martedì 10 dicembre 2013

Teodoro Klitsche de la Grange: «La legalité nous tue 2»


LA LEGALITÉ NOUS TUE 2

La sentenza della Corte Costituzionale  sul Porcellum è stata accolta da un coro di commenti: alcuni preoccupati, altri (molti) orientati all’immediato e al contingente (convalidiamo i deputati eletti col premio di maggioranza annullato? il Governo che fine farà?); quasi tutti quelli che ho potuto leggere, tra tecnicismi legalitari, hanno sostenuto che la legge elettorale defunta era un insulto alla democrazia ( o almeno lo erano le norme annullate).

É chiara la crisi che si è prodotta e i tentativi di esorcizzarla, spesso facendo giochi di parole o richiamando l’autorità di giuristi di palazzo; ad esempio il Presidente Napolitano ha affermato che le camere sono legittime: sul che siamo in gran parte d’accordo, ma a patto di non credere come si fa equivocando sulle parole, che queste camere siano legali. Non lo sono perché è stata annullata dalla Corte la legge che ne regolava l’elezione. Se lo stesso fosse capitato (anche per mero errore del procedimento elettorale e così via) ad un’elezione comunale gli eletti sarebbero stati mandati a casa e nominato un commissario. Anche per le Regioni il potere di scioglimento – pur se la formulazione dell’art. 126 della Costituzione è restrittiva - il Commissario sarebbe (probabilmente) arrivato. E con esso elezioni a breve. Ciò stante se si da a quell’aggettivo “legittimo” il senso classico nel pensiero e nella dottrina politica indubbiamente queste camere sono illegali ma comunque più legittime (o meno illegittime) di molti poteri che aspirano a governare (e molto spesso ci riescono). E quindi è tutto sommato meglio, nonostante la loro non legalità, tenersele (1).

Data la novità della questione cui si può adattare il “res dura et regni novitas” di Didone, i problemi che pone, sia costituzionali che di teoria della Costituzione sono diversi. Ne esponiamo quelli che, a nostro avviso, sono i più importanti.

Il primo: è sicuro che questa legalità costituzionale, della Costituzione del dopoguerra, riesce a “funzionare” solo al prezzo d’essere violata, e proprio la Corte Costituzionale ce  l’ha confermato: non tanto con la sentenza – non ancora pubblicata -, quanto col comunicato che ne ha accompagnato il dispositivo. Infatti ad applicare i principi generali del diritto – nel caso, il principio c.d. della nullità derivata – il Parlamento eletto col Porcellum annullato è un organo illegale: ma parimenti  illegali sono il Presidente della Repubblica, eletto (la seconda volta) proprio da quelle camere, e il Governo Letta, che dalle stesse ha ottenuto la fiducia. Ma la Corte non ha tenuto conto delle conseguenze giuridiche della sentenza, e ha scritto nel comunicato che “ resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali”.

Quindi un Parlamento eletto con norme incostituzionali (pertanto, ad applicare  coerentemente certe teorie, incostituzionale) sarebbe  abilitato   a dettare le norme per la propria elezione.

A logica andiamo male: e a diritto non meglio, almeno interpretando il diritto come legge o meglio secondo il normativismo imperante. Ma bisogna capire la Corte: fatto il “buso”, tocca cucire il “tacon”. Ma chi lo può fare?

In secondo luogo, scrive Schmitt che l’eccezione è ciò che chiarisce e da un senso alle norme e, ancor più (si può aggiungere) alla situazione normale. “L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione” (2). Il fatto che è la prima volta che una sentenza della Corte de-legalizza il Parlamento, per cui ci troviamo nel pieno di una situazione eccezionale, mai capitata nei sessantacinque anni di vigenza di questa Costituzione. Proprio per questo è idonea a verificare in concreto il pensiero di Schmitt (e altro).

É un fatto che al contrario delle ripetute giaculatorie sul rispetto della legalità, delle ipocrisie sulle eguaglianze, di tutti gli schibboleth dei guardiani dell’attuale costituzione, questa volta la reazione è stata l’opposto.

Fino a ieri, a leggere le opinioni di molti, sembrava che il problema maggiore per la legalità repubblicana fosse la (presunta) satiriasi di Berlusconi. Non era l’euro, non la rapacità della finanza internazionale, né l’incapacità delle strutture burocratiche italiane: l’ordinamento era messo in crisi dall’eccesso di virilità del cavaliere.

Ora, c’è stato un recupero di consapevolezza e serietà. Senza, s’intende, un mea culpa sulle improbabili tesi sostenute fino a ieri. A farne le spese è stata la legalità, e  giustamente. Si sostiene che le camere sono legittime (equivocando tra legalità e legittimità); che occorre conservarle intatte ed operanti per rispetto  al “principio di continuità” dello Stato, il quale è la versione, tradotta nel linguaggio del pensiero debole, del romano salus rei publicae suprema lex. C’è un richiamo alla necessità, da tempo negletta dal costituzionalismo (vetero e neo); per cui è meglio un organo costituzionalmente illegale che niente, perché la necessità impone di rifare la legge elettorale, Il che conferma quanto sosteneva – tra gli altri – Santi Romano – che “La  necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale e assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che  necessitas non habet legem. Può anche implicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso, salus rei publicae suprema lex”, e quindi la legalità cede alla necessità (anche ad una necessità caratterizzata dall’essere  contra-legem).

