1. Da almeno un
trentennio si parla di vincolo esterno, della necessità del medesimo al fine di
assicurare comportamenti economicamente virtuosi
della classe dirigente, soprattutto di quella politica. Le c.d. “cessioni di
sovranità” a istituzioni sovranazionali, soprattutto quelle europee sono state
gli strumenti per favorirli.
2. In effetti a
giudicare il tutto dei risultati, quelli seguenti al c.d. “vincolo esterno” (e
cioè soprattutto Maastricht e il “seguito”) sono stati tra i peggiori della
storia d’Europa e soprattutto italiana. A fronte di una crescita economica nazionale
che nei primi trent’anni del dopoguerra fu tra le migliori del pianeta,
ridimensionata dopo la crisi petrolifera degli anni ’70, ma comunque rimasta
tra le “mediane” della comunità europea, proprio a partire dagli anni ’90, si è
ridotta prima, per poi passare da tracolli (nelle crisi del 2008 e del
2020) del PIL ad incrementi
millimetrici, spesso spacciati dalla stampa di regime come grandi successi. Ad
attribuire l’intera “responsabilità” da questi risultati al vincolo esterno, si
può dire soltanto che è stato un pessimo affare. Né si può replicare, che senza
il “vincolo esterno” sarebbe andata peggio: come sarebbe andata nessuno lo sa,
perché non è accaduto: e quindi paragonare risultati ad ipotesi immaginarie è
un altro dei modi per non applicare l’aureo consiglio di Machiavelli nel XV
capitolo del “Principe”.
Piuttosto è
interessante notare perché il “vincolo esterno” non potesse funzionare – se non
in modo limitato e quindi secondario
– e pertanto sia stato – in larga parte – un’illusione.
Occorre in primo
luogo intendere come è stato definito il “vincolo esterno”, e cioè il
condizionamento virtuoso che avrebbe dovuto ridimensionare le pratiche viziose della classe politica nazionale.
La quale era considerata poco incline alle politiche (sostanzialmente)
liberali, prevalenti nei paesi occidentali e sostanzialmente vincolanti per l’Italia
sia a causa della sudditanza agli U.S.A. (compresi gli accordi di Bretton
Woods) sia dell’adesione al processo di costruzione europea. Tali condizioni
hanno indubbiamente costituito, in misura probabilmente maggioritaria, la
ragione dello straordinario sviluppo del dopoguerra. Del pari è noto che i
partiti ciellenisti, tranne PLI o PRI,
non avevano una cultura politica prevalentemente liberista. E gran parte del
padronato italiano era avvezzo al protezionismo più che alla concorrenza.
Negli auspici
dei sostenitori il vincolo (o meglio i vincoli) esterno futuro avrebbe dovuto ripetere (o non sfigurare) col “miracolo”
passato. Esito non conseguito.
3. In effetti il
ragionamento a fondamento dell’effetto positivo del vincolo esterno si basava
su un insieme di circostanze irripetibili (o difficilmente ripetibili); e sulla sottovalutazione e financo
l’omissione della considerazione di presupposti e regolarità influenti sul
comportamento collettivo ed individuale.
In primo luogo
che l’uomo non è solo homo oeconomicus,
ma anche zoon politikon: le essenze
(à la Freund) “politico” ed “economico” fanno parte della natura e
dell’esistenza umana. Ragionare in base ad una escludendo (o sottovalutando)
l’altra è il miglior percorso per valutazioni parziali e perciò errate. Ad
esempio: alla ricostruzione europea ha contribuito – secondo quasi tutti gli
economisti – il piano Marshall. Con questo – a parte gli altri Stati europei –
gli U.S.A. vincitori aiutavano due ex-nemici come Germania ed Italia a
ricostruire il proprio tessuto economico. Di per se è un comportamento raro: al
nemico sconfitto si chiedono tributi, indennizzi, “riparazioni”: lo si sfrutta,
lo si impoverisce, non lo si aiuta a crescere. Lo stesso può dirsi degli
accordi sul debito tedesco (da Londra nel 1953 ai successivi): l’America condizionò
i due ex nemici servendosi più della carota che del bastone (che a Versailles
si era dimostrato addirittura controproducente) rafforzato sia dalla competizione
con l’URSS che dal possesso di un potere militare irresistibile (quello
nucleare- e non solo) che rendeva impossibile ogni forma di revanscismo.
Dall’altro c’era
un calcolo economico: aiutando l’Europa disastrata, si aiutava l’economia
americana, nei fatti ripresasi completamente dalla crisi del ’29 solo con la
guerra mondiale, e che rischiava di ridurre (o invertire) la crescita. Era
quindi l’interesse USA a consigliare l’atteggiamento positivo e “morbido”, sia
per ragioni politiche che economiche. E
cioè era la costante politica del
perseguimento degli interessi dello Stato a far sì che era il vincolo esterno,
con i caratteri premianti per chi lo subiva, a determinare l’effetto positivo (perché soddisfacente sia per
l’interesse del vincolante che del vincolato). Era la scelta preferibile per
governanti capaci e lungimiranti. Ma che succede se il vincolo è “amministrato”
da governanti meno capaci, meno lungimiranti (e spesso) più inclini a interessi
di “corto respiro”?
Il vincolo è un
rapporto che permette a qualcuno di imporre (o condizionare) la decisione
dell’altro, ma nulla dice sulla capacità e volontà del vincolante e del
vincolato.
Indubbiamente
auspicare il vincolo significa, in concreto, che non si giudica preferibile un
governo nazionale la cui classe politica è ritenuta inadatta o comunque
peggiore. Ma non è detto che la situazione perduri nel tempo e cambiando le
circostanze.
