lunedì 28 novembre 2016

Teodoro Klitsche de la Grange: «Sentimento ostile, Zentralgebiet e criterio del politico».

Pagina in lavorazione.

Sono sempre interessanti gli articoli di Teodoro Klitsche de la Grange e spesso sono anche di stringente attualità. Purtroppo, il lavoro di editing  ne fa talora ritardare la pubblicazione. Pertanto, ne diamo subito il testo, eseguendo in tempo reale l’editing e rinviando a questa prefazione ogni osservazione, spunto o riflessione che l’attenta lettura non mancherà certamente di suscitare in noi.

AC
SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET
 E CRITERIO DEL POLITICO
Scrive Clausewitz, nelle prime pagine del Vom Kriege, che la guerra, sotto l’aspetto delle di essa tendenze principali si presenta come un triedro composto:
  1.  «Della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
  2. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
  3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.
Carl v. Clausewitz (1780-1831)
La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno messe in giuoco debbono già esistere nelle nazioni» .

E poco prima sostiene che «Quanto più grandiosi e forti sono i motivi della guerra, quanto maggiormente essi abbracciano gli interessi vitali dei popoli, quanto maggiore è la tensione che precede la guerra, tanto più questa si avvicina alla sua forma astratta, tanto maggiore diviene la collimazione fra lo scopo politico e quello militare» .

