge ha diritto all’obbedienza.

Le élite europee le quali pretenderebbero la protezione americana, a gratis e con infedeltà (parziale) compresa, non manifestano il coraggio della libertà politica, tanto si sono mummificate nelle loro illusioni.

La ringrazio tanto

L’aspetto, quando vuole.


lunedì 15 dicembre 2025

Appello dell'Accademia e degli Enti di ricerca contro il disegno Delrio/Gaspare per la trasformazione in legge della dichiarazione dell'IHRA

Abbiamo già pubblicato il testo di matrice ebraica ed una selezione di pareri ebraici raccolti dal CDEC, la cui opera è da noi negativamente valutata, e che riteniamo debba essere sciolta, essendo non meno pericoloso di altre entità. Il testo che segue lo riprendo da altra fonte, che è questa. Lo condivido ampiamente, ma non ne faccia l'analisi. Tutti i cittadini possono apporre la loro firma. lo farò anche io con la mia qualifica, al momento del mio pensionamento dall'università di Roma La Sapienza, da dove la stessa Lobby aveva tentato di ottenere il mio licenziamento per presunte ed inesistenti mie Lezioni sull'Olocausto, tenute all'Università. Il procedimento disciplinare che allora 2009-2010 ne seguì presso il CUN appurò che si trattava di bufala totalmente inventata da Repubblica ed istigata dalla Comunità ebraica. I giornali, soggetti alla Lobby, non vollero pubblicare la notizia dell'assoluzione, ed i testi denigratori sono ancora in rete. In ultimo, Paolo Berizzi, si era inventato che fossi stato licenziato. Poco prima del suo rinvio a giudizio, sono stato contattato dagli avvocati della Gedi, per una transazione: sono stato risarcito in denaro e con l'aggiunta una lettera di scuse, che però resta totalmente ignota al mainstream, dove tuttora è presente la notizia del mio mai avvenuto licenziamento, come dimostra l'Attestato qui allegato. Questa è la Lobby ebraica e questo è il suo potere! Un potere che vogliono aumentare anche con questa nuova legge, bipartisan, Delrio/Gasparri! La Lobby ha sempre operato cercando il bipartisanismo!

Fonte del testo che segue:

Accademia ed enti di ricerca

 contro

 la trasformazione della definizione di antisemitismo dell’IHRA in legge

Per aderire:

https://forms.gle/xW2BNTR8EW14s97c7 

L’adesione è aperta a persone singole con un’affiliazione universitaria e/o presso un centro di ricerca; a organizzazioni e associazioni accademiche e scientifiche

Noi studiosi, studiose e docenti italiane di diverse discipline, lavoratrici e lavoratori afferenti a istituzioni accademiche ed enti di ricerca italiani e non, esprimiamo grande preoccupazione per i diversi disegni di legge che mirano a introdurre in Italia la definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA, ovvero l’International Holocaust Remembrance Alliance.

Nonostante si richiamino alla lotta contro l’antisemitismo, questi progetti di legge lo banalizzano e lo equiparano all’espressione di opinioni critiche verso le politiche di occupazione dello stato israeliano. Tali politiche sono state riconosciute come illegali e di discriminazione razziale dalla Advisory Opinion della Corte Internazionale di Giustizia nel luglio del 2024, e come forme di apartheid dalle più importanti organizzazioni palestinesi, israeliane e internazionali che lavorano in difesa dei diritti umani. Come dimostrato dalle stesse organizzazioni e da molteplici rapporti delle Nazioni Unite, le politiche implementate dallo Stato di Israele hanno subito negli ultimi due anni una accelerazione e si sono tradotte in forme di violenza genocidiaria contro il popolo palestinese.

