martedì 27 settembre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Guerra ed ascesa agli estremi"

Non è confortante la decisione di Putin di mobilitare una parte dei riservisti russi.

Contrariamente alla previsione dei media mainstream che le sanzioni avrebbero piegato l’aggressore, il quale era anche una “tigre di carta”, la tigre ha deciso di usare ambedue le zampe per combattere. Spinto a ciò dalla resistenza ucraina, superiore (e più determinata) del previsto, al punto di sviluppare delle controffensive locali che hanno avuto – negli ultimi tempi - successo. Data la limitatezza delle forze russe già messe in campo, la decisione – tenuto conto della perdurante volontà russa di perseguire l’obiettivo politico - è stata quella logica: aumentarle. Anche perché se le sanzioni riuscissero a piegare la Russia come asserito dai giornaloni, nessuno si azzarda ad aggiungere quando. E se si procrastina a qualche anno l’effetto delle stesse, Putin avrà tutto il tempo per occupare l’Ucraina (ma sembra non volerlo - e giustamente); dopo di che le sanzioni farebbero probabilmente la stessa fine di quelle degli anni ’30 all’Italia: essere revocate.

Quel che più interessa (e preoccupa) di tali previsioni à la carte è d’esser contrarie alla logica della guerra, per cui era prevedibile che il prosieguo delle ostilità  (anche) con la comminatoria delle sanzioni, avrebbero attizzato e non spento il conflitto.

L’aveva previsto due secoli fa Clausewitz, formulando quale “legge” della guerra l’ascesa agli estremi, ossia la tendenza del conflitto ad aumentare d’intensità. La guerra, scriveva il generale, è un atto di violenza e non c’è limite alla manifestazione di tale violenza. Ciascuno dei contendenti detta legge all’altro, da cui risulta un’azione reciproca che, nel concetto, deve logicamente arrivare agli estremi. Ossia una guerra logicamente tende a divenire assoluta, cioè senza limiti né di spazio né soprattutto di condotta. L’osservanza delle regole è subordinata al conseguimento della vittoria. Le restrizioni, come il diritto internazionale “non hanno capacità di affievolirne essenzialmente l’energia”.

Questo della guerra assoluta tuttavia è, secondo la terminologia weberiana un “tipo ideale”. Nelle guerre concrete “le probabilità della vita reale si sostituiscono alla tendenza all’estremo” per cui la condotta della guerra si sottrae (in parte) alla legge dell’ “ascensione agli estremi”.

Questo effetto moderatore della realtà, di cui scriveva Clausewitz, funziona; tuttavia può essere controbilanciato dal caricare di significati ideologici, religiosi, e quanto altro il conflitto, ed in particolare il nemico dipinto come criminale, pazzo, avido; onde la guerra diventa un atto di giustizia, volta a castigare un delinquente.

Mentre il fine della guerra “razionale”, come già scriveva S. Agostino, è la pace “la pace è il fine della guerra, poiché tutti gli uomini, anche combattendo cercano la pace… Perfino coloro che vogliono turbare la pace in cui si trovano… Non vogliono dunque che non vi sia la pace, ma vogliono la pace che vogliono loro”; presupposto della pace è trattare con il nemico, e quindi il di esso riconoscimento come justus hostis. La guerra dei giornaloni (e di parecchi politici) realizza proprio l’effetto contrario all’avvio di negoziati di pace.

A quanto sopra si può opporre che le misure prese dalle potenze occidentali, sia le sanzioni che le forniture militari a sostegno dell’Ucraina possono favorire nel segno della “guerra reale” lo squilibrio di forze tra i belligeranti e così favorire i negoziati.

Questi costituiscono (gran parte) degli strumenti di cui la politica può servirsi per smorzare le guerre. E il “fattore” di ri-equilibrio è sicuramente da valutare come mezzo per favorire i negoziati. Ma hanno altresì il difetto di procrastinare (al limite evitare) la conclusione della guerra per debellatio della parte più debole.