Da questi e da altri passi del Vom Kriege emerge che il “sentimento ostile” e la violenza originale dell’odio e dell’inimicizia è del “triedro” l’elemento che più contribuisce all’intensità e alla determinazione dello sforzo bellico.
2.0 Secondo Carl Schmitt “I concetti di amico e nemico devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non come metafore o simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni economiche, morali e di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso individualistico-privato” , perché “Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere”. Il nemico è solo pubblico come già era scritto nel Digesto. La contrapposizione politica è la più intensa ed estrema ; non è limitata all’esterno dell’unità politica, anche se all’interno è relativizzata ossia è lotta e non guerra; se diviene questa mette in forse l’unità politica . La guerra è in se un mezzo politico e non può che essere tale “sarebbe del tutto insensata una guerra condotta per motivi «puramente» religiosi, «puramente» morali, «puramente» giuridici o «puramente» economici” .
Tuttavia “contrasti religiosi, morali e di altro tipo si trasformano in contrasti politici e possono originare il raggruppamento di lotta decisivo in base alla distinzione amico-nemico. Ma se si giunge a ciò, allora il contrasto decisivo non è più quello religioso, morale od economico, bensì quello politico” ; e prosegue “Ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altro tipo si trasforma in un contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici”.
Nello scritto L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni  Schmitt sostiene (e ciò presenta interesse anche per il “contenuto” del politico) che l’Europa ha cambiato dal XVI secolo più volte il proprio centro di riferimento ; il quale è passato dal teologico al metafisico, da questo al morale-umanitario e poi all’economico.
Il centro di riferimento determina di volta in volta il significato dei concetti specifici. Ciò che più rileva “Una volta che un settore diviene il centro di riferimento, i problemi degli altri settori vengono risolti dal suo punto di vista e valgono ormai solo come problemi di secondo rango la cui soluzione appare da sé non appena siano stati risolti i problemi del settore centrale” . Così anche per lo Stato e per i raggruppamenti amico-nemico: “lo Stato acquista la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche, poiché i temi polemici decisivi dei raggruppamenti amico-nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo. Finché al centro si trovò il dato teologico-religioso, la massima cujus regio ejus religio ebbe un significato politico” .
Mutato il centro di riferimento, cambia la concezione dello Stato e il contenuto o la discriminante del politico, che assume altro significato e criterio e può determinare un diverso raggruppamento amico-nemico e così: “Quello che fino allora era il centro di riferimento viene dunque neutralizzato nel senso che cessa di essere il centro e si spera di trovare, sul terreno del nuovo centro di riferimento, quel minimo di accordo e di premesse comuni che permettano sicurezza, evidenza, comprensione e pace. In tal modo si afferma la tendenza verso la neutralizzazione e la minimalizzazione” .
Tuttavia neppure l’approdo “neutrale” cui gli europei sono arrivati nel XX secolo e cioè la tecnica può realizzare l’aspirazione all’eliminazione della conflittualità; sia perché “la tecnica è sempre soltanto strumento ed arma e proprio per il fatto che serve a tutti non è neutrale. Dall’immanenza del dato tecnico non deriva nessuna decisione umana e spirituale unica, men che meno quella nel senso della neutralità”  sia perché “La speranza che dal ceto degli inventori tecnici possa svilupparsi uno strato politico dominante non è finora giunta a compimento” .
3. La correlazione – anche se non sempre necessaria e inderogabile - tra centro di riferimento e scriminante amico/nemico persuade solo in parte.
Ciò in primo luogo perché occorre coordinarla con ciò che Schmitt ha tanto spesso ripetuto, ossia che a determinare il nemico è la situazione concreta.
Per la quale non vi è solo la coppia degli opposti riferentesi al centro di riferimento, ma vi sono altre contrapposizioni, talvolta più importanti e così decisive (o almeno percepite come tali) che determinano situazioni di lotta e ostilità.
Ad esempio nel secolo breve e in particolare dopo la conclusione della seconda guerra mondiale l’opposizione tra democrazie liberali (con annessi) e stati comunisti ripartiva quasi tutto il mondo sviluppato in due campi l’un contro l’altro armati, organizzati in sistemi d’alleanza (e relative organizzazioni) contrapposte e pronte alla reciproca distruzione; malgrado ciò non impediva né stati d’intensa ostilità fino alla guerra all’interno sia dei “due” campi, sia tra “clienti” degli stessi, per lo più non indotte dalla discriminante amico/nemico principale.
Infatti vi sono state guerre nello stesso “campo”: Cina/Vietnam; Vietnam/Cambogia; Cina/Russia; (gli “incidenti” sull’Ussuri) per quello comunista; Gran Bretagna/Argentina (per le Falklands/Malvine) nonché l’occupazione turca di parte di Cipro con le forti tensioni tra Grecia e Turchia.
Peraltro le guerre arabo-israeliane non avevano affatto il contenuto e la scriminante ideologica dei campi che, in maggiore o minore misura aiutavano l’uno e l’altro dei contendenti, ma il carattere “tradizionale” di contese per il possesso della terra tra popoli diversi.
Anche le guerre civili non sono (sempre) guerre ideologiche (anche se spesso ciò è capitato negli ultimi due secoli).
Come scriveva Montherlant nel prologo del suo dramma “La guerra civile”, dando la parola a questa “Io sono la guerra civile… Io non sono la guerra delle trincee e dei campi di battaglia. Sono la guerra della piazza inferocita, la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico”. Quell’ “amico contro l’amico” mostra come il drammaturgo vedesse nella dissoluzione del rapporto amicale la causa della guerra civile. Contro questa non vale (sempre) l’aggregazione derivante dalla comunanza di leggi, tradizioni, storia e lingua, che comunque produce coesione; a questa si deve aggiungere la volontà d’esistere insieme e di un futuro comune. Il venir meno della quale induce la fine della sintesi politica, la quale, come scriveva Renan, è un “plebiscito di tutti i giorni”.
Nella realtà politica la costante del dominio e le sue determinanti, in particolare geo-politiche, così ben enunciata da Tucidide nel famoso dialogo tra i Meli e gli ambasciatori ateniesi ; le opposizioni tra popoli abituati a combattere e ad affermare la propria identità rispetto ai vicini (come, spesso, nei Balcani – e non solo); gli interessi degli Stati, come la politica di De Gaulle nei confronti del mondo comunista, rendono non decisiva l’opposizione principale (ed epocale) .
La decisività dell’opposizione va ricondotta all’influenza sull’esistenza della comunità politica, sia in senso assoluto (la distruzione della comunità o dell’istituzione che le da forma), sia relativa (la modificazione radicale del modo d’esistenza della stessa).
Il conflitto politico è così determinato in primo luogo dall’esigenza d’esistenza della comunità: se è percepito un altro gruppo umano come nemico – nel senso d’essere un pericolo (concreto) per l’esistenza della comunità minacciata – le stesse “differenze” religiose, ideologiche, economiche passano in secondo piano. I “valori” e la correlativa “tavola”, per lo più dichiarata, negli Stati moderni, nelle Costituzioni, passano in second’ordine nel momento in cui è in gioco l’esistenza della comunità. Il tutto avviene sia dal lato interno (la decisione sullo stato d’eccezione) che su quello esterno (la decisione sul nemico), in omaggio alla massima salus rei publicae suprema lex. Il nemico è colui che è tale per la salus dell’istituzione statale (e della comunità). È la concreta situazione ed il pericolo per l’esistenza collettiva e il sentimento ostile che ne consegue più che il contrasto sul modo d’esistenza di un popolo a designare il nemico; così appartiene ad ogni comunità la decisione su chi sia tale, e se l’opposizione epocale sia più o meno importante delle altre opposizioni, che hanno il carattere non solo della concretezza, ma anche della particolarità. Come scriveva Freund            “Cadere in errore sul nemico per stordimento ideologico… è esporsi a mettere, presto o tardi, in pericolo la propria esistenza” .
4. Scriveva Gentile che “è il sentimento politico l’humus in cui affonda le sue radici l’albero dello Stato” ; tale affermazione è complementare a quella di Clausewitz sulla tendenza/componente/costante della guerra costituita dal cieco istinto – e con ciò dal sentimento politico – che “corrisponde” al popolo.
Senza sentimento politico non c’è né guerra né Stato vitale. Quella ha così la possibilità di essere condotta e, nel caso, vinta; in questo si risolve nel relativizzare le opposizioni e conflitti, in particolare quello tra governanti e governati nel consenso dei secondi ai primi, in un idem sentire de republica .
Il problema della legittimità del consenso e dell’integrazione, che i giuristi contemporanei spesso risolvono nella legalità, senza considerare che questa si fonda sulla convinzione della legittimità di chi esercita il potere, e non viceversa; onde – scriveva Gentile - non c’è polizia che possa provvedervi se l’ordine sociale non è condiviso .
5. Un’analisi fenomenologica del rapporto amico/nemico deve partire dall’osservazione fattuale che il conflitto è in se insopprimibile sia all’interno che all’esterno della sintesi politica. Una società, così armoniosa da non conoscere conflitti interni è frutto d’utopismo, di quella variante cioè del pensiero utopico volto ad immaginare fantasie impossibili perché opposte al dato fattuale.
Quel che, invece fa parte dell’esperienza (ed è costante) storica è che le sintesi politiche esistono come tali fin quando riescono a relativizzare i contrasti interni, ricomponendoli e decidendoli; conflitti relativizzati dal consenso ad un’autorità superiore riconosciuta (dai governati) a prendere le decisioni (inappellabili) per l’ordine che assicura. Ove questo non avvenga il risultato è che quei conflitti passano da relativi ad assoluti: in cui posta in gioco è l’esistenza e, gradatamente, la forma di governo, il regime della sintesi politica e non più dissidi interni. Ne consegue che tra tutti gli innumerevoli conflitti che possano esistere all’interno della sintesi politica depotenziarne uno, sicuramente presente, è presupposto necessario del rapporto amicale: quello tra governanti e governati. Perché consente di ricomporre tutti gli altri.
Autorità, ordinamento e regole hanno come esigenza fondamentale di dirimere e decidere i conflitti, e quindi la lotta che inevitabilmente ne consegue, limitandola e degradandola a competizione agonale.
Ancora di più, la relativizzazione dei dissidi interni si fonda sul ruolo pacificatore del terzo, interno alla sintesi politica, cioè, in linea di massima, il potere sovrano. In linea di massima perché l’attività del terzo (anche interno) può non essere svolta da un organo dello Stato e, il risultato politico (la composizione del dissidio), comunque conseguito. Ma il ruolo del “terzo” può non essere limitato ai conflitti interni e, soprattutto la sua azione, essere rivolta a suscitare dissensi, non a ricomporli.
6. Si è spesso pensato, nell’era post-atomica e a seguito della debellatio della Germania e del Giappone (il caso dell’Italia è diverso), che la fine della guerra s’identifichi con l’occupazione militare di un paese previamente distrutto dal vincitore, e quindi posto nell’impossibilità materiale di difendersi; i terribili effetti di una guerra nucleare nell’immaginario collettivo hanno fatto il resto.