Inoltre, i progetti di legge italiani, aderendo alla definizione dell’IHRA, oltre a trasformare la critica al razzismo di stato in antisemitismo, avrebbero come conseguenza che la vasta letteratura prodotta in molteplici campi del sapere e discipline in cui si analizzano le politiche israeliane come politiche coloniali, possa essere considerata come discriminatoria. Questo equivarrebbe a negare che per decenni Israele ha continuato a costruire colonie illegali attraverso l’espulsione forzata della popolazione palestinese. Gli eventi storici e quelli in corso a Gaza, in Cisgiordania e nei territori controllati da Israele, mostrano come la distruzione, il trasferimento forzato e la segregazione della popolazione palestinese attraverso la creazione di un regime di apartheid costituiscano la matrice operativa alla base delle violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale.

Impedire di utilizzare queste lenti di lettura e il sapere critico che hanno prodotto sulla questione palestinese risulterebbe in un impoverimento gravissimo della comprensione della storia e della politica contemporanee, trasformando la Palestina e lo studio delle violenze di stato messe in atto da Israele in un tabu–una sorta di eccezione palestinese alla produzione di sapere critico.  

Inoltre i disegni di legge presentati in Parlamento costituiscono una gravissima limitazione della libertà accademica, soprattutto per quello che riguarda la storia e le scienze sociali, e perfezionano uno spostamento di significato che nulla fa per combattere un fenomeno aberrante come il razzismo antisemita. Infatti, l’applicazione della definizione dell’IHRA otterrebbe il solo risultato di mettere a tacere attivisti, attiviste, studiosi e studiose interessate ad avanzare conoscenza e strumenti critici utili ad analizzare la storia degli stati per poter rendere le società umane più democratiche e consapevoli.

Invece, i ddl, nella loro presunta lotta contro l’antisemitismo attraverso l’adesione all’IHRA, finiscono per riprodurre proprio discorsi antisemiti. Del resto, l’idea stessa che esista una corrispondenza totalizzante tra ebrei, adesione al sionismo e sostegno a Israele è errata e pericolosa, poiché essenzializza l’ebraismo trasformandolo in sostegno allo stato israeliano. Numerosi studi insistono sulla necessaria distinzione tra antisionismo - espresso anche da gruppi e individui ebrei in tutto il mondo - e antisemitismo.

La definizione di antisemitismo dell’IHRA rappresenta un pericolo enorme per la nostra libertà accademica e di insegnamento. Essa criminalizza l’insegnamento e la ricerca sulle forme di discriminazione e razzismo contro la popolazione palestinese, e di occupazione e colonialismo della terra palestinese. Infatti, l’IHRA viene promossa con forza e con enormi sforzi diplomatici da parte di Israele, che la usa come strumento di protezione delle gravi violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani che commette. Non è affatto una coincidenza che gli sforzi per la trasformazione dell’IHRA in strumento sanzionatorio per legge coincidano con gli sforzi diplomatici di molteplici ministeri israeliani a favore dell’uso della definizione in questa direzione. E non è affatto una coincidenza che questi sforzi avvengano in concomitanza con l’assunzione della presidenza dell’IHRA da parte di Israele.

È chiara ed evidente la volontà di mettere a tacere, attraverso persino il diritto penale, voci e saperi critici in molteplici campi di studio e negli spazi universitari, che hanno costituito uno dei fulcri del dissenso contro la distruzione della popolazione di Gaza e le complicità del nostro governo con i crimini israeliani.

Come studiose e studiosi chiediamo che vengano ritirati tutti i ddl che adottano la definizione di antisemitismo dell’IHRA trasformandola in legge e strumento di definizione di cosa costituisce antisemitismo negli spazi di produzione e circolazione del sapere. Chiediamo anche che il governo italiano revochi l’adozione della definizione IHRA attuata dall’Italia nel 2020, in violazione della nostra Costituzione.

Prime firme:

[a seguire una lista molto lunga che si allunga di continuo] 

venerdì 12 dicembre 2025

Teodoro Klitsche de la Grange: "Bosco e conformismo"

La “famiglia nel bosco”, separata per decisione del Giudice, pone (almeno) due problemi che sono alla radice del diritto.