Questo se non ci sia da una parte e dall’altra  la volontà di voler porre termine alla stessa.

Perché come scriveva il generale prussiano (e non solo) fare la guerra si fonda sulla volontà dei contendenti, quella dell’aggressore di realizzare una pace diversa, e quella dell’aggredito nel conservare l’ordine preesistente.

Lo squilibrio dei mezzi, la stessa occupazione totale del territorio dell’aggredito spesso non ne comportano la cessazione, come provano le guerre partigiane.

E accanto, occorrerebbe un terzo che favorisse la pace, essendo credibile, autorevole ed equidistante; il quale nella specie, manca. Ma questa è un’altra storia.

 

mercoledì 21 settembre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Democrazie liberali, "illiberali" e in via di implosione"

È un classico del pensiero politico liberale il discorso di Benjamin Constant su “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni” dove il pensatore svizzero distingueva i due generi di libertà “le cui differenze sono passate sino ad ora inosservate, o per lo meno non sono state rimarcate a sufficienza. La prima libertà è quella il cui esercizio era così sentito presso i popoli antichi; l’altra è quella il cui godimento viene considerato particolarmente prezioso all’interno delle nazioni moderne”. La prima “libertà” “consisteva nell’esercizio, in maniera collettiva ma diretta, di molteplici funzioni della sovranità presa nella sua interezza, funzioni quali la deliberazione sulla pubblica piazza della guerra e della pace” ed aveva il grave difetto che gli antichi “ammettevano come compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme” di guisa che “In tal modo, presso gli antichi, l’individuo, praticamente sovrano negli affari pubblici, è schiavo all’interno dei rapporti privati”. Mentre “Tra i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella vita privata, anche negli Stati più democratici non è sovrano che in apparenza” e nel mondo moderno “la libertà è il diritto di essere sottoposti soltanto alla legge, il diritto di non essere arrestati, detenuti, condannati a morte, maltrattati in alcuna maniera, per effetto della volontà arbitraria di uno o più individui”, di esprimere il proprio pensiero, scegliere la propria occupazione, disporre dei propri beni, di andare dove si vuole, di culto religioso (e così via). Ed è anche il diritto “di influire sull’amministrazione del governo, sia nominando per intero o in parte certi funzionari, sia attraverso rappresentanze, petizioni, domande”.

Tale distinzione ha influito sul pensiero politico e giuridico moderno, tra gli altri su quello di I. Berlin e Carl Schmitt.

È interessante riprendere tale concezione in ispecie quando si riaccende il dibattito sullo “Stato di diritto” made UE e la concezione di Orban sulla “democrazia illiberale”; che tanto scandalizza la stampa mainstream. È vero che senza un certo rispetto di principi di libertà, lo stesso formarsi della volontà pubblica negli organi di governo viene ad essere falsata, se non in tutto, almeno in parte. Ma è anche vero che se poi questa una volta espressa ha un chiaro senso, ma viene corretta in senso contrario, come capitato in Italia nell’ultimo decennio (se non prima), è la democrazia ad essere mistificata. Prendersela con Orban perché controllerebbe buona parte della stampa e della televisione ungherese, avrebbe la mano pesante con gli immigrati e così via, può avere qualche ragione; resta il fatto che, con le elezioni della passata primavera, Orban ha ottenuto per la quarta volta la maggioranza. In quest’ultima, assoluta.

Scrivo questo perché Constant, pur avendo evidenziato la distinzione tra le due “libertà” e come potessero, in certi casi, contrapporsi (in particolare durante la Rivoluzione e la dittatura giacobina) non ebbe un concetto negativo della Rivoluzione, definendola provvida “malgrado i suoi eccessi perché guardo ai risultati”, ancor più trovava il punto di mediazione tra le due libertà nel governo rappresentativo.

