1. Qualche tempo
fa mi capitò di scrivere che le dichiarazioni della Meloni davano uno spazio –
poco consueto in Italia – al perseguimento dell’interesse nazionale come
bussola dell’azione politica e di governo.
Il che è un
problema classico della teoria, segnatamente di quella moderna dello Stato, ove
non ci si rifaccia a forme di legittimazione teocratiche, carismatiche o
tradizionalistiche del potere pubblico: trovare un fondamento razionale ed immanente per l’associazione politica,
le potestà di governo e la sovranità. Tale ricerca è conseguenza diretta della
laicizzazione del pensiero politico; un attento osservatore come de Bonald,
l’attribuiva a una concezione atea del mondo e della società, perché privato
questo e quella di una presenza o di una istituzione divina, non rimane che
fondarne l’assetto sugli interessi umani.
2. Il pensiero
della dottrina moderna dello Stato è così chiaramente orientato fin dall’inizio
e almeno nei suoi esponenti più seguiti a dare (e darsi) una dimostrazione della
necessità del dominio politico in base a presupposti realistici. In tale
contesto emergono le spiegazioni in termini utilitaristici dell’assetto dei
poteri pubblici e della modellazione degli stessi in vista del raggiungimento dei
fini della comunità politica, denominati di volta in volta “bene comune”
“pubblico bene”, “interesse generale”, “interesse pubblico”, al fine di
sottolinearne, talvolta polemicamente, la strumentalità rispetto alle utilità degli associati; e di pari
passo, della considerazione correlativa degli interessi (particolari) degli
esercenti (e non) le potestà pubbliche, di cui si mostra la conflittualità,
effettiva o potenziale, col primo.
Spinoza
distingueva, con una intuizione destinata a notevole fortuna (e comune ad altri
pensatori), la (classica) differenza dei tre tipi di potere a seconda
dell’interesse tutelato. Il padre ha un potere sui figli per fare il loro
interesse; il padrone perché i servi procurino l’utilità propria; l’autorità
pubblica per provvedere l’interesse dei sudditi, non uti singoli ma uti cives..
J. Locke teorizzava
lo Stato limitato dall’intangibilità di alcuni diritti fondamentali; è stato
considerato con minore attenzione che il filosofo inglese, funzionalizzando
l’esercizio delle potestà pubbliche all’interesse generale, individuava un limite interno, anche nell’area delle
stesse prerogative sovrane, che è base non secondaria della strutturazione
dello Stato costituzionale moderno; e con pari chiarezza Locke avvertiva la
situazione di potenziale ed effettivo contrasto tra pubblico bene e fini
privati dei governanti.
Scriveva
Rousseau che la volonté générale è
corretta solo quando si applica su oggetti d’interesse comune; laddove vengono in considerazione oggetti ed
interessi particolari, di cui spesso sono portatrici le fazioni, la volontà
generale viene meno, e il parere predominante, anche se di una fazione
maggioritaria, è tuttavia opinione e
volontà particolare.
Anche gli autori
di “The Federalist” si pongono lo stesso problema. Nel saggio n.10 Madison si
interrogava su come far prevalere, in una repubblica ben ordinata, l’interesse
generale su quelli particolari.
Alla fine del
XVIII secolo si consolida l’idea di ridurre al diritto (e col diritto)
l’obbligazione politica. Le potestà pubbliche, anche quelle ritenute peculiari
del sovrano, sono concepite come non solo limitate dal diritto, ma anche
organizzate per mezzo di norme giuridiche di guisa da assicurare il
conseguimento degli scopi della società (politica e) civile.
Così nel
“costituzionalizzare” il perseguimento dell’interesse generale: nella dichiarazione
dei diritti dell’89 si afferma che “il fine di ogni associazione politica è la
conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo” ed all’art.
12 “la garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino rende necessaria una forza pubblica; questa è dunque istituita
per il vantaggio di tutti, e non per
l’utilità di coloro ai quali è affidata”. Con ciò era anche evidenziato e
vietato l’uso ai fini d’interessi privati della funzione pubblica.
Assai scettico
sull’attitudine di governanti e funzionari a perseguire l’interesse generale
era anche Romagnosi il quale sosteneva che «di costituzione c’è bisogno laddove
non si pensi che gli amministratori siano “naturalmente illuminati” e fedeli
all’ordine”. E, dato che è principio di ragione che “l’interesse
dell’amministrato deve essere assolutamente procurato dall’amministratore”, ma
“egli è pure principio di fatto, che l’amministratore libero da ogni freno si
presume prevalersi sempre del suo potere per far servire la cosa dei suoi
amministrati all’interesse proprio”, lo scopo della garanzia costituzionale è
“impedire che la volontà dell’uomo corrompa la volontà del monarca”»[1].
Anche negli elitisti italiani il problema del conflitto tra interessi privati
dei governanti è oggetto di analisi basate sulla considerazione dell’antinomia
degli interessi delle èlite politiche
rispetto a quelli del corpo sociale[2].