Il primo è che, a quanto pare, a essere sanzionato è lo stile di vita della famigliola; di converso lo stile di vita normale, che è quello della stragrande maggioranza degli italiani, diventa da facoltativo ad obbligatorio e le relative norme (di cortesia, convivenza, bon ton, e così via) trasformate in giuridiche; come tali lo Stato (e la di esso organizzazione) ne assicura l’osservanza, anche coattiva. Di questo passo a far osservare il corretto uso delle posate a tavola saranno i marescialli dei Carabinieri.

Ciò non solo sposta vistosamente a danno della libertà il confine tra vietato e permesso, sul quale si fonda il principio c.d. di separazione tra Stato e società civile, ma ancor di più quello del conformismo con un modello di vita che diventa non solo di gran lunga maggioritario, ma anche imposto.

Va da se che fino a qualche decennio orsono gli italiani che vivevano all’aria aperta, a contatto con la natura, consumavano prodotti da loro coltivati (km 0) erano tanti; industrializzazione e successiva prevalenza economica dei servizi ha cambiato una società (in larga misura) agricola, onde il “modello” di vita rurale è divenuto marginale, così che al conformista appare non solo stravagante, ma anche sospetto.

La seconda è che la vicenda ripropone il conflitto tra istituzione e famiglia e istituzione/Stato, ripetuto in tante comunità. A cominciare da quelle dell’antica Roma, dati i vasti poteri riconosciuti al pater familias, limitati progressivamente nel diritto “classico” e giustinianeo. Già nella tragedia Antigone nei due personaggi di Antigone e Creonte, sono state viste tante contrapposizioni. Una delle quali era per l’appunto il conflitto tra il diritto generato dall’istituzione-famiglia (Antigone) e quello promulgato dall’istituzione politica (Creonte).

Nel caso in una materia particolarmente sensibile, come l’educazione e il regime di vita dei figli e, in genere dei componenti la famiglia. Il tutto, senza che i genitori avessero violato alcuna norma (almeno pare) né penale né a carattere pubblico. Il che alla libertà concreta non fa certo bene.

 

martedì 9 dicembre 2025

Teodoro Klitsche de la Grange: "Trump e il ratto d'Europa"

 

1.0 Le reazioni indispettite delle èlite europee e della stampa loro allineata alle pagine che Trump ha dedicato all’Europa nel documento National Security Strategy 2025, non sorprendono: né per la reazione né nei di essa modi ed argomentazioni. D’altra parte anche le considerazioni del documento americano erano state in gran parte anticipate nelle precedenti esternazioni di Trump (e di Vance); peraltro, diversamente da quello che il Presidente USA afferma urbi et orbi, ossia tutto e il contrario di tutto a giorni alterni, il pensiero sull’Europa è stabile e immutato. I punti essenziali del quale sono di seguito riepilogati.

1) “L’Europa continentale sta perdendo quota nell’economia globale: è scesa dal 25% del PIL mondiale nel 1990 al 14% attuale — in parte a causa di regolamentazioni nazionali e sovranazionali che soffocano creatività e spirito d’iniziativa. Ma questo declino economico è superato da una prospettiva ancor più grave: quella della cancellazione civilee questo perché l’attività dell’U.E. e di altri organismi internazionali…” conculcano la libertà politica e la sovranità; ed adottano “politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti; censura della libertà di espressione e repressione dell’opposizione politica; crollo dei tassi di natalità; perdita delle identità nazionali e della fiducia in sé stessi.

Se le tendenze attuali proseguiranno, il continente sarà irriconoscibile in 20 anni o meno”.

2) Il Presidente afferma di volere “che l’Europa rimanga europea, che ritrovi fiducia civile e abbandoni il suo fallimentare modello di soffocamento regolatorio”. Poi un’altra considerazione realistica “Gli alleati europei godono di un significativo vantaggio in termini di hard power rispetto alla Russia in quasi tutte le misurazioni, tranne che nelle armi nucleari”, perciò l’Europa gode di un vantaggio che dovrebbe impedire o almeno ridimensionare le (pretese) velleità egemoniche di Putin, se ne deduce.

