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Troppo facilmente ed in modo quanto mai sospetto si è dimenticato e tentato di rimuovere nello scenario politico del dopoguerra il trauma prodotto da quella «cupidigia di servilismo» che portò l'Italia (governo De Gasperi) nel 1947 alla firma di quel trattato di pace « con il perse l’Istria e vaste zone della costa dalmata. A seguito di questo accordo, si stima che circa 350.000 (ma potrebbero essere stati molti di più) italiani furono costretti a lasciare le loro case, i loro beni, i loro affetti e la memoria della loro famiglia, con un flusso costante fino al 1956, per trovare rifugio in varie zone d’Italia...», dove però «gli esuli sono stati etichettati come fascisti in fuga e come uomini e donne appartenenti a classi sociali abbienti e ritenuti ostili ai partiti socialisti e quindi non meritevoli di attenzione» (p. 5). Ciò che resta 70 anni dopo quei tragici fatti è per un verso una diffusa ignoranza su come e perché ciò è potuto succedere, su cosa mai ha potuto giustificare e far assorbire una vera e propria “pulizia etnica”, ma per altro verso l’inaccettabilità perpetua di una situazione che confligge insanabilmente con la nostra coscienza etica. I canoni della politica e della diplomazia possono ben mutare al variare degli equilibri politici e dei rapporti di forza, ma la coscienza viaggia su binari indipendenti. Resta l'ignoranza e l'incomprensibilità di ciò che gli uomini al governo fecero allora, ma si acuisce la percezione di un'ingiustizia costante nel tempo in un mondo dove la stessa propaganda di allora pretende di farci credere al regno sconfitto del Male è subentrato il regno del Bene, della Libertà, del Diritto, della Giustizia...
Sappiamo che non è così e che in questi 70 anni vi è stata una progressione dell’Antico: gli uomini non sono diventati migliori perché una parte ha prevalso sull’altra. Ai mali vecchi si sono aggiunti i nuovi con un crescendo di pericolosità che dalle fionde e dalle spade ha portato alla bomba atomica ed a sempre più sofisticati strumenti di morte e di distruzione non solo materiali ma anche e soprattutto immateriali sul piano della cultura, della psiche, della trasmutazione dei valori, del linguaggio. Giacché la capacità di distruzione materiale ha superato ogni limite sopportabile ed è perciò spesso proprio questo impraticabile, ecco che la lotta si sposta sul piano spirituale per il controllo della facoltà stessa di poter pensare liberamente e liberamente potersi rappresentare le cose.
Abbiamo sopra riportato: 350 mila persone, ma che è solo una stima e potrebbero invece essere molti di più. Intanto sono almeno la metà dei palestinesi che grosso modo nello stesso anno venivano scacciati dalle loro case e dai loro villaggi, secondo quel che fra tanti narra Ilan Pappé nel suo libro-denuncia La pulizia etnica della Palestina. È curioso come quanti attaccano aspramente lo storico ebreo israeliano I. Pappe usino come argomento proprio la questione istriana: siccome si è potuto trattare in quel modo gli italiani d’Istria e Dalmazia, e ciò è stato accettato non solo dall’Italia, o meglio dai suoi servili governi oltre che dalla cosiddetta comunità internazionale, ecco che diventa lecito il “genocidio” palestinese ed illecita la Nakba, ossia il “ricordo”, la commemorazione da parte degli stessi palestinesi dell’anno in cui è stata loro tolta la patria. Poiché è ideologicamente necessaria la diffamazione della vittima, della parte soccombente, si è detto per i palestinesi che sarebbero “scappati” a seguito di una trasmissione radiofonica che diceva loro di lasciare case e villaggi, ma sappiamo che è una menzogna, mentre gli istriani sarebbero stati “fascisti in fuga”. È da chiedersi, nell’era splendida e gloriosa dei “diritti umani”, se mai si possono perdere i più elementari diritti insiti nella stessa “natura umana” come conseguenza di fattori contingenti: l'essere italiano o sloveno, vinto o vincitore, comunista o fascista, e così via.
