Vilfredo Pareto Trasformazione
della democrazia,
Editore Il Foglio, pp. 116, € 12,00
È opportuna questa
nuova edizione del libretto di Pareto, la prima del quale è del 1921, in cui il
grande sociologo riuniva quattro testi pubblicati l’anno precedente sulla
“Rivista di Milano”; e quindi nel 1920, anno decisivo per la crisi del regime
liberale, l’occupazione delle fabbriche e il decollo del movimento fascista.
Alla prima edizione
ne seguivano ben otto e tutte, come scrive Carlo Gambescia nel saggio introdotto,
in anni politicamente caldi il cui
comune denominatore è “quello di un clima segnato dalla diffidenza verso la
democrazia liberale e di sfiducia verso le esangui élite italiane, politiche ed
economiche, sempre però pronte al compromesso, anche, con il diavolo, pur di
tenersi a galla”.
Nella situazione
degli anni ’20, scrive Gambescia, Pareto “scorge, a verifica delle teorie del Trattato, uscito nel 1916, lo sviluppo
di un fenomeno che definisce, fin dal titolo, «trasformazione della
democrazia», e ne individua e riassume, «spiccatissimi», «almeno tre caratteri
principali, cioè: 1) L’affievolirsi della sovranità centrale e l’invigorirsi di
fattori anarchici; 2) il veloce progredire nel ciclo della plutocrazia
demagogica; 3) la trasformazione dei sentimenti della borghesia e della classe
che ancora governa».
Non è un caso che
almeno un paio di tali caratteri erano stati avvertiti da due giuristi
contemporanei di Pareto: Santi Romano, in specie nel saggio “Lo Stato moderno e
la sua crisi” (del 1909) e Maurice Hauriou in diverse opere e saggi (ora
raccolte negli “Écrits sociologiques” silloge di più saggi del doyen negli anni a cavallo tra i due
secoli).
Il giurista
siciliano sottolineava l’emergere di poteri “nuovi” tendenzialmente più che
“centripeti”, contestatori dell’ordinamento dello Stato rappresentativo (cioè
borghese); il francese il ciclo dei regimi politici e il carattere disgregatore
del denaro (la plutocrazia) e del pensiero critico (oggi diremmo del
relativismo). Prova (tra le altre) di come, oltre un secolo fa vi fosse
consapevolezza della decadenza delle istituzioni realizzate dopo la rivoluzione
del 1789 e di come stesse nascendo qualcosa di nuovo (ossia, per chi condivide,
con Pareto e i due giuristi, il carattere “ciclico” della storia, qualcosa di
antico in forma rinnovata).
Gambescia si
chiede quale sia il “succo sociologico” di un’opera come “Trasformazione della
democrazia”. E lo trova “In quella che Giovanni Busino ha ridefinito «teoria
della spoliazione». Come modalità, tra le tante altre cose, riteniamo, per
approcciarsi all’analisi dei processi politici.
Secondo Busino, le
sue «pagine più originali sono quelle sulle
relazioni della democrazia colle forze di mercato». Sotto questo aspetto –
oltre agli ovvi richiami al Trattato
– l’ultimo libro di Pareto, Trasformazione
della democrazia, con il suo concetto di plutocrazia demagogica, rinvia,
dal punto di vista delle scelte politiche, all’idea dello spreco di risorse: un
arraffa, arraffa, se ci si perdona la caduta di stile, condiviso dalla plutocrazia
con gli attori sociali, quelli che ovviamente si prestino ai suoi giochi”.
Lo scopo della
spoliazione “è di conservare il potere, di restare al centro, in posizione
sovra-ordinata, del processo politico … Sottraendo risorse ai nemici per conferirle
agli amici. Ma anche con ogni altro mezzo: dalla corruzione alla collusione”.
