Le ultime
vicende del Movimento 5 stelle, ridotto, da quel che risulta, a meno di un
quarto dei suffragi conseguiti nel 2018 e afflitto da una continua emorragia di
parlamentari (ormai rimasti a circa la metà degli eletti alle ultime politiche)
in tutte le forme (dimissioni, scissioni, allontanamenti, ecc.), induce a fare
qualche considerazione, che non ha l’ambizione di essere esauriente, ma
piuttosto di evidenziarne (qualche) concausa.
Questo partendo da alcune regolarità e costanti della politica. A cominciare da
Machiavelli, il quale, nel Principe, scrive delle difficoltà dei principi
“nuovi”, che più per fortuna che per virtù hanno ottenuto il potere “non sanno
e non possano tenere quel grado: non sanno, perché, se non è uomo di grande
ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo
sempre vissuto in privata fortuna, sappi comandare; non possano, perché non hanno forze che gli possino essere
amiche e fedeli”. E che i governanti 5 Stelle fossero degli inesperti era
vanto degli stessi ed occasione d’ironia dei loro (tanti) avversari. Parimenti è
vero che nella loro ascesa al potere vi sia stata più fortuna che virtù, perché
insistere sulla crisi che attanagliava e attanaglia l’Italia, governata da una
classe dirigente decadente, è facile: si attacca chi è poco difendibile.
La lunga serie
di “no” esibiti dal movimento prima del 2018 era corroborato dalla contraria
opinione e pratica delle élite, le quali né autorevoli né legittime proprio per
tali loro qualità asseveravano a
contrario i “no”, spesso contraddittori o ingiustificati, dei grillini. Ma
tale vantaggio è venuto meno – più che altro si è ridotto – una volta andati al
governo: la necessità di scelte ha costretto a ridimensionare radicalmente il dissenso,
e quindi il consenso che ne conseguiva.
Ma in particolare
occorre valutare il giudizio di Machiavelli sulla “forze amiche e fedeli” che
(non) sostengono il principe nuovo (e “fortunato”). Il genio di Machiavelli
individua così i limiti dei politici – e governanti – improvvisati, spinti su
dalle circostanze, più che da una reale capacità e applicazione, nell’ “inesperienza”
e nella mancanza di “seguito” da intendersi nel senso weberiano del rapporto
tra capo e “fedeli” (“forze amiche e fedeli”)”.
E tra le forze
amiche e fedeli occorre distinguere due categorie: gli aiutanti, cioè i
collaboratori del vertice politico, e gli elettori. All’uopo può servire quanto
sosteneva, per gli Stati, ma applicabile (in larga parte) a tutti i gruppi
politici, un acuto giurista come Rudolf Smend. Questi sosteneva “l’integrazione
è un processo di vita fondamentale per ogni formazione sociale nel senso più
lato. Questa, in prima analisi, consiste nella produzione o formazione di unità o totalità a partire dagli elementi
singoli, cosicché l’unità ottenuta è qualcosa di più della somma delle parti
unificate”, ogni gruppo politico realizza necessariamente attraverso
l’unione delle volontà dei componenti, l’integrazione; la quale, secondo Smend,
può distinguersi in materiale, funzionale
o personale; e in genere è, in proporzione diversa tra loro, tutte e tre le
cose insieme. Se si riscontra la rilevanza e l’esistenza delle suddette forme
d’integrazione nel M5S, se ne avverte la carenza.
L’integrazione personale è quella suscitata dalla forte
considerazione della personalità del capo. Ma a concedere che il capo fosse uno
(è dubbio) è chiaro che il M5S ne ha cambiati diversi, da Casaleggio a Di Maio,
da Crimi (??) a Conte. Fermo sullo sfondo Grillo.
Al contrario di
Forza Italia, fondata sul forte (un tempo) richiamo aggregante di Berlusconi e
della sua storia di successo, nessuno dei “capi” 5S ha costituito un forte
elemento di integrazione personale.
