I miei (pochi)
lettori mi consentano di ritornare su un argomento da me assai frequentato: la disparità delle armi tra pubblica
amministrazione e privati nelle controversie (meglio nel contenzioso) tributario,
amministrativo e civile. Disparità incrementata dalla c.d. “seconda
Repubblica”, a dispetto del fatto che la “parità delle armi” (processuali) è
stato costituzionalizzata nel 1999 con la novella all’art. 111 della
Costituzione. Prima e dopo la suddetta novella, il legislatore ha fatto tutto
il possibile per contraddire a livello legislativo, quanto solennemente introdotto
in quello costituzionale. Fin qui nulla di nuovo, se non lo straripante tasso
d’ipocrisia ma ancor più di disinformazione, onde il problema, che riguarda
tutti i cittadini italiani è costantemente sottovalutato o occultato nel
dibattito pubblico.
Piuttosto
occorre chiedersi se il sistema usuale e
normale per riottenere il riequilibrio delle armi, ossia: a) l’istituzione
di mezzi, soprattutto giudiziari, di difesa idonei a compensare almeno in parte
lo squilibrio; b) la loro indipendenza; c) la parità, o almeno la non eccessiva
disparità tra pubblico e privato, siano sufficienti in una situazione
largamente compromessa come quella attuale.
A tale proposito
è bene andare a quanto ne pensava Vittorio Emanuele Orlando. Com’è noto la
tutela del privato verso le pretese dell’amministrazione fu attuato dalla
classe dirigente liberale soprattutto con due leggi. La legge abolitiva del
contenzioso amministrativo (del 1865) e la legge istitutiva della IV Sezione
del Consiglio di Stato (1889). Ma in particolare la prima attirò le
considerazioni negative di Orlando sull’accoglienza che aveva ottenuto dalla
magistratura dell’epoca. Scrive il giurista siciliano “Ciò che davvero importa,
in questa materia, è di non lasciarsi sviare dalle incertezze della
giurisprudenza. L’abbiamo detto più volte, e l’osservazione non è nostra
soltanto: la legge del 1865 fu troppo
liberale, e non trovò le condizioni ambientali idonee al suo sereno e
completo svolgimento. Il sentimento
autoritario era ed è ancora troppo radicato in noi, popolo nato ora alla
libertà. Sicché, tutte le volte che essa ha potuto, la giurisprudenza ha
allontanato da sé il calice amaro di agire come freno e limite del potere
esecutivo. E così avviene, per una coincidenza che dopo l’anzidetto non
sembrerà del tutto accidentale” (voce “Contenzioso amministrativo” del Digesto
Italiano, Torino 1895-1898, il corsivo è mio). E sulla “timidezza” del potere
giudiziario nei confronti di quello governativo-amministrativo ritorna più
volte (nel saggio citato e altrove).
C’è da chiedersi
se la “timidezza” attribuita da Orlando alla magistratura a lui contemporanea
sia (o sia ritornata) ad essere connotato di quella attuale, magari non
qualificabile così, ma piuttosto sodalizio, ansia, timore per le pubbliche
finanze; ma il cui esito, comunque è di agevolare, ancor più di quanto non
abbia fatto il legislatore, le pubbliche amministrazioni litiganti.
Prendiamo un
paio di statistiche come esempio. Quella dell’Agenzia delle Entrate del 2020
evidenzia un “indice di vittoria” (per l’Agenzia) pari al 76,2% delle liti. Solo
che a leggerlo risulta che a tale lusinghiero risultato hanno contribuito…anche
le cause perse. Infatti la P.A. ha calcolato a proprio favore nell’indice anche
quelle “parzialmente favorevoli” cioè quelle altrettanto “parzialmente
favorevoli” al contribuente.
A un lettore
attento piuttosto che tale criterio ad
usum delphini, probabilmente apparirebbe più conforme alla realtà
calcolare, salomonicamente, gli esiti
parzialmente favorevoli in ragione
della metà (a favore dell’Agenzia) e non tutti
a favore. Quel che più conta e che (a tacer d’altro) dall’esperienza
personale di difensore, e da quella di altri colleghi, quasi tutti i ricorsi
totalmente o parzialmente favorevoli al contribuente si concludono con la
compensazione delle spese (cioè il contribuente, pur vittorioso, paga per
intero il proprio difensore), mentre nel caso contrario (di soccombenza totale)
il Giudice tributario pone quasi sempre a carico dello stesso le spese di giustizia.
Mezzo semplice ed efficace per
disincentivare il contenzioso… a carico delle parti private.
Altro esempio: i
giudizi di equa riparazione (Legge Pinto). Essendo quasi tutti gli esiti a
favore delle parti private, il legislatore aveva già messo le… mani avanti,
disponendo che le spese andassero liquidate in ragione della metà della tariffa
ordinaria. Ma evidentemente tale zelo non appariva sufficiente. Per cui gli
importi delle spese a carico delle P.P.A.A. resistenti solo calcolati dai
Giudici in misura minore di guisa che è normale
leggere che un processo Pinto alla Corte d’Appello, è “remunerato” con 3-400
euro o un giudizio al TAR con 2-400 euro.
E si potrebbe
andare avanti, con risultati (quasi) sempre simili. Certo c’è da chiedersi se
tali risultati siano dovuti più che alla “timidezza”, che non appare sempre
come connotato della giustizia italiana, come confermano i processi a Ministri,
non ultimi quelli a Salvini per decisioni governative (tutte) politiche, ma
piuttosto ad un (malinteso) senso dell’interesse pubblico. Per cui ci si sente
gratificati dal limitare gli esborsi a carico delle (disastrate) finanze
italiane. L’ingenuità (almeno) di tale
comportamento è che se si rende più economico il litigare al soccombente, il
risultato sarà quello di aumentare il numero delle resistenze in giudizio infondate. Meglio seguire il consiglio
di Talleyrand ai funzionari francesi “surtout pas trop de zèle”. Ma ancor di più l’interesse
pubblico non è tanto un rapporto di dare e avere, tra incassato e speso. È in
primo luogo l’affetto, la solidarietà tra cittadini della stessa
comunità, compresi governati e governanti. Se la si scuote o la si svuota, con
espedienti e artifizi da causidico, s’incrina e alla fine si distrugge la
stessa comunità e istituzione politica. Cammino che in gran parte abbiamo già
percorso.
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