Non a caso ho parlato sopra di “genocidio” palestinese, la cui realtà viene negata dalla propaganda avversa solo perché i profughi hanno avuto nonostante tutto una discendenza e si sono perfino moltiplicati sul piano demografico. E meno male! Oggi non potremmo più nemmeno parlarne, come per gli indiani d’America che conosciamo soltanto dalla produzione hollywoodiana, giacché i bianchi hanno persino pensato di costruirsi la loro epopea fondativa su ciò di cui dovrebbe vergognarsi in perpetuo: il genocidio degli indiani, dopo averli privato della loro terra. Noi tutti bambini, innocenti, abbiamo così giocato a fare gli indiani e i cow boys. L’equiparazione fra pulizia e genocidio è però richiamata dallo stesso Ilan Pappe sulla base della normativa Onu che ha stabilito questa equiparazione sulla base di quanto avvenuto, o per come lo si è fatto apparire, nella dissoluzione della ex-Iugoslavia che fu di Tito. Genocidio non significa soltanto uccisione fisica di una pluralità o totalità di persone, ma anche - ad es. - privare, decimare, una comunità della sua classe dirigente. In questo senso un primo “genocidio” vi fu da parte inglese nella repressione della rivolta araba del 1936-39, quando i palestinesi insorsero in massa contro la massiccia immigrazione ebraica che andava a soppiantare la popolazione residente con tecnica studiate e messe a punto lungo i decenni. Nel 1948 i palestinesi si trovarono così - dice Pappe - totalmente sprovvisti di quella classe dirigente di cui avevano bisogno per difendersi ed opporsi al piano D, appunto per il compimento della “pulizia etnica”. Il “famigerato” mufti altro non era che un esule, pure lui, ma bandito dagli inglesi, che all’estero si industriava per cercare aiuto al suo popolo martoriato: quello che successe nel 1948 al popolo palestinese ben dimostra che i pericoli erano reali.
Insomma, la mia prima impressione è che si possono ben equiparare profughi istriani e profughi palestinesi, la cui Nakba è contemporanea, ma non per togliere diritti ai palestinesi perché li hanno fatto perdere agli istriani. Al contrario: per dare agli istriani quegli stessi diritti che almeno sulla carta l'Onu riconosce ancora ai palestinesi, che ancora conservano gelosamente le loro chiavi di casa e gli atti di proprietà. Non un risarcimento risibile, monetario, ma la restituzione di tutti i diritti che sono stati tolti. Per la Palestina non so come andrà a finire la storia, ma per l’Italia se fossi io al governo, e toccasse a me la politica estera, dichiarerei nullo il trattato di pace firmato nel 1947, per violazione dei diritti umani elementari, e riaprirerei la trattativa. Utopistico? Può darsi. Forse certamente. Ma niente impedisce di pensare l’Utopia. L’importante è che ci siano oggi superstiti o discendenti istriani. Io come italiano del sud, addirittura calabrese, mi batterei molto volentieri per gli italiani dell’estremo nord.
Ho voluto far precedere queste mie prime suggestioni tratte dal libro e dalle presentazione che ne è stata fatta ieri a Roma, in Campo dei Fiori, ma il libro è ancora tutto da leggere. Ed altre annotazioni sono da fare. Ma dico subito, in premessa, davanti alle tristi e tragiche vicende che andrò a leggere: un delitto non ne giustifica un altro! Gli errori e le efferatezze di chi nel tempo ha il comando degli eserciti e la guida dei governi non possono non possono travalicare e calpestare i limiti e i principi imposti del senso di umanità e giustizia che è insito nella coscienza etica. E per una ragione molto semplice: gli eserciti passano e la sorte delle armi è alterna, mentre la sofferenza del torto subito ed il ricordo della umanità e giustizia negata si tramanda nei secoli e nei millenni.
(segue)
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