Ha suscitato
stupore l’affermazione del direttore dell’Agenzia delle Entrate che in Italia
ci sono 19 milioni di evasori fiscali. Ma non è stato notato – o notato poco –
che non era tanto l’esternazione del dr. Ruffini ad essere discutibile ma-
assai di più – il “ragionamento” di cui era il risultato.
Chi scrive è
convinto che i 19 milioni di evasori di Ruffini siano una stima per difetto: in
effetti ho l’impressione che il numero degli evasori sia poco inferiore
all’intera popolazione maggiorenne italiana, cioè 45 milioni (almeno). Ciò per
due motivi: il primo è che è l’appetito del fisco a creare l’evasione. Più è
predatorio quello, più è diffusa questa, secondo la curva di Laffer, così
sconosciuta nelle stanze del potere italiano. La seconda è la mediocre
efficienza della pubblica amministrazione: per cui c’è da presumere che ai
diciannove milioni di evasori sagacemente “tassati” dal fisco, ve ne siano
altrettanti – o giù di li – che se la godono nella clandestinità. Anche perché
il sistema principale per “recuperare l’evasione” collaudato da trent’anni è
assai semplice: far pagare di più chi già paga. La seconda imposta per gettito,
cioè l’IVA, compie quest’anno 50 anni: per “recuperare l’evasione” l’aliquota
nello stesso periodo è stata quasi raddoppiata: dal 12% al 22%. Ad ogni aumento
il solito coro di giubilo “paghiamone tutti, paghiamone meno” ma in effetti
nella realtà sono sempre i soliti a pagare.
Ma ciò che rende
debole e profondamente illiberale l’argomento di Ruffini è l’equivalenza tra
pretese fiscali e fondatezza (anche giuridica) delle stesse. In altre parole si
presuppone che 19 milioni siamo debitori perché gli impiegati dell’Agenzia
fiscale hanno emesso dei titoli esecutivi a loro carico. Che è proprio il
contrario di quanto da oltre due secoli i teorici dello Stato di diritto
sostengono: tra i tanti basti citare il Federalista (come faccio spesso) in cui
si sostiene che i controlli sul governo (cioè in termini moderni e
“continentali” sull’amministrazione
pubblica) non sarebbero necessari se a governare fossero angeli, ossia
moralmente irreprensibili e intellettualmente infallibili. Ma siccome non è
così, scrivevano gli autori del “Federalista”, i controlli sono necessari. E
l’intera costruzione dello Stato di diritto (e anche, meno coerentemente di
altri “tipi” di Stato) si basa proprio su tale realistico giudizio
sull’antropologia umana, e quindi burocratica.
La diffusione e
l’istituzionalizzazione di limiti e controlli al potere, in primo luogo la
giustizia nell’amministrazione, non è che la conseguenza di quello.
Credere il
contrario non è soltanto manifestamente smentito dai fatti: è qualcosa che
neppure gli ordinamenti più autoritari – forse (del tutto) neanche quelli
totalitari – ammettono. Se il Papa è infallibile lo è solo quando parla ex-cathedra e in materie limitate. Ma
l’infallibilità del Sommo Pontefice non emana
verso uffici, impiegati, vescovi e parroci, mentre (pare che) quella fiscale si
comunica per via gerarchica, dal Direttore agli impiegati di concetto (se non
anche più in giù). Per cui il ragionamento di Ruffini, sulla cui fondatezza non
insistiamo, è sicuramente il contrario di quanto sostenuto dai teorici (e
pratici) del Rechtstaat.
Ma qualche
conseguenza positiva la può avere: se è vero che gli evasori fiscali sono 19
milioni (come calcolato dal direttore) o molti di più, la conseguenza è che se
vanno tutti a votare, e lo fanno coerentemente, i tempi del fisco predatorio
sono agli sgoccioli: con una maggioranza così schiacciante un condono tombale (al
minimo) è a portata di mano. Una riforma verso un fisco meno predatorio,
probabile.
Ricordate,
gente, ricordate.
Nessun commento:
Posta un commento