Qualche sera fa
in televisione era invitato un parlamentare PD il quale strenuamente difendeva
il d.d.l. sullo jus scholae ripetendo
che i giovani cui sarebbe stato applicato (ove approvato) erano “italiani” ed
avevano “diritto” alla cittadinanza.
È facile
obiettare che un tale modo di ragionare ha il (doppio) difetto di dare per
scontata e pacifica l’italianità (cioè il “presupposto di fatto” per la
concessione della cittadinanza) ossia la cosa da provare, a realizzare la quale
può concorrere (anche) la frequentazione scolastica; dall’altra che il tutto sarebbe
un “diritto”. Ma se è un diritto (positivo) è inutile battersi per
riconoscerlo; se invece è – com’è – una pretesa, occorre valutare se tale
pretesa – promossa a diritto – sia
legittima ed opportuna. Che è poi l’oggetto del dibattito nell’opinione
pubblica e in Parlamento. Di fronte a tali argomentazioni strabiche e filiformi, la risposta acconcia è quella di Salvini:
con tanti problemi che abbiamo dalla guerra al COVID, dalle macro-bollette alla
crisi energetica e all’inflazione, è proprio così pressante e decisivo il
riconoscimento di cittadinanza?
Ma invece di dare la consueta risposta
dietrologica: che è importante per il PD il quale spera di trovare nei riconosciuti italiani un serbatoio
elettorale sostitutivo di quello in gran parte perso (nonché una bandiera da
sventolare), vediamo come sia stato considerato il problema da oltre due
millenni fa.
Scrive
Aristotele nella Politica esaminando le cause dei rivolgimenti politici e
quindi (anche) dei cambiamenti costituzionali “Anche la differenza di razze è
elemento di ribellione finché non si raggiunga concordia di spiriti, perché,
come non si forma uno stato da una massa qualunque di uomini, così nemmeno in
un qualunque momento del tempo. Per ciò (coloro che) hanno accolto uomini
d’altra razza sia come compagni di colonizzazione sia come concittadini dopo la
colonizzazione, la maggior parte sono caduti in preda alle fazioni” (1303b) e
prosegue, per dimostrarlo, con un lungo elenco di “inclusioni” finite in guerre
civili.
Anche i romani
che della concessione della cittadinanza (a singoli o a collettività) fecero un
efficace sistema d’integrazione, questa era normalmente
uno dei benefici per i veterani non cittadini che avevano militato per 25 anni
nell’esercito. Né i tempi erano granché solleciti: a parte l’editto di
Caracalla (dopo oltre due secoli dalla costituzione dell’impero), la
cittadinanza latina (e non romana) fu concessa a tutta la Spagna all’epoca dei
Flavi (anche qua, oltre due secoli dalla conquista) e mentre la Spagna dava alla
letteratura latina alcuni dei più suoi grandi scrittori. Ma a differenza dei
politici italiani i romani non misuravano benefici del genere con i tempi delle
campagne elettorali. Anche la storia successiva prova che, per fare una nazione
da più etnie, occorrono secoli.
Renan sosteneva
che una “nazione è un’anima, un principio spirituale”, e soprattutto due cose la
costituiscono: il comune possesso di ricordi nel passato e il consenso nel presente “Un passato
eroico, grandi uomini e gloria (mi riferisco a quella vera), ecco il capitale
sociale su cui poggia un’idea nazionale. Avere glorie comuni nel passato e una
volontà comune nel presente: aver compiuto grandi cose insieme e volerne fare
altre ancora; ecco le condizioni essenziali per essere un popolo”. Ma qua di comune passato non se ne parla
affatto, perché non c’è; l’altro è assai dubbio che esista (nel presente).
Quel che succede
nella banlieu francesi o nei quartieri
islamici belgi non lascia granché da sperare. Ma soprattutto appare un misto di
furberia burocratica e utopia interessata
credere che per fare un italiano basti farlo nascere nel Bel Paese ed assolvere
l’obbligo scolastico. Era un compito che – per gli italiani, quindi assai
facilitati rispetto agli immigrati - già toglieva il sonno ai governanti del Risorgimento
consapevoli della necessità di fare gli italiani; e invece i nostri dem hanno trovato
una soluzione così semplice e a portata di mano: un esame e passa la paura. Per
una questione che, da Aristotele in poi, ha preoccupato statisti e pensatori,
abituati a ragionare sulla realtà e sui precedenti storici (e giuridici). Se
D’Azeglio lo avesse saputo…
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