Nella realtà una guerra finisce quando una delle parti non ha più la volontà di combattere. La guerra è uno scontro di volontà, come scrivevano, tra gli altri, Clausewitz e Gentile. Presuppone quindi che ambo i contendenti abbiano la volontà di farla e proseguirla: se uno dei due si arrende, la guerra cessa.
Giustamente de Maistre notava che una battaglia persa è quella che immaginiamo di avere perso .
La guerra assoluta sta alla guerra reale come la pace (perpetua? universale?) della debellatio ad un trattato (o anche “dettato”) di pace reale. È essenziale piegare la volontà di combattere del nemico e quindi il sentimento di (appartenenza comunitaria ed) ostilità. A tale scopo tutti i mezzi sono buoni: sia la prospettiva di castighi e danni superiori sia l’opposta di benefici, vantaggi o clemenze. L’armistizio con cui si concluse (sul piano militare) la prima guerra mondiale, con la Germania ancora padrona di gran parte dell’Europa centrorientale ne è uno dei casi.
Pressioni economiche (gli effetti del blocco), l’armistizio dell’Austria-Ungheria e le prospettive strategiche di questo e dell’aumento dell’intervento americano contribuiscono a depotenziare la volontà di combattere.
Ma anche nel XX secolo, nell’epoca della guerra tecnica e totale, spesso armate partigiane decise e motivate, hanno sopportato e vinto in condizioni di (abissale) inferiorità materiale, a prezzo di perdite enormemente superiori a quelle dei nemici ipertecnologici. Lo squilibrio materiale era compensato dall’intensità del sentimento ostile e così del morale. I nemici non riuscivano a sopportare gli (assai inferiori) sacrifici, per cui preferivano concludere la pace o comunque rinunciare alla guerra . Il sentimento ostile è, per il più debole, il fattore che può consentire di condurre e vincere la guerra, pur connotata da una notevolissima asimmetria materiale.
È proprio la guerra asimmetrica nelle sue diverse forme a connotare i conflitti contemporanei, a partire dal crollo del comunismo e dalla conseguente rottura del condominio bipolare che aveva caratterizzato la seconda metà del XX secolo.
Del pari l’ostilità tra gruppi umani, che condivide la natura camaleontica del suo prodotto più intenso, la guerra (caratterizzata dall’uso della violenza), prende forme intermedie (per lo più mistificate o del tutto occultate). Influenzate da derivazioni (nel senso di Pareto) pacifiste; queste consistono nel negare ad interventi armati il carattere di guerra, in nome d’intenzioni ireniche e soprattutto perché intraprese al fine di mantenere la pace .
Ma la panoplia dell’ostilità non si limita alle guerre mascherate.
Altre forme ne sono quelle azioni che tendono allo stesso scopo della guerra – piegare la volontà dell’avversario – con mezzi non militari (blocco economico, attacchi informatici, scorribande finanziarie, fino alle invasioni pacifiche); ovvero condotte da soggetti non aventi lo status di legittimi belligeranti (justi hostes), mezzo ben noto anche ai secoli passati. Il connotato comune di tutti questi tipi di atti ostili è che, avendo lo stesso scopo della guerra “classica” mancano di uno (o più) dei requisiti individuati dalla teologia cristiana perché vi fosse una guerra giusta (justum bellum): qui manca la recta intentio, lì l’auctoritas, altrove una justa causa belli. Onde (forse) non possono essere considerate guerre in senso proprio, ma quasi sempre non possono essere ricondotte al concetto di guerra giusta elaborato dai teologi.
Proprio in tali guerre – non guerre assume un rilievo forse maggiore che in quelle classiche l’esigenza di annichilire la volontà di resistere (e di combattere) del nemico; perché l’avversario sa bene, come scriveva de Gaulle, che la forza risiede nel di esso ordine e che rompendo questo si distrugge quello.
7. Nelle forme “atipiche” di guerra che connotano il XXI secolo questo è possibile in vari modi e i mezzi devono essere congrui rispetto agli obiettivi. Decisivo appare comunque provocare la perdita della coesione politica del nemico. I gradi dell’azione possono essere differenti: si va, in crescendo, dalla sostituzione del governo ostile all’abolizione del regime politico  fino alla distruzione della sintesi politica oggetto dell’intervento ostile .
Connotato comune è che il mezzo usato e lo scopo lo rendono più prossimo alla rivoluzione che alla guerra: anche se il fine non è sempre rivoluzionario consiste nella sovversione e il rovesciamento dell’ordine (e così  almeno del governo) ostile. Dato che gli interventi ostili contemporanei hanno – come d’altra parte tante guerre – obiettivi limitati, spesso è sufficiente la sostituzione del governo per realizzarli.
Malgrado il non uso di mezzi militari, ciò lo rende assai più lesivo dei principi del diritto internazionale di quanto lo sia uno justum bellum: suscitare la sovversione (fino alla rivoluzione) negli altri Stati ha, secondo molti costituito un illecito internazionale, spesso vituperato e altrettanto praticato.
8. Il pensiero politico si è interrogato da millenni su chi sia il nemico, e le risposte al quesito sono state le più varie e neppure escludentesi tra loro. Si è ritenuto che ci fossero nemici per natura , o più spesso per divergenze d’interessi, o anche per costumi , per religione (fonte di tanti contrasti). Ancor più su chi sia il nemico giusto .
Come sostenuto da Schmitt (e non solo) il secolo XX ha visto il riconoscimento dello Stato di nemico giusto anche a soggetti politici altri degli Stati (in particolare movimenti rivoluzionari); così una legittimazione delle guerre giuste prevalentemente in base al criterio della justa causa belli.
Sul piano fenomenologico il tutto ha portato non alla riduzione, ma all’accrescimento del ruolo del sentimento ostile: in particolare l’attività bellica svolta da organizzazioni non statali relativamente (poco) istituzionalizzate  ha comportato un aumento del ruolo attivo della popolazione nella guerra, secondo la concezione di Mao-dse-Dong, e così del sentimento politico.
La debole istituzionalizzazione ha reso del pari meno rilevante il ruolo del personale “tecnico” e specialistico. Il comando – e i quadri – dei movimenti partigiani sono solo occasionalmente (e raramente) dei tecnici e dei burocrati militari: per lo più o non posseggono esperienza di guerra o ne hanno poca. Già agli albori del  partigiano moderno, troviamo il cardinale Ruffo, il quale non era un militare, ma un religioso ed amministratore civile. In compenso sapeva benissimo come suscitare ed avvalersi del sentimento ostile antigiacobino delle popolazioni meridionali. Così gran parte dei suoi seguaci, cosa ripetutasi in tutti (o quasi) i movimenti rivoluzionari moderni. Fra Diavolo il capo partigiano faceva il sellaio per poi arruolarsi (qualche tempo) nell’esercito regolare borbonico; Empecinado l’agricoltore.
E, sotto tale profilo, occorre ritornare alla concezione di Schmitt, prima cennata, del ruolo della tecnica e della tecnocrazia, relativamente al sentimento politico, sia che si tratti dell’avversione al nemico che della coesione con l’amico.
La tecnica è in se uno strumento e un mezzo, non un fine.
Anzi il passaggio dalla concezione della tecnica (della prima metà del secolo scorso) di cui scrive Schmitt come “fiducia in una metafisica attivistica, la fede in una potenza e in un dominio sconfinato dell’uomo sulla natura, e quindi anche sulla physis umana, la fede nell’illimitato «superamento degli ostacoli naturali», nelle infinite possibilità di mutamento e di perfezionamento dell’esistenza naturale dell’uomo in questo mondo”,  per cui non può dichiararlo “semplicemente una morta mancanza di anima, senza spirito e meccanicistica” ha rafforzato la nulla (o scarsa) idoneità a suscitare “sentimento politico”.
Se la tecnica all’epoca era concepita in una dimensione (e funzione) prometeica, ora è percepita come soddisfazione di bisogni (per lo più privati) di una società di consumatori pantofolai, i quali comunque hanno abdicato a dare un senso all’esistenza collettiva, che non sia quello di produrre e consumare.
Il quale si coniuga assai bene con la profezia di Tocqueville sul dispotismo mite ; mentre secondo il giurista di Plettemberg “Tutte le scosse nuove e poderose, tutte le rivoluzioni e le «riforme», tutte le nuove élites provengono dall’ascesi e da una più o meno volontaria povertà, nel che la povertà significa soprattutto il rifiuto della sicurezza garantita dallo status quo”.
9. Ciò nonostante dato che ogni scelta, come è anche quella di servirsi della tecnica (o di tecniche), può suscitare una contrapposizione amico-nemico è il caso di vedere se anche questa (e/o quelle) può costituire fondamento aggregante/discriminante.
In primo luogo bisogna ricordare che il rifiuto di certe (soluzioni) tecniche è, il più delle volte, solo il riflesso di una scelta di valori; nel mondo contemporaneo è evidente per le (nuove) tecniche riconducibili a orientamenti bioetici . La dipendenza di queste da quelli le rende irrilevanti o, tutt’al più, secondarie.
In secondo luogo il rifiuto totale (o quasi) della tecnica, quale risultante/componente di una scienza e di una civiltà altra è stato più volte ripetuto nella storia.
In particolare Toynbee lo ritiene uno dei tipi di comportamento tenuti dalle comunità umane non facenti parte della civiltà (del cristianesimo) occidentale di fronte all’espansione planetaria di questa.
Del rifiuto (opposto all’assimilazione/accettazione) riteneva “campioni” (tra gli altri rifiutanti) il Giappone ante-rivoluzione Meiji e l’Abissinia; dell’accettazione (modernizzazione) considerava le più tipiche figure storiche Pietro il Grande, Mehmet Alì e gli statisti giapponesi dell’epoca Meiji . Ma il rifiuto della tecnica e della tecnologia era la conseguenza/risultanza dal rifiuto dell’intera civiltà occidentale, nei suoi valori come nell’organizzazione sociale (diritto compreso), oltre che della tecnologia, e quindi, in parte, coincide con il primo tipo di scelta.
Anche se è ipotizzabile teoricamente un’opposizione sulla tecnica, questa non appare in concreto, quale determinante reale del conflitto, e neppure può costituire, se non in ruolo ancillare , un fattore decisivo e legittimante del potere. Ogni situazione conflittuale e non conflittuale, di inimicizia o di amicizia; il dissenso o il consenso di valori od interessi è rimessa alla volontà umana, mentre la scelta tecnica (e la validità di questa) non è preferenza di volontà, ma di congruità ed opportunità.
La situazione contemporanea, a seguito del collasso del comunismo (e delle istituzioni-alleanze che ne determinavano il campo) ha fatto cessare l’opposizione borghese/proletariato che ha connotato (quanto meno) il “secolo breve”. Le recenti affermazioni elettorali di movimenti e candidati non riconducibili al vecchio Zentralgebiet, in Europa innanzitutto, e, come appare dall’elezione di Trump, anche negli USA, fanno emergere una nuova opposizione amico/nemico, ideologicamente meno definita, ma, almeno potenzialmente, virulenta. Appare evidente che tale contrapposizione, come mi è capitato di scrivere di recente, è quella tra nazione (identità nazionale) e globalizzazione ; (o internazionalismo “diretto”). Rispetto ai vecchi  “Zentralgebiet”, specialmente quello generante l’opposizione borghesia/proletariato, ha in comune il carattere di essere divisiva sul piano interno non meno che su quello esterno: genera partiti populisti che si contrappongono all’élite interne ed internazionali, rappresentate dai vecchi partiti in decadenza, la cui strategia di sopravvivenza è spesso coerente con l’emergere della nuova opposizione (che rende secondaria e poco rilevante la vecchia): tendono all’arroccamento, al fare blocco tra loro (la vecchia destra e la vecchia sinistra), per impedire la presa del potere alla nuova “coppia” amicus-hostis .
Anche se, spesso, più che di arroccamento è il caso di parlare di divergenze parallele. Ma le divergenze parallele sono una delle fonti delle alleanze tra soggetti differenti su tanto o tutto (o tanto) ma uniti dal nemico.
Teodoro Klitsche de la Grange

