giovedì 2 febbraio 2012

Le politica e la morale in Max Scheler in una recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Max Scheler
Max Scheler, Politica e morale (con saggio introduttivo di L. Allodi), Morcelliana, www.morcelliana.com, Brescia 2011, pp. 174, €12,00

Come scrive Scheler nelle prime pagine “Quando si parla di un conflitto tra «politica e morale», si può alludere al conflitto tra i fini, le regole, le leggi a cui l’agire politicamente ed eticamente significativo si ispira o deve ispirarsi; ma si può anche alludere al conflitto vissuto in prima persona, per esempio dall’uomo di Stato, dal cittadino ecc.” e, in tal senso “possiamo vedere nell’uomo di Stato in primo luogo l’uomo in quanto uomo privato, che sottostà alle stesse leggi morali di un altro uomo. In quanto statista questo uomo ha poi un dovere professionale morale, che appartiene senz’altro ai “doveri morali individualmente validi”, di vivere e agire per il bene generale dello Stato; un’altra, e “diversa questione, che in realtà è la questione centrale vera e propria, è che cosa si determina nel rapporto dello Stato in quanto Stato e dell’uomo di Stato, nella misura in cui egli si identifica con l’interesse dello Stato, con il potere statale, con gli altri Stati e uomini di Stato” di conseguenza “Così potrebbe essere che proprio il primo dovere etico e professionale dell’uomo di Stato sia di agire in quanto uomo di Stato, indipendentemente da obblighi morali e di andare oltre i limiti della morale e del diritto”.

A tale problema, prosegue l’autore, si sono date diverse soluzioni, distinte in quattro concezioni fondamentali “1° tipo: subordinazione della morale alla politica, il che significa: ciò che chiamiamo “regole morali” non sono altro che l’esito di lotte – politiche ed economiche – di classe e di potere (come pensano Hobbes e Marx)... 2° tipo: subordinazione della politica alla morale. Questa concezione, monistica al pari della precedente, si presenta come: A. “politica negativa”, ovvero della non-violenza, B. in due versioni: a) la morale stabilisce positivamente i fini della politica, oppure b) limita quest’ultima nello spazio del moralmente lecito. La politica è «morale applicata»;... 3° tipo: tra morale e politica non esiste unità, nè subordinazione unilaterale: lo statista non è vincolato ad alcuna legge morale, anzi può trasgredirla arbitrariamente in favore della potenza e del benessere del proprio Stato. Egli è tenuto ad agire basandosi esclusivamente sugli interessi oggettivi di quest’ultimo, cioè secondo la “ragion di Stato”. Le norme morali godono certo di autonomia, ma sono valide soltanto per gli individui. Questa soluzione strettamente dualistica ha preso avvio da Niccolò Machiavelli, il suo più importante e incisivo portavoce; ... 4° tipo: esistono due tipi essenzialmente differenti di morale: la morale privata e quella di Stato. Lo Stato non può mai essere subordinato alla morale privata, o «moralità soggettiva». Il primo a tracciare questa separazione tra morale privata e morale di Stato è stato Hegel”.

Quindi due concezioni monistiche e due dualistiche, che Scheler analizza compiutamente. Critica le prime due: la prima gli appare, subordinando la morale alla politica come una “politica in piccolo” per la quale la condotta morale degli individui è soltanto un agire secondo un “egoismo beninteso”; la seconda riduce la politica alla morale, ritenendo quella come “morale in grande”. Conclude che “Una subordinazione della politica alla morale è qualcosa di falso, tanto quanto la subordinazione della morale alla politica. La morale non può dire ciò che si deve fare in politica, né ciò che non si deve fare. La politica ha una sua propria e autonoma legalità, e soltanto il comune riconoscimento di un ordinamento oggettivo di valori e del suo corrispondente ordinamento di beni giuridici – secondo lo stadio di sviluppo dell’ethos dell’epoca – può annodare etica, diritto e politica”. Quando prende in considerazione il terzo tipo (cioè il “problema Machiavelli”) Scheler sostiene che “L’idea fondamentale di questo sistema è: vi sono “norme morali” indipendenti dalla politica (e dalle sue autonome leggi) (in opposizione al primo tipo): L’uomo di Stato può violare queste norme a suo assoluto piacimento se questo: 1. è a favore dell’interesse oggettivo dello Stato, della cosiddetta “ragion di Stato”; 2. corrisponde al suo interesse a far carriera . L’unica cosa dunque che deve vincolare l’uomo di Stato è l’interesse per l’espansione della forza del suo Stato e l’interesse per la sua propria posizione di forza all’interno di questo. La forza è in sè un bene. E nulla esiste al di là della politica e della morale”; questo in sintesi, ma meriterebbe un esame più approfondito di una recensione il confronto del filosofo tedesco col grande fiorentino.