3) “L’amministrazione Trump si trova in contrasto con funzionari europei che nutrono aspettative irrealistiche sulla guerra e governano in maggioranze instabili, molte delle quali calpestano principi democratici fondamentali per reprimere l’opposizione. Una larga maggioranza degli europei vuole la pace, ma questo desiderio non si traduce in politiche concrete, in larga parte a causa della sovversione dei processi democratici da parte di questi governi”.

4) Tuttavia “l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti. Il commercio transatlantico resta uno dei pilastri dell’economia globale e della prosperità americana” pertanto “La diplomazia americana deve continuare a difendere la vera democrazia, la libertà di espressione e la celebrazione senza complessi dei caratteri nazionali europei e della loro storia. L’America incoraggia i propri alleati politici in Europa a promuovere questa rinascita dello spirito, e la crescita dell’influenza dei partiti patriottici europei rappresenta effettivamente un motivo di grande ottimismo.

Il nostro obiettivo deve essere aiutare l’Europa a correggere la sua traiettoria attuale… Vogliamo lavorare con paesi affini che desiderano restaurare la propria grandezza.

Sul lungo periodo, è più che plausibile che entro poche decadi almeno alcuni membri della NATO diventeranno a maggioranza non europea”.

5) La migrazione incontrollata può alterare l’anima dell’Europa. Nelle nazioni ove la maggior parte della popolazione divenisse non europea “è una questione aperta se considereranno il proprio ruolo nel mondo — o la propria alleanza con gli Stati Uniti — nella stessa maniera di coloro che firmarono il Trattato NATO”.

6) Segue un elenco di priorità: Ristabilire condizioni di stabilità interna in Europa e stabilità strategica con la Russia; conseguire autonomia militare, invertire la rotta spirituale. Tra queste interessano soprattutto:

“• Rafforzare le nazioni solide dell’Europa centrale, orientale e meridionale tramite legami commerciali, vendite di armi, collaborazione politica e scambi culturali ed educativi;

• Porre fine alla percezione — e prevenire la realtà — di una NATO in espansione perpetua;

• Incoraggiare l’Europa a contrastare sovracapacità mercantiliste, furti tecnologici, cyber-spionaggio e altre pratiche economiche ostili”.

2.0 I capisaldi del discorso di Trump sull’Europa e di tutto il documento, sono il realismo, il pragmatismo, il ridimensionamento (o il rifiuto) di contrapposizioni ideologiche: tipo quella spesso prediletta di democrazie contro autocrazie. Ossia il contrario (spesso) e, in genere, il diverso da quanto praticato dalle élite europee (al tramonto) nell’ultimo trentennio, anche ispirato dalle amministrazioni USA pre-Trump.

D’altra parte che il capitolo sull’Europa s’intitoli “promuovere la grandezza europea” è anch’essa una considerazione realistica, per due motivi. Il primo che in un pluriverso, è essenziale selezionare i nemici e gli amici: se il nemico è un elemento insopprimibile, occorre provvedersi di amici, perché – come insegnato da millenni di storia, non ci si può contrapporre a tutti, pena la sconfitta e, al limite, l’autodistruzione.

E tra i diversi soggetti politici (Russia, Cina, India) l’intesa è più facile con chi, come Europa e USA, appartengono alla medesima Kultur (civiltà): quella del cristianesimo occidentale, con la separazione di Chiesa e Stato, di questo dalla società civile, del popolo e dei suoi rappresentanti, della libertà e delle proprietà garantite (anche nei confronti dei poteri pubblici).

3.0 Dove la critica di Trump coglie nel segno è nel notare come la pratica governativa della maggior parte dei paesi europei abbia contraddetto gran parte dei principi della civiltà euro-occidentale e della capacità di ripresa..

