L’espressione
“teologia politica” è polisensa. Di solito denota l’influenza della religione
nell’ordinamento delle comunità umane; in altri casi la corrispondenza tra
rappresentazione dell’ordine metafisico-teologico e quello politico; in altri
quello della somiglianza tra concetti della teologia con quelli del diritto
pubblico. Il tutto in un’epoca in cui la secolarizzazione appare compiuta, il
cielo si è eclissato ed ha lasciato la terra, onde parlare di teologia politica
sembra un’attività di archeologia
culturale.
L’autore ritiene
invece che: “La tesi fondamentale di questo libro è che la teologia politica
sia inestinguibile. Anche al tempo della sua negazione, qual è quello presente.
L’obiettivo che ci proponiamo è di scavare dentro questa insuperabilità. Sia
facendone la genealogia, in modo da illuminare il nucleo teologico-politico
della modernità e la costante riemersione di domande di senso in ambito
secolare. Sia evidenziando le forme rovesciate che la teologia politica assume
nel contesto ideologico neoliberale, cioè come teologia economica e teologia
giuridica”. Al posto della teologia politica appaiono quindi quelle economica e
giuridica “Ma interpretare quella crisi come tramonto o scomparsa sarebbe
ingenuo. Piuttosto, con la teologia economica e quella giuridica si assiste
alla riproposizione in forme rovesciate,
spesso ostili al primato del “politico”, dei problemi di legittimazione e delle
esigenze ordinative che sono alla base del nucleo teologico-politico moderno e
del suo lascito paradossale”. Per teologia economica (il termine è anch’esso
polisenso) Preterossi intende in primo luogo “una proposta ermeneutica sul
neoliberalismo che non si limiti a sottolinearne gli aspetti ideologici e le
conseguenze sociali, ma individui in esso un paradigma di razionalità e di
governo basato su altre logiche (e altri “assoluti”) rispetto alla
costellazione di senso propria della trascendenza politica sovrana”: il tutto
senza alcuna trascendenza (almeno apparentemente). Mentre con la formula
“teologia giuridica” si intende sottolineare la tendenza alla moralizzazione
della normativa giuridica”. Come la teologica economica è rivolta contro la
sovranità degli Stati, ma, non è riuscita ad eliminare quello che Miglio
chiamava “regolarità della politica” e, in un diverso discorso, Freund “i
presupposti del politico”, e ancor meno le situazioni eccezionali. Che anzi si
sono ripresentate in modi (la pandemia) e in teatri (la guerra in Europa) dove
sembravano estinte. Segno che i quattro cavalieri dell’apocalisse non sono
stati pensionati dalla “fine della storia”. L’inconveniente fondamentale del
neo-liberalismo è di andare “in direzione di un modello di società che escluda
qualsiasi dimensione di trascendimento simbolico del piano di immanenza… non
solo non riesce più a fare ordine, ma per arginare illusoriamente tale
ingovernabilità si finisce per revocare… tutti gli elementi costitutivi del
“politico”, senza tuttavia la possibilità di istituzionalizzarli, renderli
produttivi, travolgendo così anche la funzione della mediazione giuridica e
sociale”. Guerra e stati d’eccezione (da anni nell’occidente globalista viviamo
per lo più tra l’uno e l’altra) mostrano come “tutti i tentativi di aggirare o
rimuovere la teologia politica ne subiscono la nemesi, pagando il prezzo della
mancata assunzione delle sfide alle quali essa corrispondeva. Così che, in un
quadro disarmante di inefficienza ordinativa, si finisce per replicarla
surrettiziamente in forme compensative e politicamente inefficaci”. In effetti
caratteristica della modernità “grazie a una serie di passaggi che siamo
abituati a denominare “secolarizzazione”, (e che) la politica e la mediazione
giuridica si sostituiscono alla religione come forza coesiva mondana. Ma non si
tratta di una liberazione del religioso, cioè delle aspettative che in esso
erano riposte. Quella sostituzione carica la politica della funzione simbolica
istitutiva che era stata propria della religione”, e produttiva di coesione
sociale perché esercita la funzione di mediare e decidere i conflitti. Per cui
il riemergere del “politico” (e del teologico-politico) ai tempi dell’anti
politica, ne prova l’insostituibilità.
La stessa
“teologia economica” neoliberale “è una teologia politica “anti-politica”
perché fa dell’immanenza un assoluto,
Cioè una forma di trascendenza sacrale che nega se stessa. Infatti il
neoliberalismo non è, se si guarda alla sua logica profonda, solo una teoria
“economica”, ma una filosofia della spoliticizzazione dell’agire umano”.