Sostiene Scheler che a stento nella storia l’immagine di un uomo abbia avuto giudizi così diversi quanto quelli formulati su Machiavelli. Lo stesso Scheler ne fa un profilo in parte coincidente con quello di Croce, in parte tributario a Schmitt: le idee di Machiavelli sono quelle “di un animo ardente, nato in un tempo caotico”. Si basa da un lato sulla concezione decisamente naturalistica dell’uomo, in particolare dell’uomo “en masse”: l’uomo, per quanto possegga la ragione, è per lui un essere istintivo, e il suo più forte istinto è quello che lo predispone all’accrescimento del suo potere, della sua ambizione”; ma a questo si associa un ideale di umanità che mira in alto. Ciò che il segretario fiorentino ammira ed esalta è la “virtù” “come forza vitale, autocoscienza che si isola, fierezza, disprezzo per la massa, per la mediocrità (distanza), magnanimità nella vittoria, capacità di sacrificarsi per ciò per cui ci si adopera («un uomo di Stato non può mai pensare a se stesso»), disprezzo per la morte, pienezza erotica, misura, saggezza  (come circospezione), energia, senso della gloria, immortalità terrena, volontà di responsabilità e di dominio, orgogliosa indifferenza per la vita e per la felicità”.

E conclude Scheler “E’ su questa base che sorge la teoria di Machiavelli sul rapporto fra “politica e morale”: la necessità del destino e gli interessi, divenuti perciò oggettivi, dello Stato da lui teorizzato, esigono che l’uomo di virtù non possa essere anche “buono” in senso morale”.

Il merito di Machiavelli, secondo Scheler, resta legato alla separazione profonda e rigorosa tra politica e morale individuale, ma “Il sistema dualistico di Machiavelli è falso non perché non subordina la politica alla morale, come dicono i sostenitori del diritto naturale, ma perché non riconosce il sistema di valori oggettivi che sopravvive alla morale e alla politica e che congiunge politica e morale nella «determinazione dell’uomo» e nell’idea del bene; un sistema che possiede dignità cosmica, anzi metacosmica”. Passando all’altra concezione dualistica, l’autore sostiene “Dal momento che l’ordinamento dei valori è identico tanto per il giudizio di valore e l’agire del privato cittadino, quanto per ‘l’uomo di Stato’, sarebbe in se possibile far discendere, da quest’ordine dei valori, da un lato norme morali per lo Stato e per i suoi rappresentanti, dall’altro norme morali per il singolo individuo. Un tale tentativo è iniziato con Hegel”. Ma secondo Scheler la concezione hegeliana è improponibile “É dannoso tanto demonizzare lo Stato quanto divinizzarlo. In Machiavelli l’uomo di demoniaca virtù ha voluto farsi Dio; in Hegel l’idea divina stessa è divenuta il demone dell’«astuzia della ragione».

Hegel ha «divinizzato» lo Stato, ma ciò che non sopporta divinazione diventa facilmente diabolico. Lo Stato non è né divino, né diabolico; ma daimonico.

Hegel ha privato la «moralità soggettiva» della giusta serietà rispetto a ciò che egli definisce «eticità oggettiva» dello Stato”.

Passando ad esporre la propria concezione l’autore ne fissa i concetti fondamentali, che sono “a) Comportamento politico e comportamento morale (e così pure quello giuridico) si escludono in modo essenziale. Nessun tipo di politica sottostà a norme morali – né la politica estera né quella interna.
b) É vero tuttavia che comportamento politico e comportamento morale sono insieme subordinati alla “specifica determinazione dell’uomo”, allo scopo di realizzare un ordinamento di valori di natura oggettiva indipendente dalla soggettività e dall’arbitrio umani. Politica e morale risultano infatti radicate in un’assiologia universale”.

Tale  assiologia determina in un ordinamento dei valori tanto la politica che la morale. Rispetto a quanto s’intende di solito (in ispecie nella fase attuale di decadenza dell’Italia) per valore, morale e politica, la concezione di Scheler è ben diversa. La politica “è aspirazione al potere, è volere fondato sull’istinto di potere con lo scopo di realizzare valori positivi nei limiti dell’ordinamento dei valori che predomina in una collettività”; la morale “intesa come sistema prescrittivo, è una tecnica per far sì che la gerarchia di valori che anima l’ethos collettivo divenga attiva nella vita privata, tra i singoli individui”.

Quanto alla gerarchia dei valori “La politica ha a che fare, in primo luogo, con i valori vitali della collettività: non con la «felicità del maggior numero», né con i valori spirituali. Esistenza vitale e libertà vengono prima di tutto il resto”; per cui la “politica non è in alcun modo subordinata alla «legge morale»: l’agire morale è essenzialmente differente dall’agire politico, anche nel singolo. L’agire politico e quello morale, e il diritto, tuttavia sono subordinati all’ordine oggettivo dei valori (assiologia).