Proprio per permettere ai cittadini di dedicarsi alle attività private, occorreva che avessero il diritto di delegare quelle pubbliche. Cioè il sistema rappresentativo. Il quale “altro non è che un’organizzazione per mezzo della quale una nazione scarica su alcuni individui ciò che non può e non vuole fare da se”. Ma il pericolo che incombe, secondo Constant “è che, assorbiti dal piacere della nostra indipendenza privata e dall’inseguimento dei nostri interessi particolari, noi rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico”. Per cui occorreva che fosse garantito dalle istituzioni il diritto dei “cittadini a concorrere con le loro decisioni e i loro suffragi all’esercizio del potere; esse devono garantire loro un diritto di controllo e di sorveglianza con la manifestazione delle loro opinioni”.

Qual è la conclusione che si può ricavare da queste considerazioni del pensatore svizzero nell’attuale situazione italiana? Se è vero quanto dicono i sondaggi che, malgrado la crisi degli ultimi due anni, gli astensionisti domenica prossima saranno circa il 40% degli elettori, significa che la democrazia italiana non è né liberale né illiberale: semplicemente è in via di estinzione. Votare sarà pure un diritto, ma inutile: tanto poi le decisioni vengono prese altrove. È questo a costituire la maggiore preoccupazione per la tenuta del “sistema rappresentativo” (come, mutatis mutandis di ogni regime politico) assai più del “tasso di Stato di diritto”. Perché anche gli Stati di diritto possono finire per inedia, come il comunismo è cessato per implosione.

 

lunedì 19 settembre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Votare da grandi"

Tutti dicono di aver indovinato l’esito delle elezioni politiche: ed in effetti è altamente probabile che saranno vinte (taluno sostiene stravinte) dal centrodestra. Di per sé nulla di strano: dopo il decennio (abbondante) passato, avrebbe sorpreso il contrario.

Interessa notare come, in particolare nella comunicazione dei messaggi il duo Meloni-Salvini (un po’ distanziato Berlusconi) abbiano per così dire innovato i parametri, non solo i contenuti.

Spieghiamo un po’: tutti i partiti si differenziano per “contenuti”; chi vuole più libertà, chi più uguaglianza; chi più Europa, chi meno; chi più assistenza, chi meno spesa.

Tuttavia nel messaggio dei due leaders del centrodestra (la Meloni è ancor più esplicita) cambia, in ispecie rispetto al centrosinistra il parametro delle scelte proposte e, più in generale, dell’azione futura di governo: per i primi è l’interesse degli italiani, per gli altri (cosa consueta) la bontà delle scelte. Intendendo come “bontà” la corrispondenza a norme etiche e, in certa misura, anche giuridiche.

L’interesse nazionale e la “bontà” appartengono entrambi all’idea di Stato – e più in generale – di sintesi politica. Come non c’è Stato che non abbia l’idea Sdirettiva e la finalità di proteggere la comunità, così ha anche quello di realizzare certi valori etici e anche giuridici.

Da sempre, ma ancor più negli ultimi trent’anni, ha prevalso decisamente il richiamo a messaggi di elevato contenuto morale, a cui corrispondeva (e ad hoc) l’evidenziazione della deteriore caratura morale dell’avversario politico. La demonizzazione di Berlusconi (ma non solo) è stata emblematica. Come aver ha contribuito molto alla detronizzazione del Cavaliere ed alla intronizzazione di governi che degli interessi degli italiani se ne sono poco curati. Come è provato dai risultati.

Invece nella comunicazione del centro-destra l’accento non è tanto sull’appetibilità del programma (ovvio), quanto sul conseguimento di risultati positivi per l’interesse nazionale. Di per se questo è un ribaltamento, ma anche un segnale (se, come probabile, condiviso dalla maggioranza degli elettori) di maturazione politica; mentre l’inverso è sintomo d’ingenuità e, dato il contesto, di decadenza politica e culturale.

