Sono imbarazzato
nel proporre ai miei lettori un concetto già esposto pochi mesi orsono (v.
“Salvini e Montesquieu” e “Processare il politico”) relativo al carattere degli
ultimi contrasti tra uffici giudiziari e potere governativo: di concernere
materia oggettivamente politica. A differenza di gran parte dei processi a
governanti nell’ultimo trentennio, dove li si accusava per lo più di reati a
carattere non politico (furto, appropriazione indebita, violenza carnale,
evasione fiscale, ecc. ecc.).
Invece nei casi
di rilevanza mediatica degli ultimi mesi il connotato comune è che la materia è
squisitamente politica. Si tratta
cioè della sicurezza dei cittadini e della difesa del territorio dello Stato.
Come scriveva Montresquieu:
“In ogni stato
ci sono tre tipi di poteri quello legislativo, il potere d’esecuzione delle
cose dipendenti dal diritto delle genti, il potere esecutivo di quelle che
dipendono dal diritto civile…
Per il secondo
(di questi) fa la pace e la guerra, nomina e riceve ambasciatori, mantiene la sicurezza, previene le invasioni.
Per la terza, punisce i crimini, e giudica le liti dei sudditi (particuliers)”.
Ossia è attività
che da secoli se non da millenni è
considerata di competenza del potere esecutivo. E V.E. Orlando notava che la
differenza di “natura” o di “materia” era soprattutto differenza di scopo: si operavano deroghe e talvolta rotture
dell’ordinamento, al fine di soddisfare una necessità pubblica.
A differenza
dell’attività giudiziaria il cui nocciuolo fondamentale è accertare la
conformità di una condotta ad una regola onde è essenziale la correttezza del
giudizio e l’imparzialità del giudice (almeno se si vuole una giustizia reale). E la cui conformità allo scopo
(cioè l’opportunità) è poco o per
nulla rilevante.
Tali funzioni e
attività vantano dei brocardi latini che le sintetizzano. Per la prima questa è
salus rei publicae suprema lex esto,
ossia lo scopo prevale sulla regola, l’esistente sul normativo e il criterio
principe per valutarla è il risultato; dell’altro fiat iustitia, pereat mundus, per cui il diritto dev’essere
applicato, anche se provoca danni e il criterio è la conformità della decisione
giudiziaria alla norma applicanda.
La conseguenza è
che se da una applicazione esatta della legislazione derivano gravi danni è
corretto sopportarli. Ad esempio qualche migliaio di morti affogati nel
mediterraneo, problemi interni di sicurezza, miliardi di euro per l’accoglienza
cedono rispetto al gradino alto dei valori costituito dalla giustizia, (qua)
intesa come conformità al diritto.
Al contrario se
si pone sul gradino superiore l’altro brocardo, è il contrario.
Ma tenuto conto
come anche nell’ordinamento giuridico l’esistenza precede la regolamentazione
(si può regolare ciò che non esiste? È una pratica inutile) la risposta non può
essere che suprema lex prevale. E
questo dovrebbe dirsi la sinistra che, a quanto pare, è tutta propensa al pereat
mundus (verso il quale ha una certa
propensione). Ma finché col non dirlo o appesantendo il proprio argomentare con
clausole e cavilli si distoglie l’attenzione dall’essenziale, va tutto bene.
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