Analogamente la sua opposizione dialettica, ossia il “populismo”, non rinuncia
al “fondo” teologico. Scrive l’autore che “”Ne deriva che o c’è dio o c’è il
popolo: nelle società secolarizzate, è inevitabile che la fonte sia
quest’ultimo. Il popolo prende il posto di dio come soggetto costituente. Il
populismo, evocando il popolo, si ricollegata a questo passaggio decisivo della
tradizione democratica moderna, che è un passaggio teologico-politico in senso
schmittiano, quindi come sostituzione di una “trascendenza politica” moderna,
emergente sul piano dell’immanenza a una trascendenza sacrale, in sé
“trascendente””.
Preterossi
conclude sostenendo (cosa ormai evidente) che la “teologia economica” alla lunga,
non ha funzionato: al deficit di eccedenza politica non ha sostituito alcun surplus ordinante “Ciò ha causato una
profonda crisi di legittimazione”, né ha suscitato legami comunitari. La
“teologia giuridica” neppure: la tesi dell’autore è che “la saldatura di un
diritto sempre meno preoccupato dell’effettività e della certezza con la morale
neoliberale sia non solo il segno di una generale crisi del “giuridico”, ma
allo stesso tempo il tentativo, disperato e fallimentare, di individuare una
sfera legale eticamente immunizzata, che compensi la perdita di auctoritas delle istituzioni e l’inaridimento
della sfera pubblica”. La teologia politica è così inestinguibile “in quanto
esprime la struttura di fondo della metafisica politica moderna… L’unico modo
per tenerla sotto controllo è riconoscerla, non contrapporvisi direttamente, o
negarla. Se, come credo, la modernità può essere concepita come una forma di
“auto-trascendenza dell’immanenza”, ciò significa che la teologia politica è un
movimento interno alla modernità secolare”. Non è necessario che il fondamento
sia di natura religiosa “Può essere anche di natura etico-politica, ideale
(nella modernità matura è stato prevalentemente tale). Ma il punto è che il
“contenuto etico” non può risolversi in compensazione soggettivistica,
moralistica del vuoto d’identità collettiva”. Così “La teologia politica si
ripropone oggi nella forma del simulacro. Non produce risposte politiche, ma
surrogati di verticalità e di sicurezza”.
Resta il dubbio
se vi siano forme di soggettività politica collocabili “oltre” la teologia
politica, che l’autore ritiene auspicabili “di visioni politiche ambiziose, che
non temano di confrontarsi con le “cose ultime”, abbiamo bisogno.. La politica
come amministrazione va bene, forse, per tempi tranquilli. Non quando lo
spirito torna a calzare gli stivali delle sette leghe”
Un saggio assai
interessante ed esauriente, nel solco pensiero di Hobbes, Hegel e Schmitt.
Una notazione
del recensore ad un libro così articolato e del quale ho cercato di rendere
l’essenziale.
È noto che a
partire da de Bonald, continuando per Donoso Cortes e arrivando a Maurice
Hauriou la correlazione tra concezioni teologiche e forme politiche (non solo
statali) è stato variamente affermato. Così per de Bonald il deismo era la concezione
teologica sottesa al costituzionalismo liberale (il re che regna ma non governa),
il teismo cattolico allo Stato assoluto; per Donoso Cortes il nocciolo del
liberalismo era sempre deista, quello del socialismo ateo. Per Maurice Hauriou
lo stato borghese era uno dei possibili esiti della dottrina teologica del
diritto divino provvidenziale, mentre lo Stato assoluto lo era del diritto
divino soprannaturale; il decano di Tolosa riteneva anche come questo fosse
un intervento (intervention) della metafisica sul diritto. Il quale ricopre come
un guscio (couche) il fondo (fond) teologico, ma non può sfuggire a
questa costante (o regolarità). La quale si manifesta chiaramente quando il
diritto viene a mancare, come nel caso dei governi di fatto, fondati sulla
“giustificazione teologica” e non sulla legalità delle procedure. Il fond teologico è così creatore di forme
giuridiche. Resta da vedere quali forme possa creare il “pilota automatico”
(versione tecnocratica della “mano invisibile”) tecno-globalista. Probabilmente
nessuna (se coerente); ove apocrifo (e ipocrita) la consegna del destino delle
comunità a poteri indiretti ed opachi. Colla prospettiva di avere un governo né
visibile né responsabile.
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