Il primo valuta in base a fatti e risultati: da Machiavelli (il XV capitolo del Principe) il realismo ha contrapposto alle “immaginazioni” la realtà dell’analisi dei fatti valutati razionalmente e in base ai risultati ottenuti. Mentre per il non-realista il problema è come conformare la realtà alla propria immaginazione. Hegel scriveva che tale metodo fa la testa gonfia di vento (cioè, diremmo oggi, di aria fritta).

E che non si tratti solo di vento, cioè di dabbenaggine ma di astuzia è dubbio costante: come scrive Machiavelli, prendendo ad esempio Alessandro IV, che il Principe non deve mantenere le promesse “quando tale observazione gli torni contro e che sono spente le coazioni che le fecero permettere” anche perché non mancano mai le giustificazioni per farlo: lo vuole l’Europa, c’è uno spread in arrivo, dobbiamo aiutare l’Ucraina, ecc. ecc. E dati i precedenti in tal senso, aspettatevi che i piddini lo ripetano.

La conseguenza di ciò è che nel pensiero politico realista chi si conforma all’ “immaginario” è un ingenuo; come Pier Soderini che nell’epigramma di Machiavelli  Minosse manda al “limbo con gli altri bambini”.

O Messer Nicia che collaborando, tutto contento, alla propria cornificazione “Quanto felice sia esser vede, chi è sciocco ed ogni cosa crede”. E Max Weber che considerava chi lo fa un bambino.

Per cui cambiare il parametro o almeno dar più valore ai fatti che alle aspirazioni, ai risultati più che alle intenzioni, significa maturare politicamente da bambino ad adulto. E se tale criterio si consoliderà, farà bene anche al centrosinistra stimolato a conseguire risultati e non a elaborare fantasie.

Perché in politica chi non fa l’interesse della comunità non è che fa del bene. Realizza un altro interesse: quello degli altri.

 

martedì 13 settembre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Vincolo esterno e strabismo economicista"

1. Da almeno un trentennio si parla di vincolo esterno, della necessità del medesimo al fine di assicurare comportamenti economicamente virtuosi della classe dirigente, soprattutto di quella politica. Le c.d. “cessioni di sovranità” a istituzioni sovranazionali, soprattutto quelle europee sono state gli strumenti per favorirli.

2. In effetti a giudicare il tutto dei risultati, quelli seguenti al c.d. “vincolo esterno” (e cioè soprattutto Maastricht e il “seguito”) sono stati tra i peggiori della storia d’Europa e soprattutto italiana. A fronte di una crescita economica nazionale che nei primi trent’anni del dopoguerra fu tra le migliori del pianeta, ridimensionata dopo la crisi petrolifera degli anni ’70, ma comunque rimasta tra le “mediane” della comunità europea, proprio a partire dagli anni ’90, si è ridotta prima, per poi passare da tracolli (nelle crisi del 2008 e del 2020)  del PIL ad incrementi millimetrici, spesso spacciati dalla stampa di regime come grandi successi. Ad attribuire l’intera “responsabilità” da questi risultati al vincolo esterno, si può dire soltanto che è stato un pessimo affare. Né si può replicare, che senza il “vincolo esterno” sarebbe andata peggio: come sarebbe andata nessuno lo sa, perché non è accaduto: e quindi paragonare risultati ad ipotesi immaginarie è un altro dei modi per non applicare l’aureo consiglio di Machiavelli nel XV capitolo del “Principe”.

Piuttosto è interessante notare perché il “vincolo esterno” non potesse funzionare – se non in modo limitato e quindi secondario – e pertanto sia stato – in larga parte – un’illusione.