venerdì 25 novembre 2016

Gilad Atzmon: «Perché brucia Israele?» - L’altra verità che non ti raccontano...

Gilad Atzmon
Sono davvero molto grato a “Come Don Chisciotte” per la traduzione di questo nuovo articolo di Gilad Atzmon, che tratta di come i colonizzatori ebrei abbia fatto rifiorire il deserto. Intanto, sradicando 700 mila ulivi secolari, come ebbe a scrivere Ronne Kasrils, sono stati distrutti dagli che è stato ministro delle Risorse Idriche e delle Foreste del Sudafrica, il 30 novembre 2002: «Circa 700.000 ulivi e aranci sono stati distrutti dagli israeliani. Questo è un atto di vero e proprio vandalismo da parte di uno Stato che rivendica la conservazione dell’ambiente. Che sgomento e che vergogna». Questa citazione si trova in epigrafe a pag. 269 del libro di Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina (Fazi Editore, 2008), che a pagina 271 narra anche come la natura stessa si sia ribellata al tentativo di trasformare la Palestina in un
Ilan Pappe fb
paese europeo e di cancellare ogni precedente memoria: «...Recentemente i parenti di alcuni abitanti del villaggio originario di Mujaydil hanno rivelato che alcuni pini si sono praticamente spaccati in due e in mezzo al trocno sono spuntati degli ulivi come una sfida a una flora aliena piantata lì sopra cinquantasei anni fa». In pratica, si sono volute cancellare con una nuova vegetazione le tracce di oltre 400 villaggi palestinesi (su 800) distrutti dai nuovo abitanti venuti dal mare e dall'Europa orientale. Gilad Atzmon e Ilan Pappe sono entrambi ebrei nati in Israele, e ambedue emigrati in Inghilterra, ma con storie diverse. Gilad, che definisce se stesso un ex-ebreo, è un musicista e un filosofo. A lui si deve la migliore trattazione delle problematiche connesse alla identità ebraica. Lasciò Israele all'età di 30 anni, ritenendo che quella fosse una terra sottratta ingiustamente ai Palestinesi. Ilan Pappe andò pure via da Israele, ma non volontariamente, bensì costretto da violenze e minacce a seguito della sua attività di storico, che narrava agli stessi israeliani una verità ben diversa dalla narrativa ufficiale, anche se - dice Atzmon - quella stessa verità era nota da sempre a ogni bambino palestinese. Sugli incendi in Israele, in questa stessa data odierna, il più fanatico organo della propaganda israeliana in lingua italiana riporta i fatti i maniera del tutto diversa. Sono convinti che la verità possa essere coperta allo stesso modo in cui si può sradicare ulivi secolari per piantarci sopra una flora straniera, esportando la Svizzera in Palestina.

AC

Perché brucia Israele?

DI GILAD ATZMON


Il paesaggio rurale di Israele è saturo di alberi di pino. Questi alberi sono una novità per la regione. Quegli alberi di pino vennero introdotti nel paesaggio palestinese nei primi anni ‘30 dal Fondo Nazionale Ebraico (JNF) nel tentativo di “rivendicare quella terra”. Nel 1935, il JNF aveva piantato 1,7 milioni di alberi su una superficie totale di 1.750 acri. In oltre cinquanta anni, il JNF ha piantato oltre 260 milioni di alberi in massima parte su terre palestinesi confiscate. Ha fatto tutto in un disperato tentativo di nascondere le rovine dei villaggi palestinesi etnicamente ripuliti e cancellarne la storia.