Il primo luogo con la perdita del rapporto tra vertice politico (governanti) e seguito (in senso lato i governati), il cui segno più evidente è il moltiplicarsi di governi populisti o comunque non allineati alle vecchie élite, in particolare nell’Europa “centrale, orientale e meridionale”. Ma risulta anche laddove i governi “nuovi” non hanno conseguito la maggioranza negli organi governativi, ma l’hanno tra gli elettori, con la conseguenza della difficile governabilità, come in Francia (malgrado la prevalenza nella quinta Repubblica del pouvoir minoritaire presidenziale-governativo). Mentre nel contempo la dirigenza europea esercita pressione sui governi non allineati, malgrado eletti (e confermati) da maggioranze popolari (come l’Ungheria di Orban) o cercando di non condannare, anzi di agevolare la manomissione del procedimento elettorale (come in Romania).

Tutte pratiche aventi in comune la debolezza di élite dal consenso scemante; ovviamente riuscendo sempre meno a raggiungere lo scopo.

In secondo luogo l’irrealismo di certe politiche: dal cominciare col far passare la Russia come nemica principale, quando è evidente che Putin non ha l’intenzione, e a ben vedere neppure la forza di invadere l’Europa centrale ed occidentale in un conflitto convenzionale (l’uso della superiorità nucleare russa appare ancor più irrealistico). O quello di europeizzare masse di migranti, in particolare islamici: poco propensi ad abiurare. O perseguire obiettivi (Green Deal) in modo autolesionistico (per l’economia).

Inoltre Trump nota il tafazzismo europeo quando, invece dell’orgoglio delle proprie civiltà, istituzioni, valori e cioè della propria identità, ne prova quasi vergogna (qua, però, l’esempio è venuto dagli USA e dalla cancel culture).

Le proposte del documento sull’Europa hanno anche un effetto ironico: dopo che le élite europee avevano favorito l’estensione della NATO (e dell’UE) agli Stati dell’Europa orientale, proprio dell’America viene il prudente (ed evidente) consiglio di non espanderla (dato a suo tempo da tanti altri, tra cui Kissinger). Così i tromboni italiani che hanno auspicato la riduzione della sovranità nazionale – cominciando del “vincolo esterno” – e “guerrafondai” europei (italiani compresi) tutti compiaciuti di aiutare gli ucraini a combattere una guerra (persa) a danno dei combattenti e a spese degli europei, che proprio dal referente principale arrivi il consiglio a calmare i bollenti spiriti e a pensare più realisticamete è sintomatico dell’inadeguatezza di élite decadenti.

Alle quali ciò che (più verosimilmente) dispiace del documento è l’incoraggiamento ad alleati politici e partiti patriottici; suona come un preavviso di sfratto alle élite.

Cosa che ovviamente non sopportano e pour cause: avendo collezionato talvolta sconfitte e talaltra risultati mediocri, non resta loro che consolarsi con l’esercizio del potere.

E’ il potere per il potere, in luogo del potere per uno scopo (l’interesse generale, della comunità.

Ma non vogliono che lo si “racconti in giro” come ha fatto Trump. E per questo fanno passare le critiche del Presidente americano per spirito antieuropeo nel senso delle comunità, quando il bersaglio ne sono le élite europee.


venerdì 5 dicembre 2025

Teodoro Klitsche de la Grange: "Guerra ibrida, novità?"

Da qualche anno si è diffuso il termine “guerra ibrida” che vuole significare la compresenza, in un confronto ostile, di condotte di guerra “classica” con altre accomunate dall’assenza di violenza: sanzioni economiche, propaganda, attacchi informatici. Qualcuno vorrebbe identificarla come il modo di guerra del XXI secolo.

Senonché a (parziale) rettifica della “modernità” di tale tipo di guerra, alcuni di tali elementi non violenti sono praticati da secoli.

Le sanzioni economiche soprattutto (che possono essere particolarmente efficaci): è opinione diffusa che se Roosevelt non avesse fatto seriamente rispettare le sanzioni contro il Giappone (come ad un certo momento fece) il Giappone avrebbe dovuto ritirarsi dalla Cina (al più tardi) nel 1943.

Altri che invece sono del tutto nuovi (ad esempio gli attacchi informatici) ma solo perché non c’erano i computer, così come la guerra aerea è nata solo con gli aeroplani (e il loro impiego militare).