Occorre in primo luogo intendere come è stato definito il “vincolo esterno”, e cioè il condizionamento virtuoso che avrebbe dovuto ridimensionare le pratiche viziose della classe politica nazionale. La quale era considerata poco incline alle politiche (sostanzialmente) liberali, prevalenti nei paesi occidentali e sostanzialmente vincolanti per l’Italia sia a causa della sudditanza agli U.S.A. (compresi gli accordi di Bretton Woods) sia dell’adesione al processo di costruzione europea. Tali condizioni hanno indubbiamente costituito, in misura probabilmente maggioritaria, la ragione dello straordinario sviluppo del dopoguerra. Del pari è noto che i partiti ciellenisti,  tranne PLI o PRI, non avevano una cultura politica prevalentemente liberista. E gran parte del padronato italiano era avvezzo al protezionismo più che alla concorrenza[1].

Negli auspici dei sostenitori il vincolo (o meglio i vincoli) esterno futuro avrebbe dovuto ripetere (o non sfigurare) col “miracolo” passato. Esito non conseguito.

3. In effetti il ragionamento a fondamento dell’effetto positivo del vincolo esterno si basava su un insieme di circostanze irripetibili (o difficilmente ripetibili);  e sulla sottovalutazione e financo l’omissione della considerazione di presupposti e regolarità influenti sul comportamento collettivo ed individuale.

In primo luogo che l’uomo non è solo homo oeconomicus, ma anche zoon politikon: le essenze (à la Freund) “politico” ed “economico” fanno parte della natura e dell’esistenza umana. Ragionare in base ad una escludendo (o sottovalutando) l’altra è il miglior percorso per valutazioni parziali e perciò errate. Ad esempio: alla ricostruzione europea ha contribuito – secondo quasi tutti gli economisti – il piano Marshall. Con questo – a parte gli altri Stati europei – gli U.S.A. vincitori aiutavano due ex-nemici come Germania ed Italia a ricostruire il proprio tessuto economico. Di per se è un comportamento raro: al nemico sconfitto si chiedono tributi, indennizzi, “riparazioni”: lo si sfrutta, lo si impoverisce, non lo si aiuta a crescere. Lo stesso può dirsi degli accordi sul debito tedesco (da Londra nel 1953 ai successivi): l’America condizionò i due ex nemici servendosi più della carota che del bastone (che a Versailles si era dimostrato addirittura controproducente) rafforzato sia dalla competizione con l’URSS che dal possesso di un potere militare irresistibile (quello nucleare- e non solo) che rendeva impossibile ogni forma di revanscismo.

Dall’altro c’era un calcolo economico: aiutando l’Europa disastrata, si aiutava l’economia americana, nei fatti ripresasi completamente dalla crisi del ’29 solo con la guerra mondiale, e che rischiava di ridurre (o invertire) la crescita. Era quindi l’interesse USA a consigliare l’atteggiamento positivo e “morbido”, sia per  ragioni politiche che economiche. E cioè era la costante politica del perseguimento degli interessi dello Stato a far sì che era il vincolo esterno, con i caratteri premianti per chi lo subiva, a determinare l’effetto positivo (perché soddisfacente sia per l’interesse del vincolante che del vincolato). Era la scelta preferibile per governanti capaci e lungimiranti. Ma che succede se il vincolo è “amministrato” da governanti meno capaci, meno lungimiranti (e spesso) più inclini a interessi di “corto respiro”?

Il vincolo è un rapporto che permette a qualcuno di imporre (o condizionare) la decisione dell’altro, ma nulla dice sulla capacità e volontà del vincolante e del vincolato.

Indubbiamente auspicare il vincolo significa, in concreto, che non si giudica preferibile un governo nazionale la cui classe politica è ritenuta inadatta o comunque peggiore. Ma non è detto che la situazione perduri nel tempo e cambiando le circostanze.

Peraltro il vincolo esterno spesso non è riconducibile alla volontà di Stati e governi stranieri, ma a quelli di soggetti neppure pubblici o ad entità come i “mercati”. Gli uni e gli altri aventi in comune di non avere una responsabilità pubblica, in sostanza politica, ed essere di fatto incontrollabili (o troppo – e indirettamente  - controllabili). Quindi crea potestates indirectae (poteri indiretti) il cui connotato decisivo è di esercitare potere senza (chiara ed apparente) responsabilità; e, a differenza di quanto capita nell’occidente liberaldemocratico, di non rispondere al popolo, ossia di non essere democratici.