Nel corso degli anni il JNF ha attuato un rozzo tentativo di eliminare la civiltà palestinese e il suo passato, ma ha anche cercato di rendere la Palestina simile all’Europa. Le foreste naturali palestinesi sono state sradicate. Allo stesso modo sono stati sradicati gli ulivi. E i pini hanno preso il loro posto. Nella parte meridionale del Monte Carmelo gli israeliani hanno denominato un settore la “Piccola Svizzera”. Ma ormai, non c’è rimasto molto della “Piccola Svizzera”.

Tuttavia, la realtà sul territorio è stata alquanto devastante per il JNF. Il pino non si è adattato al clima di Israele tanto quanto gli israeliani non sono riusciti ad adattarsi al Medio Oriente. Secondo le statistiche del JNF, sei su dieci degli alberelli piantati non sono sopravvissuti. Quei pochi alberi che si sono salvati hanno creato nient’altro che un trappola di fuoco. Entro la fine di ogni estate israeliana ognuna di quelle pinete è diventata una potenziale zona di morte.

Nonostante la sua capacità nucleare, il suo esercito criminale, l’occupazione, il Mossad e la sua lobby ovunque nel mondo, Israele sembra essere vulnerabile. È devastantemente aliena nella terra che afferma di possedere e gestire. Come il pino, il sionismo, Israele e gli israeliani sono estranei a quella regione. 
Gilad Atzmon

Fonte: www.gilad.co.uk Link: http://www.gilad.co.uk/writings/2016/11/25/why-israel-is-burning. 25.11.2016 Scelto e tradotto per www.comedonchiusciotte.org da OLDHUNTER.

lunedì 14 novembre 2016

Gilad Atzmon: «Sulla vittoria di Trump»

Gilad Atzmon
Riprendo volentieri da “Come Don Chisciotte” questo articolo di Gilad Atzmon sulle elezioni presidenziali americane e mi rammarico di non essere riuscito a sviluppare il piano di traduzioni dei post che compaiono sul blog del musicista e filosofo inglese, nato in Israele e autore della più acuta analisi della identità ebraica. Le categorie concettuali isolate a questo riguardo ritornano nella splendida definizione che si trova più sotto nel testo: «Il pensiero progressista è la manifestazione secolare del concetto dell’ “eletto”». Non già il pensiero progressista in generale, ma se si va a prendere il pensiero comunista, quello ad esempio che si trova in Buio a mezzogiorno, il romanzo di A. Koestler, ci si ritrova con la Storia al posto di Dio e con il mondo che va avanti secondo i dettami della Provvidenza. I media, giornali e televisioni, ma anche ormai tutti gli istituti educativi e i luoghi in cui non già si forma il consenso, ma lo si impone hanno lo stesso ruolo che nei primi secoli del cristianesimo post-costantiniano esercitavano gli Evangelizzatori. Niente poteva e doveva resistere al Verbo divino ed ogni strumento era lecito per assoggettare le genti alla vera Fede.

Post Scriptum - Colgo occasione in un PS, che è sufficiente, per esprimere il mio netto assoluto disssenso con il fortunatamente ex-Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che non è mai stato il mio presidente e della cui parzialità ho sofferto negli anni della sua presidenza, dove fra gli atti più gravi a lui riconducibili annovero l’aggressione alla Libia, al suo presidente Geddafi, al suo popolo ovvero alle sue tribù da Geddafi riunite. Ma le imprese di Napolitano dal 1956 (invasione dell’Ungheria) ad oggi, giorno in cui fa pubbliche ammissioni, non più in veste di Presidente della Repubblica, e dunque protetto dagli apparati repressivi dello Stato, dice la sua in materia di “antisemitismo" e “antisionismo”, materia dove la sua incomprensione non può essere compensata dalla sua Autorità. Resta pur sempre un personaggio potente, da me mai amato, e non dico altro se non a rinviarlo alla lettura dei testi di Gilad Atzmon, uno dei pochi che capisce in materia di “identità ebraica”. L’ex-Presidente è infine invitatato alla lettura di un altro libro: La pulizia etnica della Palestina, di Ilan Pappe, che per me resta un testo definitivo sull'argomento, rendendo noto al mondo ebraico e filo-sionista cià che - secondo le parole di Atzmon - era noto a ogni bambino palestinese, ossia la pulizia etnica del 1948 che nella più recente normativa Onu - come ricorda Pappe - è equiparata al “genocidio”. - Purtroppo, se non sarà abbattuta l'oppressione e infiltrazione us-raeliana  nelle nostre istituzioni ai massimi livelli, dovremmo andare ogni volta a Tel Aviv per farci autorizzare su ciò che ci è concesso pensare e ciò che non ci è invece permesso. È ancora presto per valutare quale piega prenderà la politica di Trump. I primi segnali sono contraddittori e per taluni aspetti non incoraggianti per chi sta dalla parte della libertà di pensiero e della libertà dei popoli.

AC

GILAD ATZMON
Sulla vittoria di Trump

Mi è successo negli ultimi anni che l’essere progressista non fosse una posizione politica, ma uno stato mentale.

L’incapacità di tutti i progressisti degli USA e dell’establishment di sinistra di prevedere la vittoria schiacciante di Trump fa pensare che abbiamo a che fare con persone distaccate dalle istituzioni.

Solo tre giorni prima delle elezioni presidenziali, l’Huffington Post aveva pateticamente criticato il famoso sondaggista Nate Silver di “insensate previsioni nella direzione di Trump”, poiché affermava che la vittoria di Trump potesse essere uno scenario realistico. Ryan Grim ha scritto:
“Il sondaggista dell’Huffington Post sta dando la Clinton per vittoriosa con una probabilità del 98% e il New York Times nella rubrica The Upshot mette le sue chance all’85. C’è un’eccezione, tuttavia, che sta mettendo nel panico i democratici in tutto il paese e che mette nei sostenitori di Trump la speranza che il loro uomo alla fine ce la possa fare. Il modello 538 di Nate Silver assegna a Trump una probabilità del 35% di vincere”. Link: huffingtonpost.com.
L’Huffington Post accusa Silver di “prendersi gioco di tutta l’industria sondaggista che lui stesso ha reso popolare”.

In prospettiva il modello 538 aveva ragione. Huffington Post e New York Times erano totalmente fuori pista. Una coincidenza?

Come è possibile che il Partito Democratico, i media mainstream e Wall Street abbiano potuto ignorare totalmente il livello di rabbia che accomunava le masse? Queste domande vanno ben oltre le strategie di sondaggio o la statistica. Stiamo parlando di un livello di disconnessione quasi totale.

Il pensiero progressista di sinistra è idealizzato come un sogno. Ci dice come il mondo dovrebbe essere. Spesso i progressisti sembrano dimenticarsi di come il mondo sia in realtà e di che tipo di persone è popolato. Hillary Clinton e la sua campagna, proprio come il New York Times e l’Huffington Post, era in uno stato di negazione. Crogiolandosi nella loro tracotanza, hanno totalmente sbagliato a leggere la situazione.

