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Sosteneva Thomas Hobbes (commentando Tacito)
che il genio politico di Augusto si arguiva (anche) dall’uso che faceva delle
parole, al fine di facilitare – ma anche di occultare e/o alterare il senso – i
cambiamenti nell’ordinamento di Roma. Viene in mente perché il sottotitolo del
libro è “Le parole chiave per cambiare”. E questa è la finalità del volume (con
saggi di 22 autori): aggirare e ricostruire la cultura politica della sinistra
attraverso un lessico nuovo per “la sinistra che verrà”. Tentativo, scrive
Giulio Marcon nell’introduzione, “più urgente dopo la sconfitta del blocco
comunista con il 1989 e della sua alternativa socialdemocratica e riformista,
travolta dall’avanzata del modello neoliberista che a partire dagli anni Ottanta ha colonizzato l’economia, la società,
l’ambiente, la cultura”. Si è infatti affermato “il cosiddetto finanzcapitalismo, che potrebbe avere
come rappresentante moderno quell’antico mostro mitologico di Gerione di cui
Dante disse nell’Inferno: «Ecco la
fiera con la coda aguzza/ che passa i monti e rompe i muri e l’armi! / Ecco
colei che tutto ‘l mondo appuzza!»…Il capitalismo si è “radicalmente
trasformato” e la sua finanziarizzazzione ripropone “un’egemonia (anche
culturale), e di nuove gerarchie di potere, ricomponendo identità e processi
sociali e spazzando via il «compromesso fordista» del Novecento. Processo che
non è stato capito dalla sinistra per cui questa è in crisi dentro e fuori
dall’Europa. Infatti “La sinistra cosiddetta «riformista» - socialdemocratica e
moderata – è scomparsa in Grecia, ridotta al lumicino in Francia, sconfitta in
Spagna e in Germania, in grandissima difficoltà in Italia”. Secondo Marcon la
sinistra radicale gode di migliore salute “Da Syriza in Grecia a Podemos in
Spagna, dal Labour in Gran Bretagna a Mélenchon in Francia fino al governo di
«alternativa di sinistra» in Portogallo”, onde è in grado di prefigurare una
società più giusta e più uguale.
Ad avviso del prefatore “Le politiche
neoliberiste hanno messo al centro il mercato e il privato; la sinistra deve
ricostruire una cultura dei beni comuni e del «pubblico». Il neoliberismo ha
rilanciato la centralità dell’impresa e dell’individuo nel suo interesse
privato; la sinistra deve rivendicare la centralità della società e della
persona nel suo contesto comunitario”. A ciò serve un “lessico nuovo. Perché le
parole contano. In questi anni l’ideologia neoliberista ha contaminato non solo
percezioni e culture, ma anche le parole e il modo di esprimersi”. E questo
“libro a più voci vuole appunto essere un piccolo contributo alla ricostruzione
di una cultura politica della sinistra”.
L’altro curatore del volume, Giuliano
Battiston scrive nella nota conclusiva che “Le parole sono veicoli del pensiero
e strumenti di azione. Non solo descrivono il mondo, ma contribuiscono a
trasformarlo”; occorre, sostiene, riflettere sulla crisi “La crisi ha avuto
origine nella progressiva evasione dell’economia dal controllo democratico,
nelle politiche istituzionali che hanno favorito l’ascesa della finanza
predatrice, che ha prodotto disuguaglianza e instabilità (James K. Galbraith),
ma segna anche la dissoluzione del capitalismo postbellico, quella particolare
formazione sociale che aveva allineato democrazia e capitalismo intorno a un
patto sociale che gli conferiva legittimità”. Oggi il “capitale avanza, la
democrazia indietreggia”; onde “a uscirne incrinata è la stessa metafora
fondante della società occidentali capitalistica: il contratto sociale” con la
prevalenza di processi di esclusione sociale su quelli di inclusione. Gli
autori di questo libro invitano ad essere consapevoli della trasformazione del
capitalismo per cui “Si tratta di abbandonare una fede e una religione – la
religione del progresso, la fede nello sviluppo – in favore di un’altra
società, una società di abbondanza frugale, che punti al benessere condiviso,
alla giustizia per tutti”.
Se il proposito degli autori è
condivisibile, perché non si possono applicare schemi otto-novecenteschi in un
contesto socio-politico economico dove si presentano obsoleti, è anche vero che
il loro armamentario di riferimento tiene spesso ancora conto di parametri e griglie superati.
In particolare il criterio destra/sinistra.
Questo è già in se equivoco, perché tende ad accumunare due distinzioni epocali
di contrapposizione politica: quella, prevalente nel XIX secolo, dell’opposizione
tra borghesia/potere monarchico, e quella del “secolo breve” tra borghesi e
proletari. Ritiene Marcon che “Norberto Bobbio in Destra e sinistra individua nell’uguaglianza il concetto (il
valore, la politica) su sui si costruisce il discrimine tra destra e sinistra.
È a fondamento della nostra Costituzione (articolo 3) e informa ogni proposta e
progetto che sia di sinistra”. Ne deriva che sia il discrimine destra/sinistra sia il carattere
fondamentale di questo (l’uguaglianza) sono considerati aventi ancora un valore
politico fondamentale, determinante
la dicotomia amicus/hostis. Solo che
non è più così: la distinzione ha perso valore, è in fase di neutralizzazione, anche se alcune
esigenze possono trasmigrare in una nuova scriminante amico/nemico (e in molti
dei saggi raccolti nel volume, lo si avverte anche implicitamente).
Ad esempio la
scriminante del “secolo breve” era fondata sui rapporti di produzione e sulla
contrapposizione tra capitalisti ed operai. Ormai, nell’epoca del finanzcapitalismo l’appropriazione della
ricchezza prodotta dagli uni e dagli altri è percepita e in gran parte lo è
realmente, come effetto dello sfruttamento di elite politiche e burocratiche, di clientele consolidate, della
finanza (interna ed) internazionale, e, da ultimo, della concorrenza (di paesi)
e manodopera a basso costo. Non è più determinata (fondamentalmente) dal
rapporto di produzione, ma dallo sfruttamento fondato su altro. Il nemico è
così diventato, anche (forse soprattutto) per larghi strati popolari, il
burocrate e il finanziario parassita, il garantito per scelta pubblica
(politica), il migrante sfruttato (come concorrente sul mercato del lavoro). Lo
stesso criterio dell’eguaglianza individuato da Bobbio (a parte che anche
all’epoca, aveva dubbio valore fondamentale),
ha carattere relativo, allorquando il
criterio discriminante è più conseguenza di un differenziale di potere (politico
ed economico).
Il potere
globalizzante attenta non tanto all’eguaglianza tra individui e a quella tra
comunità umane, ma al carattere d’indipendenza
di queste, ossia di non dipendere da decisioni di altre sintesi politiche, ma avere la suità
di tomistica memoria (liber est qui sui
causa est).
L’invadenza della
globalizzazione, il suo limitare la sovranità, e così l’indipendenza delle
comunità, è ciò che fa riconoscere il nemico e il campo centrale della nuova
scriminante. Alla quale le altre, e i corrispondenti conflitti d’interesse,
tendono ad essere subordinati. La decisione fondamentale non è più se stare con
i borghesi o i proletari, con i poveri o i ricchi, ma con i propri concittadini
o con gli altri.
Teodoro
Klitsche de la Grange
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