Gli anatemi antipopulisti delle elites sono in effetti nient’altro che la negazione del potere del popolo di decidere sul proprio destino.

4. Dal carattere economicista del vincolo esterno deriva anche la difficoltà a comprendere i comportamenti politici, quando questi – come spesso succede – sono determinati da ragioni non economiche (e non soltanto economiche). Ne abbiamo un esempio attuale nella guerra russo-ucraina che,  presentata come assurda perché non se ne comprendono le cause economiche (del tutto secondarie), onde Putin doveva per forza essere un visionario o tarato, un matto, mentre non ha fatto altro che ripetere quanto praticato a partire da Pietro il Grande, da gran parte dei governanti russi: creare sbocchi sui mari caldi, il Mar Nero soprattutto. Onde farlo è un “interesse dello Stato”, come sosteneva Meinecke. Rispondente a considerazioni strategiche (in primo luogo) quindi politiche, ma anche culturali e religiose. Per cui non è detto che il vincolante, nell’ “amministrare” il vincolo esterno, non si faccia prendere la mano da considerazioni non solo economiche. Anzi c’è da aspettarsi che lo faccia.

5. Il vincolo esterno, così come concepito (da tecnocrati, come Carli) ha un carattere essenzialmente tecnico-economico: è buono ciò che è economicamente valido (come il Piano Marshall). Ma non è detto che lo sia sempre. In realtà, come cennato prima, ciò che rese “buono” il piano suddetto era (la felice)  la coincidenza/complementarietà degli interessi.

Ma se questi non lo sono il vincolo diventa solo uno strumento per fare prevalere la volontà (e gli interessi) del vincolante sul vincolato.

Peraltro nell’interpretazione “rigorosa” (ma più che altro ragionieristica) che ha avuto negli ultimi vent’anni di politica economica europea, il vincolo si è qualificato più che tecnico-economico, contabile. Non importa tanto che l’economia cresca, ma che i conti siano in ordine.

6. Quanto poi alla “beatificazione” del vincolo esterno, con il riferimento a quello applicato nel secondo dopoguerra, appare poco credibile che si ripeta quanto allora capitato. Ma soprattutto non si può fare di un’eccezione una regolarità, e neppure indicarla come probabile. Anzi, come sopra scritto, il comportamento dei vincitori dopo la II guerra mondiale è di per se un’eccezione. E le eccezioni, anche se ripetute, non fanno la regola, e neppure rendono probabile l’esito voluto, ma solo possibile.

Quel che invece può accadere ed è in linea con le regolarità e le probabilità della politica è che il vincolante trovi la collaborazione del governo vincolato, vuoi per timore , vuoi per l’interesse dei governanti subordinati.

Governi influenzati, protettorati, colonie, civitates foederatae, governi quisling fanno parte della storia, dato lo squilibrio di potenza tra le sintesi politiche (il Principato di Monaco non ha la potenza della Francia). La Storia e il diritto hanno conosciuto tutto un insieme di rapporti tra sintesi politiche non paritarie, sia che quella disparità trovasse formalizzazione giuridica (come nei protettorati o nelle città legate a Roma con foedera iniqua) o che lo fosse soltanto di fatto.

Ovviamente la forma politica del vincolante, ma soprattutto il vincolato possono aggravare il vincolo esterno; ossia la possibilità che la volontà del vincolante prevalga su quella del vincolato. Un governo debole e instabile, come può capitare (anche) nelle forme politiche moderne, alle Repubbliche parlamentari e/o a larga frammentazione pluralistica può facilitare l’imposizione del vincolo esterno, sfruttando la lotta tra frazioni della classe politica (partiti in primis). Cosa ancora più evidente nelle forme politiche pre-moderne, come il Sacro Romano Impero e il Regno di Polonia. Rousseau scriveva che il liberum veto era causa dell’anarchia e quindi della debolezza polacca, onde per lo più i re di Polonia eletti (nel ‘700) erano “proposti” dalle potenze straniere.