Se si rimane fermi al concetto tradizionale di guerra cioè di confronto violento tra sintesi politiche con formazioni organizzate militarmente e provviste di strumenti idonei alla distruzione fisica del nemico, che si fonda sugli aspetti più appariscenti del fenomeno bellico, indubbiamente l’uso del termine guerra, per gli attacchi ibridi, appare una forzatura.

Ma se, come spesso mi capita di scrivere, ci si rifà al concetto che ne avevano pensatori come Clausewitz e Gentile, ossia che la guerra è un mezzo per costringere il nemico a fare la nostra volontà, quella forzatura non è tale o comunque appare secondaria.

Già negli anni 30 del secolo passato Carl Schmitt scriveva che “il concetto di guerra si è nel frattempo molto modificato. Intanto esso non si esaurisce più nella lotta militarmente armata, ma vi è anche una attività extra-militare nelle ostilità, poiché la guerra diventa guerra economica, guerra di propaganda”, e riteneva che aveva ragione Chamberlain a dichiarare, nella primavera del 1939, che non si era né in guerra, né in pace, malgrado la guerra sarebbe stata dichiarata parecchi mesi dopo.

La nota intervista dell’ammiraglio Cavo Dragone ha rinfocolato il dibattito sul tema, e la relativa confusione derivante dal termine “guerra”; corretto per quella ibrida solo se lo si usa nel senso di Clausewitz e Gentile ma che suscita allarmi se non inteso in tal senso.

Ciò stante a leggere sulla stampa le dichiarazioni dell’Ammiraglio di essere più aggressivi sulla cibersicurezza, siamo ancora nei limiti di una risposta proporzionata: un hacker, un hacker e mezzo avrebbe detto Napoleone se avesse avuto i computer. Quello che invece sarebbe assai imprudente è replicare con bombe e missili ad un attacco informatico.

Le prese di posizione di Tajani e della Kallas, questa che ha parlato di sanzioni “ibride” per “contrastare gli attacchi ibridi” (quindi una difesa omogenea all’attacco) e quello che ha richiamato alla “difesa da una guerra ibrida”, invocando alla prudenza hanno correttamente interpretato il senso dell’intervista dell’ammiraglio.

Resta comunque il fatto che, da secoli la guerra si fa non solo con le azioni e il confronto diretto, ma in varie forme e tipi, compreso quello per procura in cui dietro i belligeranti apparenti c’è una lotta di potenza tra quelli occulti, che sostengono, soprattutto sul piano economico, il proprio alleato. Richelieu finanziò la lotta antiasburgica dei protestanti per i primi diciassette anni della guerra dei trent’anni, prima d’intervenire direttamente, costretto dalla sconfitta disastrosa dei propri alleati a Nordlingen.

C’è da sperare quindi, dato questo (e altri) precedenti, che la Russia non vinca troppo. Soprattutto per non ringalluzzire i nostri guerrafondai.

 

lunedì 1 dicembre 2025

Teodoro Klitsche de la Grange: "Carlo Galli, Tecnica, Il Mulino, Bologna 2025, pp. 170, € 16,00"

 

 


Quali contemporanei ci confrontiamo quotidianamente con la tecnica – e ancor più col progresso tecnico – che ci cambia la vita sotto ogni aspetto. Dalla comunicazione alla salute, dalle abitudini al lavoro e al tempo libero.

Questo saggio ne cura in particolare uno, quello decisivo, il rapporto tra tecnica e potere e come quella condizionasse questo, agevolandone l’opera o sovvertendolo.

Partendo dalla sua ineluttabilità. Scrive l’autore che non vi è cura per la tecnica, perché fa parte del modo di esistenza umano, è un fare produttivo: “la tecnica costituisce l’essere umano e la stessa storia della specie umana, ma è anche capace di minacciare l’umanità”. Ciò perché è “neutra” nel senso che non determina i fini, ma è un mezzo: può servire a fare antibiotici come la bomba atomica: “La tecnica è indispensabile ma non è neutra, non può esserlo – e quindi non è possibile una tecnocrazia: il kratos non è della tecnica ma di chi la produce e la impiega. La tecnica è sempre trascinata all’interno di polarità e conflitti, storici ed intellettuali: fra politica e burocrazia, fra azione e fabbricazione, fra tradizione e progresso”.