Per noi ciò non deve essere una sorpresa. Il distacco non è stato inventato dalla Clinton e dal suo team. Distacco ed alienazione sono insiti nel pensiero progressista. Essere progressisti significa credere che le “altre persone” sono solo un mucchio di ignari “reazionari”. Il pensiero progressista è la manifestazione secolare del concetto dell’ “eletto”. È un concetto tipicamente ebraico, un fatto che spiega perchè i primi cinque finanziatori della campagna della Clinton fossero miliardari ebrei.

Perchè essere progressisti è una forma di supremazia. Mi spingerò così in là da suggerire che l’antagonismo dei progressisti nei confronti della “supremazia bianca” è una forma di proiezione. I progressisti attribuiscono all’ “essere bianchi” la loro stessa inclinazione all’essere eccezionali.

Statunitensi contro Identitaristi

Il giorno elle elezioni, abbiamo capito che il Partito Democratico era sul filo, sperando di essere salvato dai “voti ispanici” in Florida. Il futuro politico della Clinton dipendeva dal fatto che Trump avesse offeso a sufficienza la comunità latina. Questo particolare sviluppo per cui un partito a livello nazionale dipenda da uno specifico gruppo politico non dovrebbe stupire più di tanto.

Le elezioni presidenziali del 2016 hanno diviso gli USA in due fazioni: da un lato gli Statunitensi, dall’altro gli Identitaristi. I primi sono quelli che si vedono principalmente come patrioti, sono mossi dai loro retaggi culturali e dalle loro radici. Per essi, la promessa di “rendere di nuovo grande l’America”, è la conferma che l’utopia è nostalgia e che la realtà progressista non è altro che una distopia. Gli Identitaristi, invece, sono quelli attaccati alle politiche settarie dei progressisti. Sono principalmente autoreferenziali, che siano LGBTQ, Latini, Neri, Donne e via dicendo. Il loro legame con l’ethos patriottico nazionale è secondario o spesso nemmeno esiste. Il futuro del Partito Democratico, nella sua forma attuale, dipende dalla speranza che la tendenza ad abbracciare ideologie settarie aumenti gradualmente e, alla fine, ne rafforzi il contesto di identità o gruppo politico. Il modo di procedere progressista fa affidamento sul crollo delle ideologie nazionali e patriottiche. Metà degli USA ha votato per la Clinton, per cui queste mire politiche sono tutt’altro che inverosimili.

Purtroppo la tendenza Identitarista gli si è ritorta contro. Era solo una questione di tempo prima che i cosiddetti “bianchi” o “campagnoli” si accorgessero di avere le spalle al muro. Anch’essi hanno iniziato a ragionare e ad agire come un settore politico identitario. Il fatto che Hillary avesse definito i sostenitori di Trump un “mucchio di miserevoli”, per i gli Statunitensi bianchi e poveri era un chiaro indicatore che questa non era esattamente un loro alleato. Hillary non era sola. Più o meno tutti gli scrittori ebrei della stampa statunitense non hanno perso l’occasione di etichettare i sostenitori di Trump come “sostenitori della supremazia bianca”. Per Cheryl Greenberg la popolarità di Trump era “l’ultimo anelito della supremazia bianca”. Per Josh Marshall di Talking Points Memo, l’ultimo spot pubblicitario della campagna di Trump era pieno di “guaiti antisemiti, retorica antisemita e vocabolario antisemita”. Per Marshall e Greenberg, la metà della popolazione statunitense era composta da cani che obbedivano agli ordini del padrone.

Non ci dovrebbe sorprendere che metà della popolazione abbia deciso di reagire, stufa di progressisti ebrei del calibro di Marshall e Greenberg che la definivano un mucchio di cani e sostenitori della supremazia bianca. I tempi erano maturi per una rivoluzione.

Per cui si tratta di una rivoluzione? Non sto trattenendo il respiro. Le persone che hanno incoronato Trump sicuramente sono esauste. Pronte per un cambiamento. Trump sarà in grado di metterlo in atto? Non possiamo saperlo. Di sicuro non ci farà annoiare.

• Gilad Atzmon è un sassofonista jazz, romanziere, attivista politico e scrittore britannico di nascita israealiana. Fonte: http://www.gilad.co.uk/ Link: http://www.gilad.co.uk/writings/2016/11/10/on-trumps-victory 10.11.2016. In ottemperanza a: «Il testo di questo articolo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali, citando la fonte comedonchisciotte.org e l’autore della traduzione FA RANCO».  E con i ringraziamenti da parte di CL.

mercoledì 9 novembre 2016

Nino Galloni: «Trump, referendum e Brexit».

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Antonino Galloni, fb
È questo il secondo post di Nino Galloni che appare in Civium Libertas. Si tratta di una riflessione a caldo sulla elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti. Ho personale ricordo della prima elezione di Obama, quando mi lasciai trascinare in una quasi simpatia, un quasi tifo per Obama che poi mi deluse. Ma di certo fra i due odierni contendenti a me era assolutamente indigesta la Clinton, delle cui infinite malefatte più di tutte mi è rimasta impressa la sua guerra contro la Libia, tutta scaricata sulle nostre spalle e con una umiliazione che sembra passata in cavalleria, almeno presso i nostri politici, 5s inclusi. Ricorso il cinismo del “venni, vidi, morì”: una barbarie infinita che grida vendetta al cospetto di Dio e che ben dimostra la perenne “cupidigia di servilismo” dei nostri governanti da 70 anni a questa parte... Di Trump ancora dobbiamo sapere cosa farà, cosa potrà e saprà fare, cosa gli lasceranno fare se vivrà e cosa per noi significherà. Della Clinton sapevamo abbastanza per ciò che ha fatto e sapevamo pure cosa da lei potevamo aspettarci. La Nota di Nino Galloni è ripresa da «Scenari economici» di oggi 9 ottobre 2016, dove esce con egual titolo, ed è stata “posted” da Antonio Maria Rinaldi.
AC

TRUMP, REFERENDUM E BREXIT
di Nino Galloni in “Scenari economici

Non si tratta semplicemente di un’ondata popular-populistica che ha riguardato tutte le tornate elettorali ed i referendum in Eurasia e Americhe, ma di un vero e proprio sganciamento dei cittadini dai diktat dei padroni finanziari.

Questo è molto positivo, ma vi corrisponde un aspetto molto preoccupante: il programma alternativo non è chiaro o, meglio, non c’è. Ci sono generiche richieste riguardanti il lavoro, la centralità dei valori umani, il ripristino della sovranità politica e monetaria, la giustizia sociale, l’etica.

Non si sa veramente cosa farà Trump, cosa proporrà il M5S, se la Brexit andrà avanti, se Renzi abbandona definitivamente un rigore insostenibile per costringere l’Europa in ginocchio ovvero questa Europa a cedere. Con tutte le conseguenze di scenario geopolitiche del caso.