7. Il vincolo esterno consiste – a concludere - nella speranza che, laddove si ritenga che la classe politica sia inadatta (e spesso lo è), il sistema possa guadagnare da un’influenza straniera.

A patto di sperare anche che questa sia a) animata da buone intenzioni; b) disinteressata; c) e non affetta da manie di dominio. Cioè non agisca politicamente: tutt’e tre le condizioni citate sono in contrasto con altrettante regolarità e presupposti politici: quello della problematicità della natura umana (Machiavelli); dell’interesse degli Stati (Meinecke); della competizione per il dominio (Tucidide).Perché alle buone probabilità di funzionare come auspicato servirebbe un mondo governato da anime, se non proprio belle, almeno corrette e lungimiranti.



[1] Ciò non toglie che seppe utilizzare lo stimolo concorrenziale del MEC, compresa l’abolizione progressiva delle “tariffe“ doganali.

 

lunedì 5 settembre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Quattro regole per votare"

 

Imperversano campagna e programmi elettorali. In particolare a sinistra, oltre alla consueta demonizzazione del nemico, titolo che attualmente compete alla Meloni, e alla ripetizione ossessiva del solito armamentario propagandistico, vi si leggono tanti buoni propositi, che comunque non mancano negli altri. Tutti i programmi essendo ricolmi di buone intenzioni diventano perciò altamente condivisibili. Che è poi la loro funzione: acchiappare voti il 25 settembre. Per meglio valutarli (e votare) ricordiamo all’uopo qualche regola realistica.

Prima di tutto, giudicare sulla base di quanto partiti e candidati hanno fatto (in passato) e non a quanto dicono di voler realizzare in futuro. Fare è spesso ostico e complicato, promettere facile. Già lo sapeva Dante il quale mette in bocca a Guido da Montefeltro come si fa: “lunga promessa con l’attender corto ti farà trionfar ne l’alto seggio”, Seggio cui i candidati aspirano (che non è quello papale, ma comunque appetito ed appetibile).

Ad esempio ad urne aperte (o quasi) i partiti, soprattutto di centro-sinistra (e sindacati) hanno scoperto… l’acqua calda. E cioè che da circa trent’anni le retribuzioni italiane calano, di guisa da aver perso diversi punti percentuali. C’è da chiedersi perché l’abbiano scoperto solo in apertura (o in prossimità) di campagna elettorale, dopo circa trent’anni di stasi retributiva: chiunque, anche un diversamente intelligente, se ne sarebbe accorto prima. Oltretutto se ciò non sia per caso in relazione col nostro PIL da un trentennio stazionario (e altro). Ma soprattutto cosa abbiano fatto in questo periodo i governanti  – avendo il centro sinistra governato o fiduciato esecutivi amici per circa vent’anni – per invertire la tendenza. A poco serve “rimediare” ora, se non a far passerella per le elezioni, dopo un’inerzia durata un trentennio (o poco meno).

A dipingere rosei futuri, a rivelare di avere le chiavi del paradiso è capace qualsiasi Dulcamara, magari supportato da tecnici, la cui “tecnicità” è convalidata dal superamento di dubbi concorsi. Giudicare dalle opere è la conseguenza del consiglio di Machiavelli di agire e progettare in base ai fatti e non all’immaginazione; ai risultati e non alle intenzioni. Consiglio fondante non solo della scienza politica moderna, ma ancor più della prudenza politica pratica.