Per orientarsi sul tema Galli propone due coordinate essenziali: la prima che la tecnica va pensata come azione orientata all’utilità, cioè al profitto e alla potenza; “La seconda è che il pensiero si forma attraverso il fare, che esige la relazione col pensato, ma al tempo stesso il pensiero trascende il pensato se non altro perché è capace di pensare sé stesso e la propria origine. Il pensiero non è disincarnato ma anzi è «concreto»”.

La connessone con la politica e l’economia fa si che ci sia sempre una politica (e una geopolitica) della tecnica. Perché nella tecnica “non c’è solo l’elemento strumentale: vi sono compresi anche il Saper fare, il Voler fare, il Poter fare. Ovvero, nella tecnica sono presenti fattori epistemologici, economici, politici”. La coessenzialità di tecnica e natura umana è nel costruire ma anche nel criticare, nel co-determinare le azioni umane; implica che la “tecnica è necessaria alla definizione dell’umanità, ma non è sufficiente. La ragione tecnica è un universale parziale, ovvero non è tutta la ragione: c’è un’eccedenza, ed è il pensiero che pensa quella ragione”.

Un pensiero interessato, ma non solo strumentale che ri-orienta l’azione. A questo è dedicato il terzo capitolo in cui Galli mostra “i molti modi con cui la filosofia ha messo in rapporto la tecnica, il sapere e l’agire, la realtà naturale e l’artificio, e con cui ha reagito alla moderna esondazione della tecnica, estesa a ogni ambito della società e delle mentalità”; con soluzioni che vanno “dal massimo di estraneità fra teoria e fabbricazione, quindi, fino al massimo di immanenza”. Il libro conclude con due tesi. La prima è che il dominio che si realizza “non è della sola tecnica come strumentale fabbricazione: è dominio di una forma concreta, storica, di combinazione fra sapere pratico, politica, economia, comunicazione. Quando ci accorgiamo di servire la tecnica e il suo nichilismo, o i suoi simulacri, possiamo quindi capire che stiamo servendo il profitto o la potenza di qualcuno: non è l’impersonale ma persone”.

La seconda, collegata alla prima è che così esiste “lo spazio della critica e la possibilità dell’agire politico, che vada al di là di quel fabbricare che ci sta fabbricando”. E Galli prosegue: “Quelle due tesi, combinate, sono insomma un invito alla «critica della tecnica»… Una critica realistica (un «realismo critico») che esige capacità di vedere le contraddizioni tra universalità e parzialità, fra progresso e dominio… la cui esistenza e consistenza è il vero problema – non tanto dalla tecnica quanto dalle coazioni del sistema sociopolitico di cui questa è l’espressione storica concreta”.

Due notazioni del recensore a margine di un saggio esauriente e attuale.

La prima: a differenza delle concezioni tecnocratiche, non c’è soluzione tecnica valida a prescindere dai fini cui è indirizzata. Cioè buona, auspicabile, voluta (da chi i fini determinava). Il che significa che i presupposti del politico (comando/obbedienza; pubblico/privato; amico/nemico) rimangono immutati e pure se condizionati dalla tecnica, non se sono detronizzati.

La seconda che perciò non c’è una tecnocrazia quale forma politica (come monarchia, aristocrazia, democrazia); c’è una conformazione dell’organizzazione pubblica alla novità delle situazioni, tra cui – numerosissime – quelle risultanti dallo sviluppo tecnico. La contraria convinzione già criticata da Croce con ironia è costantemente smentita dal fatto – peraltro energicamente sostenuto da Galli – che è sempre un “modello”, a servizio di un potere (a cui risponde). E che sotto una apparente oggettività finisce per conculcare la soggettività degli individui e delle loro formazioni sociali, con il tramonto di ogni libera prospettiva di un mondo di cui questi abbiano “piena comprensione e responsabilità”.