Peraltro il
vincolo esterno spesso non è riconducibile alla volontà di Stati e governi
stranieri, ma a quelli di soggetti neppure pubblici o ad entità come i “mercati”. Gli uni e gli altri aventi in comune di
non avere una responsabilità pubblica, in sostanza politica, ed essere di fatto
incontrollabili (o troppo – e indirettamente
- controllabili). Quindi crea potestates
indirectae (poteri indiretti) il cui connotato decisivo è di esercitare potere senza (chiara ed apparente) responsabilità;
e, a differenza di quanto capita nell’occidente liberaldemocratico, di non
rispondere al popolo, ossia di non essere democratici.
Gli anatemi antipopulisti
delle elites sono in effetti
nient’altro che la negazione del potere del popolo di decidere sul proprio
destino.
4. Dal carattere
economicista del vincolo esterno deriva anche la difficoltà a comprendere i
comportamenti politici, quando questi – come spesso succede – sono determinati
da ragioni non economiche (e non soltanto economiche). Ne abbiamo un esempio
attuale nella guerra russo-ucraina che,
presentata come assurda perché non se ne comprendono le cause economiche
(del tutto secondarie), onde Putin doveva per forza essere un visionario o
tarato, un matto, mentre non ha fatto altro che ripetere quanto praticato a
partire da Pietro il Grande, da gran parte dei governanti russi: creare sbocchi
sui mari caldi, il Mar Nero soprattutto. Onde farlo è un “interesse dello
Stato”, come sosteneva Meinecke. Rispondente a considerazioni strategiche (in
primo luogo) quindi politiche, ma anche culturali e religiose. Per cui non è
detto che il vincolante, nell’ “amministrare” il vincolo esterno, non si faccia
prendere la mano da considerazioni non solo economiche. Anzi c’è da aspettarsi
che lo faccia.
5. Il vincolo
esterno, così come concepito (da tecnocrati, come Carli) ha un carattere
essenzialmente tecnico-economico: è
buono ciò che è economicamente valido (come il Piano Marshall). Ma non è detto
che lo sia sempre. In realtà, come cennato prima, ciò che rese “buono” il piano
suddetto era (la felice) la coincidenza/complementarietà
degli interessi.
Ma se questi non
lo sono il vincolo diventa solo uno strumento per fare prevalere la volontà (e
gli interessi) del vincolante sul vincolato.
Peraltro
nell’interpretazione “rigorosa” (ma più che altro ragionieristica) che ha avuto
negli ultimi vent’anni di politica economica europea, il vincolo si è
qualificato più che tecnico-economico, contabile. Non importa tanto che
l’economia cresca, ma che i conti siano in ordine.
6. Quanto poi
alla “beatificazione” del vincolo esterno, con il riferimento a quello applicato nel secondo dopoguerra, appare
poco credibile che si ripeta quanto allora capitato. Ma soprattutto non si può
fare di un’eccezione una regolarità, e neppure indicarla come probabile. Anzi,
come sopra scritto, il comportamento dei vincitori dopo la II guerra mondiale è
di per se un’eccezione. E le eccezioni, anche se ripetute, non fanno la regola,
e neppure rendono probabile l’esito voluto, ma solo possibile.
Quel che invece
può accadere ed è in linea con le regolarità e le probabilità della politica è
che il vincolante trovi la collaborazione del governo vincolato, vuoi per
timore , vuoi per l’interesse dei governanti subordinati.
Governi
influenzati, protettorati, colonie, civitates
foederatae, governi quisling
fanno parte della storia, dato lo squilibrio di potenza tra le sintesi
politiche (il Principato di Monaco non ha la potenza della Francia). La Storia
e il diritto hanno conosciuto tutto un insieme di rapporti tra sintesi politiche
non paritarie, sia che quella
disparità trovasse formalizzazione giuridica (come nei protettorati o nelle
città legate a Roma con foedera iniqua)
o che lo fosse soltanto di fatto.
Ovviamente la
forma politica del vincolante, ma soprattutto il vincolato possono aggravare il
vincolo esterno; ossia la possibilità che la volontà del vincolante prevalga su
quella del vincolato. Un governo debole e instabile, come può capitare (anche)
nelle forme politiche moderne, alle Repubbliche parlamentari e/o a larga
frammentazione pluralistica può facilitare l’imposizione del vincolo esterno,
sfruttando la lotta tra frazioni della classe politica (partiti in primis). Cosa ancora più evidente
nelle forme politiche pre-moderne, come il Sacro Romano Impero e il Regno di
Polonia. Rousseau scriveva che il liberum
veto era causa dell’anarchia e quindi della debolezza polacca, onde per lo
più i re di Polonia eletti (nel ‘700) erano “proposti” dalle potenze straniere.
7. Il vincolo
esterno consiste – a concludere - nella speranza che, laddove si ritenga che la
classe politica sia inadatta (e spesso lo è), il sistema possa guadagnare da
un’influenza straniera.
A patto di
sperare anche che questa sia a) animata da buone intenzioni; b) disinteressata;
c) e non affetta da manie di dominio.
Cioè non agisca politicamente: tutt’e
tre le condizioni citate sono in contrasto con altrettante regolarità e
presupposti politici: quello della problematicità della natura umana
(Machiavelli); dell’interesse degli Stati (Meinecke); della competizione per il
dominio (Tucidide).Perché alle buone probabilità di funzionare come auspicato servirebbe
un mondo governato da anime, se non proprio belle, almeno corrette e
lungimiranti.