La convinzione,
maturata particolarmente nel XVIII
secolo, che ogni potere di governo dovesse essere esercitato allo scopo di
attingere il bene comune ne comportava la generale funzionalizzazione. Ove invece si fosse concepito, secondo il
modello tradizionale e pre-borghese, i poteri pubblici (prevalentemente) come
diritti attribuiti in forza di investitura divina, consuetudine od atto insindacabile
a determinate persone, ceti o comunità territoriali e tramandati secondo il
principio ereditario od acquisiti per appartenenza a ceti e comunità (e
talvolta negoziabili), in misura inferiore si sarebbe potuta sviluppare l’idea
delle potestà “nazionalizzate”[3].
Carl Schmitt
ritiene principi fondamentali dello Stato di diritto quello di divisione (cioè
la tutela, anche del potere pubblico, dei diritti fondamentali ) e quello di
distinzione dei poteri (concetto diversamente connotato, e denominato). Ma c’è
almeno un terzo principio essenziale: quello, sopra cennato, della
funzionalizzazione dei poteri “nazionalizzati” all’interesse “pubblico”. Di per
sé è tipico di una forma di potere razionale-legale, in cui si pretende (tra
l’altro) la giustificazione dell’esercizio della potestà nella sua conformità
ad una norma, e (quindi) ad un valore ovvero ad uno scopo (ovviamente la
descrizione weberiana del tipo legale-razionale di potere è enormemente più
complessa, e vi rinviamo completamente); e, onde acquisire evidenza
utilitaristica e, sotto un certo profilo, legittimità, deve corrispondere agli
interessi di tutti i consociati. All’importanza di tale principio si potrebbe
replicare che anche ad altre forme di organizzazione politica non manca
l’elemento teleologico di funzionalizzazione dei poteri pubblici all’interesse
di tutti. Invero in altri ordinamenti politici mancano o sono incompleti o
episodici, norme ed istituti presupponenti una tensione dialettica tra
interessi generali e non, tra classe di governo e governati, che sono tipici
dell’attuazione completa del medesimo, com’è (o come dovrebbe essere) nello Stato
borghese. Concludendo tale sintetico excursus
di dottrine politica e giuridica, il dovere di perseguire l’interesse generale
è carattere di ogni istituzione politica; ma nello Stato borghese si connota
per una estesa e articolata realizzazione in istituti, organi e norme.
3. L’immanenza
di tale principio ad ogni forma d’istituzione politica è stata sempre espressa
in termini indefiniti. La stessa formula romana che salus rei publicae suprema lex sicuramente ci dice che la salvezza
dello Stato prevale sull’osservanza del diritto, ma non indica in nessun modo
cosa debba fare chi governa: tutt’al più nelle applicazioni, ossia nei testi costituzionali, designa chi possa
deciderlo. Santi Romano, nel solco di una tradizione plurisecolare riteneva la
necessità fonte di diritto superiore alla legge: che è un altro modo di
esprimere lo stesso concetto in termini moderni e più “tecnici”.
Tale genericità
ha contribuito a far sì che qualunque politico (e altro) vesta gli interessi
privati propri e del di esso seguito dei solenni panni dell’interesse generale.
Così qualche settimana fa un settimanale di centrosinistra ha ritenuto
d’interesse nazionale, gradatamente: a) l’emancipazione delle donne; b)
l’allargamento dei diritti; c) l’equità (espressione che senza l’ausilio della
dottrina giuridica, è non meno vaga di quella d’interesse nazionale): d) una
nuova giustizia sociale ed economica (v. equità); e) un’idea ecosostenibile
d’innovazione; f) il rispetto dei trattati internazionali finalizzati alla
tutela dei diritti umani. Inoltre l’interesse nazionale (alias generale) deve tener conto di quello del pianeta. A margine
si legge che la famiglia tradizionale, difesa dalla Meloni è “cominciata con la
discriminazione della maggior parte
(??) delle “famiglie” fatte da diverse forme di unione”. A parte vaghezza ed
affermazioni apodittiche è difficile da credere (e a prescindere dal dettato
costituzionale) che la maggior parte
delle famiglie non sia costituito dalle unioni tra uomo e donna, ma da
quelle tra uomo e uomo, donna e donna (e altro).
Ciò malgrado è
interessante approfondire comunque se il concetto suddetto, così importante, e
richiamato in diversi termini da più norme della nostra Costituzione, possa
essere – almeno in una certa misura – determinato
di guisa da escludere che almeno certi obiettivi possano essere d’interesse
generale, e di converso, che altri sicuramente lo sono.
4. In primo
luogo nazionale o generale che sia, l’interesse deve riguardare aspirazioni,
situazioni, oggetti che siano comuni agli appartenenti alle comunità; se
riguardano piccoli gruppi o minoranze non lo sono.