La politica è aspirazione al potere, è un volere fondato sull’istinto di potere con il fine di realizzare valori positivi nei limiti della gerarchia di valori che domina una collettività”; e prosegue “La politica non può mai essere vincolata a «norme» (corrispondenti all’ordine dei valori). Le norme si modificano, mentre l’ordine dei valori resta fisso”. Da ciò si può vedere di quanto differisca la concezione di Scheler da quelle di qualche costituzionalista à la page o dei moralisti da rotocalco. Da quest’ultimi per la rigida distinzione tra politica e morale, cui la prima non è subordinata, ma ambedue trovano il fondamento nell’ordinamento dei valori; dai primi perché nella gerarchia dei valori pone come primari (per la politica) esistenza vitale e libertà (salus rei publicae suprema lex), e solo secondariamente, quelli ricavabili dai “cataloghi” dei diritti fondamentali espressi (o desumibili) dai testi costituzionali. Anche se la    fissità dell’ordine dei valori è anch’essa, contrariamente, al pensiero dell’autore, relativa, anche se meno “mobile” delle norme. Solo per ricordare l’ordinamento dell’Italia unita, questo ha cambiato, in un secolo e mezzo, almeno re “tavole dei valori” costituzionali (in corrispondenza del cambiamento delle costituzioni-regimi politici). Scheler stigmatizza ripetutamente la strumentalizzazione della morale a fini politici “Così le guerre di intervento e la politica di Locarno sono state celebrate come «principi morali», o come «libertà delle nazioni», quando in realtà sono espressione di interessi politici nazionali”; e ricorda “La «politica dei sentimenti» è soltanto non-politica e cattiva politica, allo stesso modo della «politica di principio», «politica etica», «politica ideale». Esiste una sola politica: la politica di potenza e realistica, una politica di interessi al servizio dell’ordinamento dei valori. Il puro Logos in politica è ideologia, l’ethos morale ipocrisia. Il potere: ecco l’essenza, non certo un accidente, della politica”. Così il bene del mondo non è il fine dell’uomo di stato “La teoria per cui l’uomo di Stato dovrebbe direttamente e positivamente assumere come fine il bene del mondo è insensata. Egli non deve fare nulla che contravvenga la solidarietà della sua cerchia culturale e dell’umanità”.

L’uomo politico – sostiene Scheler sulla base di una distinzione ricorrente nella filosofia occidentale e nella teologia cristiana – si “trova sottoposto a un particolare dovere professionale (eventualmente un dovere d’ufficio). Egli (anche come politico) soggiace al generale ordinamento dei valori e all’essenza di valore individuale del suo popolo”; per cui “un politico moralmente buono non è colui che nel suo intento politico tiene conto delle leggi morali private, ma colui che esercita la sua professione «bene» e «con coscienza»... Magnanimi, «altruisti» possiamo esserlo in prima persona, non per altri. Tanto meno per lo Stato”, che ricorda assai da vicino l’applicazione che Max Weber fa, in politica, della distinzione tra etica delle responsabilità ed etica dell’intenzione. Invero “nella politica l’insuccesso è il tribunale che giudica il politico e anche la sua etica professionale. la sua buona volontà è priva di significato”; inoltre L’uomo di Stato non può essere subordinato a «norme morali» universalmente valide”. Anche perché è un’illusione pensare di poter “abolire” la sovranità: “Sempre e in ogni tempo esiste e deve esistere un «soggetto sovrano dell’agire politico», anche se questo un giorno non sarà più lo «Stato nazionale» moderno, ma una unione di alcuni Stati. Un trasferimento della sovranità da organizzazioni più piccole ad altre più grandi (Stati federati) non può essere cambiata con la sua scomparsa”. L’ultimo capitolo del libro è un insieme di considerazioni sull’applicazione della concezione dell’autore alle situazioni concrete, con particolare attenzione a quelle ricorrenti nel periodo della Repubblica di Weimar (o in quella, immediatamente precedente, del Reich bismarckiano).

Alcune sono dei ritratti non “datati” su Weimar ma eterni: ad esempio il demagogo “puro (Cleone, a differenza di Pericle) è l’uomo della presunzione, della retorica. Egli non è la «guida», ma il «guidato», che si limita a tutelare la cosiddetta direzione di sviluppo del suo partito o della massa. Egli cerca potere senza responsabilità, all’opposto di chi si lambicca il cervello per avere responsabilità senza potere” o lo statista “Il grande uomo di Stato, Cesare, Napoleone, Federico il Grande, Bismarck, fu sempre e ovunque, all’opposto dell’adulatore, uno che disprezzava la massa”. O la distinzione tra l’uomo di Stato che “deve sostenere il principio fondamentale del primato della politica rispetto all’economia e l’indipendenza della politica suprema dagli interessi delle grandi formazioni economiche” mentre il capo economico “pensa necessariamente in termini privati, non pubblici”; ed è questo il motivo che lo rende – scrive Scheler – “inadatto al ruolo di un uomo di Stato”. In ciò divergendo da Marx Weber che vedeva l’antitesi dello statista nel burocrate e notava – mutatis mutandis – delle analogie tra capo politico e imprenditore, diversi per funzione e contesto, ma accomunati dalla responsabilità. Una lettura assai interessante, che arricchisce, su un tema di costante attualità, la conoscenza del dibattito politico-filosofico nella Germania di Weimar.

Teodoro Klitsche de la Grange

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