lunedì 21 maggio 2012

Teodoro Klitsche de la Grange: recensione a: Massimo Fini, La guerra democratica, Chiare Lettere, Milano 2012, € 14,90

Pubblichiamo senza indugio questa recensione di Klitsche de la Grange a questo nuovo libro di Massimo Fini, che ci accingiamo adesso ad andare a comprare nella vicina libreria feltrinelli, che offre per giunta degli sconti. Aggiungeremo poi le nostre considerazioni a quelle di Klitsche de la Grange che pubblica il testo anche sul numero di “Behemoth” in uscita. Avverto i Lettori di questo blog che la mia scarsa presenza negli ultimi tempi non è dovuta a pigrizia o impedimenti. Intanto, la conduzione del blog è in buone mani e gli interventi che escono sono eccellenti, anche se limitati al ristretto pubblico di “Civium Libertas”, ben lontano dai nove milioni di telespettatori di cui pare godano Fazio e Saviano: non siamo mai stati parte di quel pubblico e dei personaggi citati abbiamo troppo poco stima per soffrirli poco più di qualche minuto. Il tema affrontato da Fini e da Klitsche de la Grange è della massima importanza. Noi siamo stati sul campo: in piazza St. Paul, a Londra, dove la piazza era occupata giorno e notte da persone che certamente avevano in testa una loro idea di democrazia e di sovranità popolare. Non abbiamo ancora letto il libro di Massimo Fini e non ne diciamo nulla al riguardo. Ma se la comparazione è con ciò che succede in Medio Oriente, non posso non osservare questa profonda discrepanza su cui bisogna molto riflettere: i “ribelli” di Libia e ora di Siria sono armati dai nostri governi ed anno le mani sporche di sangue. Riporto questo sconvolgente testimonianza di Joe Fallisi, appena tornato dalla Siria, dove è stato insieme a Paolo Sensini ed altri:
 «Ahmed mi spiega anche che i datori di lavoro del Qatar, della Turchia, dell’Arabia hanno stabilito un prezziario delle imprese: 50 euro per sparare, idem per un rapimento, 100 per sgozzare, e così via. E mi racconta una storia che risale a un anno fa. Agenti qatarioti contattano a Duma il proprietario di una copisteria e lo finanziano affinché paghi (10 euro a testa) criminali e disoccupati per farli partecipare ai raduni antigovernativi. E’ una massa di gente che si abitua a ricevere quel sussidio quasi quotidiano. Ma nonostante l’impegno, dopo un po’ di mesi il clima cambia e migliora. Allora i finanziamenti stranieri cessano, e il commerciante, a sua volta, non dà più un soldo a nessuno. Inferociti, i manifestanti lo minacciano e gli rapiscono la moglie e i figli. Lui vende casa e negozio, paga il riscatto e fugge coi suoi familiari in Qatar, dove vive tuttora» (Fonte).
Ebbene, in Londra e negli Usa vengono sgombrate con la forza le piazze occupate da cittadini pacifici, disarmati, che rivendicano il loro diritto di popolo sovrano, che proprio nella piazza, nella classica “agorà” dei greci antichi, manifesta la sua presenza reale come popolo e rivendica il suo potere costituente. In nome dello stesso potere costituente i “nostri” governi, che dicono di rappresentarci (ma non è così!), non si fanno scrupolo di commissionare i più feroci delitti per mano di criminale e tagliagole prezzolati allo scopo di far cadere un governo legittimo, la cui unica vera colpa è di non essersi voluto piegare al potere sionista USrael. In democrazia sono importanti i valori simbolici. Mi sono trovato in Londra a partecipare ad una imponente manifestazione di popolo con un lunghissimo corteo che si snodava per le vie della città. Avrebbe dovuto concludersi in piazza St. Paul, occupata con tende da parecchie settimane. Grande sarebbe stato il valore simbolico del corte che terminava nella piazza già occupata. Credo che lo abbiamo capito anche altri, quelli che detengono il potere reale. Infatti, non è stato concesso dalla polizia di poter raggiungere la piazza. Vi sono stati momenti di tensione, ma per fortuna non vi sono stati esiti cruenti. Anche in Italia, vi è un problema di democrazia reale, di sovranità da recuperare, di potere costituente. La “teoria” si preoccupa – come ieri in un convegno universitario – di analizzare i risvolti giuridici dell’occupazione di un teatro o degli “usi civici” del tempo antico, ma perde totalmente di vista il valore politico dell’occupazione permanente di una piazza e del ritorno della sovranità al popolo che in quella piazza si riunisce. Tutte le organizzazione “rappresentative” (partiti, sindacati...) insistono ancora con il turismo politico, consistente nel far passeggiare per le strade i rispettivi convocati. Finisce sempre allo stesso modo: il corte arriva davanti al palazzo del potere, dove sale una delegazione, che poi ritorno per dire che hanno ottenuto un importante risultato: fra quindici giorni si incontreranno di nuovo e saranno ricevuti. Il movimento “occupy” dice e insegna un’altra cosa: occorre occupare le piazze e starci in permanenza fintantoché il sistema non sarà abbattuto ed edificato un nuovo ordine costituzionale.

È chiaro?
CIVIUM LIBERTAS

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Massimo Fini, La guerra democratica, Chiarelettere (www.chiarelettere.it), Milano 2012, pp. 272, €14,90.

