Come scrive
Antonio Caracciolo nella presentazione: “A differenza che per il passato, nel
1945, la guerra – la stessa che ebbe inizio nel 1914 – non si è conclusa con
Trattati di pace che restituivano ogni paese a se stesso, magari con
diminuzioni territoriali, passate ad altre città statuali. Si è voluto
procedere alla devastazione spirituale delle nuove generazioni che non avevano
vissuto la moderna guerra dei Trent’anni”. Il tema del saggio (postumo) è
proprio questo; la sconfitta nella seconda guerra mondiale ha comportato un
“lavaggio del cervello e del carattere permanente”, tendente a cancellare o a
modificare radicalmente la cultura del vinto.
Infantilizzazione,
colpevolizzazione, relativismo ne sono gli aspetti più evidenti. Anche se
spesso neppure aventi il carattere di novità. Vediamo la colpevolizzazione dei
tedeschi (con le guerre mondiali e l’olocausto): il tutto non pare tanto voluto
ed eseguito (per di più a oltre settant’anni dal compimento dei fatti) per il
crimine in se, quanto per colpevolizzare
una nazione e la sua cultura. Ma che la colpevolizzazione (di massa) o almeno
lo sfruttamento del senso di colpa sia uno strumento di potere l’aveva già
scoperto Thomas Hobbes nel “Behemoth” quando scrive che i pastori protestanti
predicavano in particolare contro la concupiscenza perché essendo una pulsione
naturale tutti ne erano “colpevoli” in quanto peccatori “E, così, divennero
confessori di quelli che avevano la coscienza turbata per questo motivo, e che obbedivano loro come a direttori
spirituali, in tutti i casi di coscienza”. Per cui il senso di colpa si
convertiva in disposizione all’obbedienza a chi aveva il potere.
Altro argomento
è il relativismo coniugato al progresso “La relatività di tutte le culture,
compresa la propria, viene accettata; al tempo stesso esse vengono però
allineate accuratamente su una linea progressiva. La propria cultura diventa
allora incompatibile in quanto è la più progressiva di tutte. Il modo del
progresso diviene così un assoluto che può di nuovo togliere le penne al
relativismo”. Ed è proprio quel che succede: se la Storia finisce è l’ultima
cultura quella che, contraddittoriamente, diviene assoluta. E questa cultura è
quella dei vincitori. Ma quando il progresso scompare, entrando in una fase di
decadenza, il relativismo diventa un virus distruttivo di cultura, posizione ed
identità.
Anche qui la
memoria va al passato a Maurice Hauriou il quale faceva del “pensiero critico”
(qualcosa di assai simile al relativismo almeno sul piano socio-politico) uno
dei caratteri della decadenza. Solo che se di una storia “lineare” ordinata
lungo l’asse del progresso si passa ad una storia “ciclica”; c’è comunque da
sperare che il nuovo ciclo in gestazione riavvii un’epoca di miglioramento
culturale, sociale, economico.
Una lunga ed
accurata post-fazione di Francesco Coppellotti completa il volume e sintetizza
così il saggio di Sieferle “Possiamo dire che finis Germania è la descrizione lucida della cappa ideologica che
determina la vita religiosa, politica e culturale della Bundesrepublik che
Sieferle ha disegnato e contro la quale, novella Antigone, si è infranto” e ciò
perché “Sieferle ha mantenuto viva la fiamma della sua giovinezza ed ha sconfessato
alla radice la Bundesrepublik, ma non perché, come hanno cantato tutti i
filistei in tutto il mondo, voleva la scomparsa della Germania, ma perché ha
voluto tenere aperta quella ferita chiamata Germania”.
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