E c’è soprattutto, più o meno esternata, una preoccupazione per l’esistenza e l’azione dei massimi organi costituzionali, a due dei quali la Costituzione riconosce il carattere di rappresentanza (il terzo, cioè il governo, lo è anch’esso, anche se non denominato tale). Entrambi legalmente revocati in dubbio (e il terzo anche). Ma senza i quali uno Stato non ha esistenza ed azione politica. Il fatto che queste siano ritenute “prevalenti” sulla legalità (costituzionale) ne è la conseguenza: l’essenza della costituzione è ciò che le assicura. Ogni comunità politica organizzata ha valori, principi, norme, che variano in funzione dei tempi, del luogo, delle istituzioni (Montesquieu e de Maistre, tra gli altri): tutti diversi. Solo l’Italia in un secolo e mezzo di unità politica di “tavole dei valori” ne ha cambiate (almeno) tre. Ma nessuna sintesi politica può esistere neanche per un periodo breve se non ha un potere che l’organizzi come totalità e ne assicuri l’unità e l’agire (Hobbes ed Hegel, tra i molti). Quando quello è messo in forse, cedono e se necessario si derogano o si sospendono regole, norme  principi e “tavole di valori”. “L’esistenza dello Stato dimostra qui un’indubbia superiorità sulla validità della norma giuridica”. Come le reazioni “a caldo” alla sentenza hanno provato.

Anche i “principi” non sono intesi più come, fino a pochi giorni fa, nella dottrina ufficiale. Erano principi di “giustizia” regolativi dei conflitti tra norme e valori di cui la Costituzione serve a garantire la coesistenza (pacifica) e quindi la composizione dei conflitti nel pluralismo di valori ed interessi. Ma adesso è capitato di leggere in un’intervista ad un valente costituzionalista che il principio da salvaguardare è quello della continuità della sintesi politica (a servirsi della terminologia di Miglio): considerazione ineccepibile. Il che significa (implicitamente) che questo principio prevale su quelli di “giustizia”; non foss’altro perché una comunità prima di essere giusta dev’essere almeno esistente (in senso politico). E, ancor più che mentre quelli hanno un senso normativo, questo ha come fondamento (e causa finale) l’esistente, e a questo – esclusivamente – si rapporta.

Anche il rapporto tra coercizione e norma è stato rimesso sui piedi, cioè nel senso giusto: se si intacca l’organizzazione che assicura (più o meno, nel caso dell’Italia contemporanea) l’applicazione del diritto attraverso la forza, questo viene meno, essendogli connaturale la coazione. Certo, può durare – poco – anche senza un parlamento; ancor meno senza un governo. Neppure un attimo senza potere amministrativo. E questo, prima o poi, salvo colpi di stato, segue la sorte degli altri.

Di conseguenza bene hanno fatto la Corte Costituzionale e il Presidente della Repubblica a identificare nel Parlamento non-legale l’organo destinato a “riempire” il buco legislativo. Non serve sostenere con argomenti da causidici che questo è l’organo che ha comunque  legalmente la funzione di legiferare anche sulle norme dichiarate illegittime  dalla Corte: in questo caso, diversamente da tutti gli altri, è venuta meno proprio la legalità dell’organo.

Evidentemente per capire tutto ciò la legalità è inutile. Meglio rifarsi alla legittimità, ed è evidente che, per quanto eletto in modo illegale, il Parlamento attuale, anche se fosse un “insulto alla democrazia”, è, tra i tanti che il popolo italiano subisce frequentemente, uno dei più lievi. Nella competizione tra poteri forti, interni ed esterni, che cercano di conculcare la volontà popolare senza assumersene la responsabilità e soprattutto senza sottoporsi alla verifica del consenso elettorale, è più titolato un organo eletto malamente, che – a parte ipotesi fantapolitiche – organi, anche statali, non elettivi.

E’ un inchino che la legalità fa alla legittimità (democratica). E che conferma come, in specie nelle situazioni eccezionali, nel Gouverment de fait di Hauriou, nell’Ausnahmezustand di Schmitt, è la legittimità a farsi carico del sostegno a un potere che ricostruisca organi e condizioni costituzionali legali di esistenza ed azione politica.. Cioè l’essenza della costituzione, irriducibile a normativismi e legalità zoppe. Come diceva Odilon Barrot, La legalité nous tue; non resta che sperare nella volontà e nella necessità dell’esistenza politica.

Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE

(1) Scriveva Hauriou che i governi di fatto (cioè non legali) e i loro atti, sono conservati perché “sono meglio dell’assenza totale di governo”; questo perché il potere è cosa naturale e d’origine divina “tale è l’insegnamento della morale teologica; tale quello della saggezza  e tale quello della pratica” Prècis de droit constitutionnel, Paris 1929, pp. 32-33.

(2) E prosegue: “Un teologo protestante che ha dimostrato di quale vitale intensità può essere capace la riflessione teologica anche nel XIX secolo, ha detto: «l’eccezione spiega il generale e sé stessa. E se si vuole studiare correttamente il generale, bisogna darsi da fare solo intorno ad una reale eccezione. Essa porta alla luce tutto molto più chiaramente del generale stesso»…” Politiche teologie, trad. it. Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 41.

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