La casa editrice Chiarelettere prosegue, con questo libro, nel contestare e demolire gli idola (tribus, fori, specus) che il pensiero unico e i mass media da quello intruppati ci somministrano in quantità del tutto sproporzionata alla consistenza e verosimiglianza dei medesimi.

Argomento del libro – che è una raccolta di scritti dell’autore comparsi sulla stampa dalla fine degli anni ’80 ad oggi – è la diffusione delle guerre democratiche, (variamente denominate, per lo più in inglese, rigorosamente evitando il termine “guerra”) le quali si sono rivelate, per lo più, poco (o punto) utili a realizzare l’obiettivo politico esternato: la protezione dei diritti umani e/o la diffusione della democrazia. Difficili da realizzare in comunità che non hanno la stessa storia (e radici) del mondo occidentale. Non infrequentemente non sono riuscite nemmeno a realizzare l’obiettivo – meno ambizioso – di far cessare i conflitti locali, o, quanto meno, di ridurne gli aspetti e le conseguenze peggiori.

In realtà le guerre “democratiche” sono affette da alcune malformazioni congenite, cioè presenti nel DNA di questo tipo di guerra, come ricavabile dall’esperienza degli ultimi secoli e dai giudizi di tanti pensatori.

Ad esempio: la pratica di far guerra per esportare regimi politici è iniziata – nell’epoca contemporanea – con il decreto La Révellière – Lepeaux, approvato dalla Convenzione francese nell’inverno 1792 (“guerra ai castelli, pace alle capanne”). Il tentativo finì in una serie di guerre partigiane (di “religione” le definì Benedetto Croce) e di regimi di occupazione militare, politicamente satelliti della Francia.

Le buone intenzioni della Francia rivoluzionaria e poi napoleonica avevano il limite di non essere apprezzate dai destinatari di tanto affetto, spesso caduti in battaglia per difendere il loro modo d’esistenza. C’è il sospetto che, se questo si è verificato tra popoli facenti parte tutti della stessa civiltà (o cultura) cristiano-occidentale, a maggior ragione si dovrà ripetere con popoli di tutt’altra cultura. Peraltro, come notava Gaetano Mosca, la caratteristica fondamentale per l’affermazione di un regime politico “moderno” (nel senso di borghese-rappresentativo) è che si fondi sulla convinzione diffusa della separazione tra potere temporale e spirituale. Connotato tipico del cristianesimo, ed ancor più di quello occidentale: mentre è sconosciuto o debolmente fondato in altre culture.

In genere queste guerre hanno un’altra caratteristica, questa in contrasto con il diritto internazionale praticato fino a circa un secolo fa: mentre, a quei tempi, le guerre si concludevano con un trattato di pace, oggi si concludono con un processo (ai vinti, s’intende). Conclusione inutile, se non fosse anche tragica e irrispettosa dei diritti (dei vinti). E non si parla tanto dei diritti “umani” ma del diritto “proprio” del nemico, che consiste in  primo luogo a poter essere lecitamente tale, cioè pari in pace e in guerra. Se Kant e Vattel consideravano naturale che la guerra si concludesse con un trattato di pace e che questo comportasse la “clausola d’amnistia” (cioè la rinuncia a giudicare gli ex nemici per i reati commessi nello stato di guerra) ciò era l’applicazione del principio del diritto internazionale che par in parem non habet jurisdictionem; che invece ha il superiore verso l’inferiore.

Processare il nemico è quindi affermare che il Giudice (il vincitore) è il protettore e il vinto è il protetto; al punto che può processare i vinti. Se a farlo poi sono i governanti dei paesi liberati (cioè quelli insediati dal vincitore) la violazione al diritto internazione è solo formalmente sanata, perché il mondo intero è a conoscenza che quei governi sono la longa manus degli occupanti: quindi, sul piano sostanziale, non cambia.

E sempre contraddicendo a quanto un tempo praticato, è diventato normale che si faccia guerra a qualcuno non perché ha violato i diritti o interessi dello Stato aggressore (o dei cittadini dello stesso) ma perché ha violato quelli di altri (meglio se trattasi di “diritti umani”). La prudenza di un teologo-giurista come Francisco Suarez – uno dei “padri” del diritto internazionale moderno – già condannava radicalmente questa prassi (facilissimo a convertirsi in protesta): “ciò che taluni dicono che i re supremi hanno il potere di reprimere gli illeciti commessi in tutto il globo, è del tutto falso, e viola ogni competenza di poteri ordinati; tale potestà non è stata data da Dio, e non è giustificabile razionalmente”.

C’è molto altro in questo libro che le considerazioni sopra svolte: dall’osservazione che “l’Occidente, in quanto cultura superiore (moderna declinazione del razzismo), portatore di valori universali, i suoi, ha il dovere morale di intervenire ovunque ritenga siano violati” a quella che “la ‘guerra democratica’ evita accuratamente il combattimento, che della guerra è l’essenza, perdendo così, oltre a ogni epica, ogni dignità, ogni legittimità, ogni etica e persino ogni estetica”.

Nel complesso un libro che ricorda come, in politica (ma non solo), le vie dell’inferno sono lastricate di “buone intenzioni”: e spesso solo esternate.

Teodoro Klitsche de la Grange

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