Secondariamente e quale diretta conseguenza: che credibilità ha chi consiglia o propone bene, dopo aver operato male? Poco o nulla, così da incidere sul quantum minimo di autorità che la classe dirigente (uomo, ceto, partito) necessariamente deve avere sui governati.

Dopo trent’anni (o quasi) di stasi italiana, con la crescita del PIL peggiore sia nell’ambito UE che dell’area euro (e salvo altro) pensare che partiti e coalizioni i quali hanno diretto l’Italia – peraltro spesso senza aver ottenuto la maggioranza alle elezioni, anzi malgrado le sconfitte elettorali – abbiano la credibilità e l’autorità minima per governare è un atto di fede. Ancor di più è confidare che gli italiani siano tutti diversamente intelligenti. A proposito occorre ricordare che se il pregio dell’autorità è ottenere l’obbedienza dei sudditii anche per misure e necessità estreme (ricordate il “lacrime e sangue” di Churchill?)  l’inverso comporta che a un governo privo o carente di autorità (e credibilità) finiscono per essere rifiutati dai governati anche provvedimenti condivisibili presi in situazioni meno drammatiche (v. Covid).

In terzo luogo occorre ricordare che la politica è attività che ha più a che fare con l’utilità che con la bontà. I popoli (come gli individui) sono più propensi a essere governati da chi assicura il benessere generale che da coloro che propongono obiettivi eticamente condivisi. Chi governa non è un sant’uomo (e può non esserlo). In fondo la definizione più moderna di bene comune è di Bentham: il più alto grado di felicità per il maggior numero possibile di persone. Ma ci sono programmi di partiti più orientati a soddisfare (direttamente ed esplicitamente, ma per lo più indirettamente) delle minoranze – talvolta di scarsa rilevanza numerica, in nome di bontà, solidarietà, ecc. ecc. - che perseguire l’utilità di tutti. La cattivissima Meloni che indica come proprio obiettivo di perseguire l’interesse generale degli italiani, non fa – mutatis mutandis – che affermare l’inverso. Ciò è poi il compito che la dottrina politica moderna (realistica soprattutto) assegna ai “buoni” governanti.

Non vi lamentate quindi se dopo le elezioni scoprite che il governo ha ridotto il PIL ma, in ossequio alle promesse fatte, ha favorito l’eutanasia e i matrimoni omosessuali, il reddito di cittadinanza ai migranti da poco sbarcati, ecc. ecc. Tutte promesse fatte e che, se consentite nelle urne, andavano soddisfatte. Gli è che la politica è, come riteneva Croce, pertinente alla categoria (distinto) dell’utile, più che al “bene”. Così che la concreta esistenza viene prima dell’essere morale: “prima vivere e poi filosofare, prima essere e poi essere morale”.

Il quarto consiglio (dei più che occorrerebbero) è non far caso alle demonizzazioni dell’avversario; ancor più laddove gli anatemi hanno ad oggetto vizi e mancanze private e non pubbliche. In generale è “naturale” che l’avversario politico sia dipinto male, con improperi, sfondoni, calunnie, esorcismi, ecc. ecc. Aristofane ne dà un esilarante rappresentazione (venticinque secoli fa) nello scontro oratorio tra conciapelli e salsicciaio nei “Cavalieri”. E la sostanza è ancora la stessa. Quando oggetto di tanto fervore accusatorio sono le tendenze sessuali o comunque private dell’avversario, come per lo più è, allora diventa poco o punto rilevante. Perché il fatto che il nemico sia un omosessuale o un donnaiolo riguarda fatti suoi privati e non pubblici. Rassicuratevi quindi: se si fa ricorso a tali argomenti vuol dire che non ne trovano altri; è un motivo per votare il “nemico” e non per non farlo. Cesare era sia donnaiolo (v. Cleopatra) che omosessuale (il Re di Bitinia): ciò non toglie che da millenni il suo nome designa, in tante lingue, la massima autorità. Segno che nessuno ha mai dato peso ai suoi “vizi” privati.