E, scrive
Gambescia citando Belligni: “scrive Belligni, portando alle estreme conseguenze
le intuizioni teoriche paretiane e cogliendo il senso profondo del ciclo
plutocratico, che «col ridursi dell’ammontare complessivo della torta sociale,
il costo relativo delle taglie destinate alle clientele e alla classe politica
cresce fino a farsi insostenibile, provocando l’insorgere di questioni morali e addirittura spingendo
talvolta i popoli alla rivolta, come avveniva nelle carestie del passato. Se
nei periodi di sviluppo “i politicanti prendono per sé grosse fette di torta,
altre minori ne prelevano i politici secondari”, nei periodi di crisi ciò non
viene più tollerato e sono spesso gli stessi politicanti, dal governo o
dall’opposizione, a insorgere farisaicamente contro gli sprechi e le ruberie,
agitando istanze e programmi moralizzatori». Abbiamo avuto un esempio di
“plutocrazia demagogica” anche con Berlusconi, sostiene Gambescia, ricordando
quanto scrive Barbieri in tre casi emblematici: “1) il salvataggio
dell’Alitalia; 2) L’estensione innovativa dei compiti della Protezione civile
alla gestione dei grandi eventi; 3) Lo scudo fiscale”. Conclude il saggio
introduttivo Gambescia che “Purtroppo la libertà, la vera libertà, sembra per
molti essere ancora un peso. Si preferisce anche a livello politico,
disconoscere il grande valore racchiuso nel ruolo sociale degli uomini
creativi, liberi e indipendenti per privilegiare i piagnistei interessati dei
parassiti, sempre pronti a tendere la mano e sfruttare gli atri”. Ma gli uomini
sono fatti in un certo modo (il “legno storto” di Kant riappare) e “per dirla
con Pareto, va sempre scansato «il pericolo di trascorrere anche oltre i campi del
possibile e di andare vagando per gli sterminati spazi dell’immaginazione».
Anche perché,
purtroppo, sociologicamente parlando, non ci sfugge che sotto il plutocrate
demagogo c’è il parassita e viceversa. Il ciclo della spoliazione sembra essere
nelle cose sociali stesse della democrazia”.
Scrive Pareto
all’inizio del saggio che “Lo studio del complesso sociale è lungo, ed il solo
tentativo di compierlo occupa i due volumi della Sociologia”; e in effetti il libro è l’applicazione delle idee più
diffusamente (e più in generale) esposte nel Trattato di sociologia generale. Dato che ad una recensione non è
possibile dare conto di tanto lavoro, ci limitiamo a un solo aspetto, quello
che ha più interessato sia Gambescia che gli studiosi di Pareto citati nel saggio
introduttivo: quello della spoliazione politica.
Com’è noto, solo
per limitarci al pensiero politico-sociale italiano, il fatto che i governanti
prelevino parte delle risorse sociali è noto – e anche, entro certi limiti –
logico.
Almeno a partire
da Maffeo Pantaleoni per arrivare, in tempi recenti, a Gianfranco Miglio e
Cesare Cosciani, l’appropriazione politica (o spoliazione politica o rendita
politica) è stata ampiamente analizzata da scienziati politici e economisti
italiani, come Fortunato, Puviani, Mosca, Michels, Santangelo Spoto.
Tuttavia è una
concezione/constatazione che, per questo ovvia e applicabile ad ogni regime
politico (e non solo alla democrazia), è nel comportamento
- universale – dei governanti ossia delle “classi elette”. E per ciò poco
frequentata dagli intellettuali di regime (o di Corte).
Se applichiamo, la
distinzione, risalente a Pantaleoni, degli assetti finanziari dei rapporti
governanti/governati, abbiamo tre “assetti”: predatorio, parassitario e
tutoriale. La cui connotazione (preferibile da chi scrive) è che l’ultimo sia
di un rapporto equilibrato e “sinallagmatico” tra élite e governati; il
parassitario di una condizione di sfruttamento, non tale però da far deperire
l’organismo ospite (cioè la
comunità); il terzo, predatorio, che la fa deperire, talvolta portandola alla
fine (cioè al termine del ciclo politico).
Applicando tale
criterio, con la “seconda repubblica” (centrosinistra soprattutto, ma comunque
centrodestra compreso, anche se responsabile minore) siamo passati dall’assetto parassitario della “prima
repubblica”, caratterizzato da crescente prelievo fiscale, ma addolcito da una
crescita economica notevole (le élite, per tale aspetto, migliori dall’Unità d’Italia), a un prelievo fiscale aumentato
ulteriormente, malgrado la stagnazione economica più che ventennale nella “seconda
repubblica” (la peggiore di sempre
dal 1861). Non c’è da meravigliarsi, preoccupati da un tale sfascio storico, che
il 4 marzo il popolo italiano abbia dato alle “elette” il benservito.
Teodoro
Klitsche de la Grange
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