Né è migliore
l’impressione che si può ricavare dall’integrazione funzionale, la quale consiste nelle attività e procedure di
partecipazione alla decisione – e alla direzione – politica: elezioni,
referendum, congressi, manifestazioni, assemblee “Nella vita di ogni struttura
le procedure di decisione e discussione sono – come scriveva Smend –
prevalentemente indirizzate alla formazione della volontà comune: così il
gruppo realizza la propria unità come unità di volontà, indirizzata a scopi
comuni… la partecipazione, anche meramente consultiva, al processo decisionale
permette sia di sondare gli umori della base sia, soprattutto, di coinvolgerla
nella decisione e nell’azione”. Nei partiti “tradizionali” con prevalente
organizzazione territoriale (per lo più a carattere democratico) sono
l’elezione dei dirigenti e la discussione nei vari organi a rivestire il ruolo
maggiore.
Nel movimento si
è parlato spesso di piattaforma digitale, d’iscritti, , ma a parte la non
chiarezza del tutto, è sicuro che:
a) le procedure
suddette sono da millenni di competenza
di assemblee: dall’Agorà ateniese ai Soviet della rivoluzione d’ottobre, a
decidere era un insieme di
partecipanti riunito collettivamente, e non un singolo davanti ad un computer.
b) Per quanto ci
riguarda c’è l’interrogativo: può produrre – e quanta – integrazione nel gruppo
un iscritto che a casa sua decida se Caio deve fare il Ministro e Sempronio
l’assessore? Probabilmente se il giudizio è rispettato qualche effetto
integrativo lo può avere, ma assai modesto rispetto alla decisione in praesentia. In secondo luogo diverse
sentenze hanno giudicato non democratiche o poco democratiche norme e pratiche
interne del M5S. Non è il caso di insistervi, ma occorre prenderne atto.
Infine
l’integrazione materiale, intesa come
fede comune in determinate idee e valori, in una visione condivisa del mondo.
Ma il cartello di “no” del M5S serviva bene ad identificare il nemico ma assai
male a fidelizzare l’amico. Oltretutto una volta al governo è stato costretto a
compiere scelte destinate a scontentare parte dei “no”. Ancor più se a partire
dal governo Conte bis, il M5S si alleava col PD, maggiore espressione dell’establishment destinatario dei “no”.
Se è vero quanto
scriveva Smend, che l’unità politica è un processo, un divenire dinamico (Schmitt)
realizzata in un’unione di volontà, non c’è da stupirsi che l’unione di volontà
non vi sia né tra vertice e base né all’interno del vertice. Con la conseguenza
di scissioni, dimissioni, ecc. Dei vecchi partiti ideologici della Prima
Repubblica si è detto tutto il male possibile (e anche di più) ma fenomeni di
decomposizione erano eccezionali e limitati per lo più a reali differenze
ideali e politiche, come quelle tra seconda e terza internazionale.
Ma se il
“collante” delle idee è tenue o inesistente, l’unione di volontà non si
realizza o se si realizza lo è in modo debole e transitorio. Non era solo la
disciplina a generare il partito “classico”, fino all’ “Ordine dei Portaspada”
di Stalin, ma ancor di più la comunanza di ideali (ed obiettivi).
Attorno a quel
che resta del M5S si aggirano i (soliti) megafoni delle élite. Con la logica
che li contraddistingue qualcuno proclama la crisi del populismo basandosi
sull’equazione Populista=M5S ergo
crisi dei M5S=crisi dei populisti. Dimenticando che, a parte quel che succede
all’estero, dal 2018 (al più tardi) l’elettorato anti establishment italiano è largamente e costantemente superiore
al 50% dei suffragi espressi e che la crisi del M5S non ha giovato ai partiti
di regime (PD in primis) ma ha solo
trasferito gran parte dell’elettorato anti-élite ad altri due partiti anti-establishment come la Lega e FdI.
Onde il calo del
M5S non è dovuto al tramonto del populismo, ma, in larga parte, al dissolversi
dell’ “unione di volontà” tra vertice e base elettorale e l’evaporazione a tous azimouts dell’(irrisolta e tenue)
identità del movimento.