Ma sarebbe ingenuo credere che la grande finanza registri sconfitte e si ritiri in buon ordine. Anzi, essa è pronta e agguerrita per riorganizzarsi a sfruttare qualsiasi cambiamento.

Soprattutto se quest’ultimo sarà generico e generativo di ulteriore confusione. La grande finanza cresce nel conflitto che essa stessa genera e nella confusione che deriva dalla consapevolezza della necessità di un cambiamento senza un piano preciso e realizzabile.

Per questo la priorità è il progetto, il programma, il piano, non le divisioni settarie.

Dopo il referendum del 4 dicembre dove dovrebbe vincere il NO occorrerà riunire le forze democratiche attorno al programma di un nuovo modello economico e sociale sostenibile, responsabile, capace di ridurre le ineguaglianze.
Nino Galloni

venerdì 4 novembre 2016

Letture: 49. Fabio Lo Bono: «Popolo in fuga. Sicilia terra d'accoglienza. L’esodo degli italiani del confine orientale a Termini Imerese» (Lo Bono, febbraio 2016)

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Troppo facilmente ed in modo quanto mai sospetto si è dimenticato e tentato di rimuovere nello scenario politico del dopoguerra il trauma prodotto da quella «cupidigia di servilismo» che portò l'Italia (governo De Gasperi) nel 1947 alla firma di quel trattato di pace « con il perse l’Istria e vaste zone della costa dalmata. A seguito di questo accordo, si stima che circa 350.000 (ma potrebbero essere stati molti di più) italiani furono costretti a lasciare le loro case, i loro beni, i loro affetti e la memoria della loro famiglia, con un flusso costante fino al 1956, per trovare rifugio in varie zone d’Italia...», dove però «gli esuli sono stati etichettati come fascisti in fuga e come uomini e donne appartenenti a classi sociali abbienti e ritenuti ostili ai partiti socialisti e quindi non meritevoli di attenzione» (p. 5). Ciò che resta 70 anni dopo quei tragici fatti è per un verso una diffusa ignoranza  su come e perché ciò è potuto succedere, su cosa mai ha potuto giustificare e far assorbire una vera e propria “pulizia etnica”, ma per altro verso l’inaccettabilità perpetua di una situazione che confligge insanabilmente con la nostra coscienza etica. I canoni della politica e della diplomazia possono ben mutare al variare degli equilibri politici e dei rapporti di forza, ma la coscienza viaggia su binari indipendenti. Resta l'ignoranza e l'incomprensibilità di ciò che gli uomini al governo fecero allora, ma si acuisce la percezione di un'ingiustizia costante nel tempo in un mondo dove la stessa propaganda di allora pretende di farci credere al regno sconfitto del Male è subentrato il regno del Bene, della Libertà, del Diritto, della Giustizia...

Sappiamo che non è così e che in questi 70 anni vi è stata una progressione dell’Antico: gli uomini non sono diventati migliori perché una parte ha prevalso sull’altra. Ai mali vecchi si sono aggiunti i nuovi con un crescendo di pericolosità che dalle fionde e dalle spade ha portato alla bomba atomica ed a sempre più sofisticati strumenti di morte e di distruzione non solo materiali ma anche e soprattutto immateriali sul piano della cultura, della psiche, della trasmutazione dei valori, del linguaggio. Giacché la capacità di distruzione materiale ha superato ogni limite sopportabile ed è perciò spesso proprio questo impraticabile, ecco che la lotta si sposta sul piano spirituale per il controllo della facoltà stessa di poter pensare liberamente e liberamente potersi rappresentare le cose.

Abbiamo sopra riportato: 350 mila persone, ma che è solo una stima e potrebbero invece essere molti di più. Intanto sono almeno la metà dei palestinesi che grosso modo nello stesso anno venivano scacciati dalle loro case e dai loro villaggi, secondo quel che fra tanti narra Ilan Pappé nel suo libro-denuncia La pulizia etnica della Palestina. È curioso come quanti attaccano aspramente lo storico ebreo israeliano I. Pappe usino come argomento proprio la questione istriana: siccome si è potuto trattare in quel modo gli italiani d’Istria e Dalmazia, e ciò è stato accettato non solo dall’Italia, o meglio dai suoi servili governi oltre che dalla cosiddetta comunità internazionale, ecco che diventa lecito il “genocidio” palestinese ed illecita la Nakba, ossia il “ricordo”, la commemorazione da parte degli stessi palestinesi dell’anno in cui è stata loro tolta la patria. Poiché è ideologicamente necessaria la diffamazione della vittima, della parte soccombente, si è detto per i palestinesi che sarebbero “scappati” a seguito di una trasmissione radiofonica che diceva loro di lasciare case e villaggi, ma sappiamo che è una menzogna, mentre gli istriani sarebbero stati “fascisti in fuga”. È da chiedersi, nell’era splendida e gloriosa dei “diritti umani”, se mai si possono perdere i più elementari diritti insiti nella stessa “natura umana” come conseguenza di fattori contingenti: l'essere italiano o sloveno, vinto o vincitore, comunista o fascista, e così via.

Non a caso ho parlato sopra di “genocidio” palestinese, la cui realtà viene negata dalla propaganda avversa solo perché i profughi hanno avuto nonostante tutto una discendenza e si sono perfino moltiplicati sul piano demografico. E meno male! Oggi non potremmo più nemmeno parlarne, come per gli indiani d’America che conosciamo soltanto dalla produzione hollywoodiana, giacché i bianchi hanno persino pensato di costruirsi la loro epopea fondativa su ciò di cui dovrebbe vergognarsi in perpetuo: il genocidio degli indiani, dopo averli privato della loro terra. Noi tutti bambini, innocenti, abbiamo così giocato a fare gli indiani e i cow boys. L’equiparazione fra pulizia e genocidio è però richiamata dallo stesso Ilan Pappe sulla base della normativa Onu che ha stabilito questa equiparazione sulla base di quanto avvenuto, o per come lo si è fatto apparire, nella dissoluzione della ex-Iugoslavia che fu di Tito. Genocidio non significa soltanto uccisione fisica di una pluralità o totalità di persone, ma anche - ad es. - privare, decimare, una comunità della sua classe dirigente. In questo senso un primo “genocidio” vi fu da parte inglese nella repressione della rivolta araba del 1936-39, quando i palestinesi insorsero in massa contro la massiccia immigrazione ebraica che andava a soppiantare la popolazione residente con tecnica studiate e messe a punto lungo i decenni. Nel 1948 i palestinesi si trovarono così - dice Pappe - totalmente sprovvisti di quella classe dirigente di cui avevano bisogno per difendersi ed opporsi al piano D, appunto per il compimento della “pulizia etnica”. Il “famigerato” mufti altro non era che un esule, pure lui, ma bandito dagli inglesi, che all’estero si industriava per cercare aiuto al suo popolo martoriato: quello che successe nel 1948 al popolo palestinese ben dimostra che i pericoli erano reali.