Possono
diventarlo però se tutelare determinati interessi delle minoranze serva a
mantenere l’unità politica e la concordia sociale. Cioè sono d’interesse
nazionale indiretto. Altri lo sono in
modo diretto: così quello (disciplinato
dalla Costituzione vigente) di conservazione della sintesi politica, e di conseguenza
del dovere di difesa della patria (art. 52).
In secondo luogo
l’interesse generale appare delimitato dalla qualità di cives dei soggetti del medesimo. Generale così indica i cittadini,
per il bene dei quali devono essere esercitate le potestà pubbliche e che sono
(ma non solo loro) soggetti alle leggi: ha carattere essenzialmente politico,
ed è difficilmente pensabile disgiunto dal concetto moderno di democrazia. É da
collegare all’interesse della comunità, prima che a quelli singoli individui;
la norma appena citata, del dovere di difendere (e morire) per la patria ne è
la conferma.
In terzo luogo –
ma in effetti è il primo – occorre ricordare all’uopo la regola di Croce “prima
vivere e poi filosofare, prima essere e poi essere morale”. E in altri passi il
filoso lo specifica “Quando si parla di senso politico, si pensa subito al
senso della convenienza, dell’opportunità, della realtà, di ciò che è adatto allo scopo, e simili”[4];
perché “L’azione politica non solo è azione
utile, ma questi due concetti sono coestensivi”.
A confortare
quanto scritto da molti, tra cui ho citato solo Croce, è il dato storico e
giuridico che l’istituzione di protezione della comunità, cioè lo Stato,
perdura malgrado cambi la “tavola dei valori” (come scrivono per lo più i
giuristi contemporanei); lo Stato nazionale italiano ne ha cambiate almeno tre,
tuttavia esso e la comunità nazionale hanno continuato in suo esse perseverari. Confondere e ancor più far prevalere il
normativo – di qualunque genere – sull’esistente è un errore, che, a seguire la
logica di Croce, può portare a cessare di esistere; e se non si esiste, come
comunità, non ci sono valori da perseguire.
In quarto luogo,
la dottrina delle ragion di Stato, come scrive Meinecke (in ossequio alla salvaguardia
dell’esistenza) si sviluppa anche come dottrina degli interessi degli Stati,
intendendo con ciò quegli interessi costanti
che sono di ogni comunità politica concreta.
Così per la Francia evitare con ogni mezzo che alla destra del Reno vi sia uno
Stato più forte – o forte quanto la Francia. Almeno da Richelieu e Mazzarino fino
(sostengono in tanti) a Mitterand, tutti i governanti francesi l’hanno
perseguito. O la tendenza della Russia (e prima della Moscovia) a espandersi
verso i mari caldi (in particolare il mar Nero), che spiega – almeno in parte –
il comportamento odierno di Putin.
Il quale non ha
fatto altro che continuare quanto fatto da Ivan il Terribile, Pietro il Grande,
Caterina la Grande e tanti altri governanti russi.
5. Ma non è dato
comprendere quanto contribuisca all’esistenza politica, al vivere e al buon
vivere della comunità, e così all’interesse nazionale o generale, il
trattamento uguale delle famiglie normali
e no, dell’equità (quale?) e così via. Con ciò si difende non l’esistenza
politica, né la potenza – in senso weberiano - dell’istituzione, cioè la
possibilità di far valere con successo la propria volontà, ma una determinata
visione del vivere sociale ed economico. Ovviamente subordinata all’esistenza
perché solo chi esiste ha la capacità di realizzare una propria visione della
convivenza sociale. Perciò è legittimo cercare di far valere la propria
visione, ma è fuori dalla realtà ritenerla necessaria all’esistenza comunitaria
quale interesse nazionale.
[1] Nel saggio “On Liberty” anche John Stuart Mill faceva derivare proprio dalla
distinzione d’interessi tra governanti e governati e dalla volontà di
superarla, le richieste di democrazia politica e di governo rappresentativo e
responsabile di fronte agli elettori. Stuart Mill giudicava che questa era, a
giudizio di chi la sosteneva, una risorsa contro i Governi i cui interessi
ritenevansi di consueto opposti a quelli del popolo.
[2] Mosca scrive della “naturale
tendenza che hanno coloro che stanno a capo della gerarchia sociale ad abusare
dei loro poteri” e ne ravvede i temperamenti in forme d’autorità non fondate
sul carisma e la religione, e nella divisione dei poteri. Ma la propensione di
Mosca, come anche di Pareto, a considerare gli aspetti sociologici e
politico-logici più di quelli giuridici, ne rendono meno pertinenti ai nostri
fini le pur interessanti analisi e prospettazioni
[3] V. M. Hauriou, Précis de droit
constitutionnel, Paris 1929, pp. 174 ss.
[4] E prosegue “E si considerano
forniti di senso politico coloro che a quel modo operano o a quel modo
giudicano l’altrui operare, e, per contrario, privi di senso politico quegli
altri, che diversamente si comportano, ancorché abbondino di morali intenzioni
e si accendano a nobilissimi ideali”.