Insomma, la mia prima impressione è che si possono ben equiparare profughi istriani e profughi palestinesi, la cui Nakba è contemporanea, ma non per togliere diritti ai palestinesi perché li hanno fatto perdere agli istriani. Al contrario: per dare agli istriani quegli stessi diritti che almeno sulla carta l'Onu riconosce ancora ai palestinesi, che ancora conservano gelosamente le loro chiavi di casa e gli atti di proprietà. Non un risarcimento risibile, monetario, ma la restituzione di tutti i diritti che sono stati tolti. Per la Palestina non so come andrà a finire la storia, ma per l’Italia se fossi io al governo, e toccasse a me la politica estera, dichiarerei nullo il trattato di pace firmato nel 1947, per violazione dei diritti umani elementari, e riaprirerei la trattativa. Utopistico? Può darsi. Forse certamente. Ma niente impedisce di pensare l’Utopia. L’importante è che ci siano oggi superstiti o discendenti istriani. Io come italiano del sud, addirittura calabrese, mi batterei molto volentieri per gli italiani dell’estremo nord.

Ho voluto far precedere queste mie prime suggestioni tratte dal libro e dalle presentazione che ne è stata fatta ieri a Roma, in Campo dei Fiori, ma il libro è ancora tutto da leggere. Ed altre annotazioni sono da fare. Ma dico subito, in premessa, davanti alle tristi e tragiche vicende che andrò a leggere: un delitto non ne giustifica un altro! Gli errori e le efferatezze di chi nel tempo ha il comando degli eserciti e la guida dei governi non possono non possono travalicare e calpestare i limiti e i principi imposti del senso di umanità e giustizia che è insito nella coscienza etica. E per una ragione molto semplice: gli eserciti passano e la sorte delle armi è alterna, mentre la sofferenza del torto subito ed il ricordo della umanità e giustizia negata si tramanda nei secoli e nei millenni.

(segue)

giovedì 3 novembre 2016

Letture: 48. Paolo Sensini: «ISIS. Mandanti, registi e attori del “terrorismo” internazionale» (Arianna Editrice, 2016)

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A differenza di altre schede di letture, sulle quale indugio, via via che proseguo nella lettura del libro spesso interrotta da lunghe pause, ho letto tutto d'un fiato il libro di Paolo Sensini, pur di pagine 298. In buona parte si è trattato di informazioni che già possedevo, ma con ciò non intendo in nessun modo diminuire il pregio e l’importanza del lavoro fatta da Sensini. Tutt'altro! Mi è parsa una raccolta ordinata e documentata di notizie e documenti che è difficile tenere insieme. Si tratta per larga parte di fonti in lingua inglese, per il cui reperimento ci vuole una grande perizia oltre che una perfetta conoscenza della lingua inglese (che io ahimé non possiedo). Ho detto di aver seguito per questo libro un diverso metodo di lettura: ne scrivo adesso dopo averlo letto per intero. Ne ho una visione e un giudizio d’insieme, ma il rovescio della medaglia è che non ho potuto fare le annotazioni a piè di pagina, in corso di lettura, alle quali i miei Cinque o Sei Lettori abituali (non ricordo bene il numero) erano abituati. Dovrò pertanto procedere ad una seconda lettura secondo il metodo abituale.

Qui posso ora fare una sola osservazione di parziale dissenso su alcuni capitoli dei 24 che formano il libro, capitoli ben incastrati l’uno con l'altro e fra i quali non poteva certo mancarne uno sull’Islam in quanto dottrina religiosa. Non sono le mie osservazioni sulle accurate e utili distinzioni all’interno della galassia Islam, ma attengono al rapporto fra Islam in quanto religione e politica in quanto scontro armato fra parti conflittuali. Se sono un buon discepolo di Carl Schmitt, penso di potermi con fondatezza richiamarmi ai luoghi di Carl Schmitt dove egli avverte che il “politico”, la distinzione amico/nemico, con quel che ne consegue, si può trasferire e annidare in ogni àmbito, e particolarmente in quello religioso. Cercando di semplificare, come faccio negli interventi a conferenze sulla teologia islamica alle quali sono invitato e dove cerco di apprendere una teologia diversa da quella cattolica nella quale sono cresciuto, credo che sarebbe ridurre di molto l’idea di Dio che ognuno - credente o non credente - possa avere, se si immagina che un Dio possa servirsi dei suoi fedeli come sicari per ammazzare e scannare altri esseri umani. Se lo volesse, Dio potrebbe sterminare in un solo istante tutto il genere umano senza bisogno alcuno di intermediari, di sicari. Simpatica l'idea di alcuni filosofi antichi, che ammettevano sì che gli dèi esistano, ma escludevano che si interessassero degli uomini, lasciati alle loro miserie e alla loro mortalità.

Detto questo, non obietto all’amico Paolo Sensini che i taglia-goli dell’ISIS non scannino essere umani innocenti (e poco importa se innocenti non fossero) in nome di Allah. Solo che Allah non c’entra nulla, anche se tutto viene fatto in suo nome. Potrei sostituire il nome di Allah con quello di qualsiasi divinità di qualsiasi religione di qualsiasi epoca e di qualsiasi luogo: l’idea di dio attiene alla sfera della coscienza tutta e soltanto individuale e non fa parte della sfera del politico, anche se vi ci si può insediare. Mi spiego con un esempio, ad uso dei miei ex-studenti che possano capitare in questa pagina. Nel 951, in Calabria, l’antica città ellenica di Taureana fu interamente distrutta da un’incursione saracena, costringendo la popolazione superstite a fuggire e fondare nuovi centri abitati, fra cui il mio paese natale, Seminara. Se mi fossi trovato a vivere in quell’epoca, avrei difeso dagli invasori la mia città con tutte le mie forze, o sarei fuggito insieme con i superstiti, ma davanti a me si trovavano scellerati assassini contro cui era più che lecito difendersi, non uomini pii che avessero rapporto con un qualsiasi Dio. Ben avrebbero loro potuto invocare qualunque dio volessero, ma io davanti a me non vedevo nessun dio, ma solo uomini scellerati, nemici, che dovevano essere respinti con difese militare adeguate ed efficaci,

Credo che sia un’astuzia bellica dei neocon fare di tutto per suscitare la convinzione che vi sia scontro di religioni dove invece si tratta di quella stessa strategia del caos di cui Sensini offre un'ottima descrizione. Non si potrebbe fare maggior piace ai neocon e al sionismo se un miliardo e passa di cristiani si mettessero a fare la guerra a due miliardi di musulmani, o viceversa, e ci si scannasse senza fine per il godimento del terzo che ha attizzato e alimentato e finanziato il conflitto in essere e davanti ai nostri occhi senza che per la colpevole complicità dei media il gran pubblico riesca a individuarne le vere cause. In questa opera di svelamento della verità il libro di Paolo Sensini ha il suo grande merito e poca importanza hanno le mie osservazioni sul ruolo effettivo del pensiero autenticamente religioso nell’atroce guerra di cui ancora non si vede la fine.


(segue)