LA GUERRA DI MARIO
La recente
affermazione di Monti che una vittoria dei sovranisti in Europa avrebbe portato
alla guerra (sembra tra gli Stati dell’UE, ma non è del tutto sicuro) ha
raccolto commenti che vanno dall’imbarazzato (Zingaretti) all’irrisorio (Salvini),
passando tra tutti i toni dell’incredulità e dello scetticismo.
Tuttavia l’uscita
di Monti, che coniuga l’aspirazione alla sovranità con la possibilità di guerra
merita qualche approfondimento, al di la dell’evidente – ed esternato - fine di
spaventare l’elettorato che si accinge a votare.
Che il fine della
sovranità, come elaborato in qualche secolo di pensiero moderno, sia quello di
proteggere efficacemente la comunità politica nonché i diritti - in primis alla vita e all’esistenza ordinata
- dei cittadini è cosa risaputa, evidenziata con chiarezza e razionalità da
Hobbes. Che a tal fine non fossero idonee le monarchie feudali (o lo fossero
poco), di guisa che Hegel le GIUDICAVA anarchie, è altrettanto noto.
Per tale scopo
venne giustificato lo Stato assoluto (e sovrano), al quale riuscì sul piano
interno di relativizzare e neutralizzare
i conflitti, in primo luogo il più polemogeno
di tutti, all’epoca quello religioso; sul piano esterno attraverso gli eserciti
stanziali (e lo sviluppo di una burocrazia moderna) a garantire un efficace difesa
contro le invasioni cicliche dei popoli nomadi e comunque non-europei nonché a
sviluppare il commercio internazionale e l’espansione coloniale. Che a tali
fini fosse necessario ricorrere alla guerra – anzi che le nascenti sovranità
avessero il monopolio della violenza legittima e così anche della guerra - nessuno lo dubitava. Tanto per renderlo chiaro
già nel frontespizio della prima edizione del Leviathan, questo è raffigurato
come un gigante con la spada nella mano destra.
Come scriveva
Machiavelli i mezzi del Principe (della politica) sono due: quello della volpe
(l’astuzia) e l’altro del leone (la forza). Rinunciare a quest’ultimo è il
sogno - trasformatosi spesso nell’incubo di guerre (impreviste e impreparate) -
dei pacifisti. In effetti per impedire i conflitti un mezzo c’è: la
sottomissione, dato che per fare la guerra bisogna essere in due, aggressore ed
aggredito. Ma se questo si arrende, lo scopo della guerra, che è quello di imporre
al nemico le nostre volontà (Clausewitz e Gentile), è raggiunto: e usare le
armi, a quel punto, è costoso e controproducente, quindi inutile. Come capitato
nella storia moderna fino all’autoestinzione
dello Stato aggredito: Venezia nel 1799, la Cecoslovacchia e gli Stati baltici
nel 1939, con la giustificazione in tali casi che il dislivello di potenza tra
aggressori ed aggrediti era tale che ogni resistenza era inutile. La pace di
sottomissione era pagata con la
perdita dell’esistenza politica del sottomesso.
E veniamo alla
situazione contemporanea. Lo scopo della guerra (imporre la propria volontà) si
raggiunge oggigiorno per lo più non mediante generali, marmittoni, missili e
carri armati, ma, come scritto in un noto libro da due “bravi colonnelli”
cinesi, con manovre economiche e finanziarie, controllo dell’opinione pubblica,
incursioni informatiche, ossia con l’uso di mezzi non violenti, d’altra parte
sempre impiegati, ma con maggiore parsimonia anche in altre epoche.
Questo –
l’assenza, o meglio la rarefazione delle guerre – non significa né che venga
meno l’ostilità né che siano eliminati i conflitti d’interesse (anche) tra gli
Stati. E per difendersi non è spesso necessario l’uso di mezzi violenti; quello
che invece lo è, è la volontà di difendere l’interesse nazionale. Ne sta dando
continui esempi Trump, con minacce soprattutto di misure economiche (protezioniste)
ma di cui è altrettanto evidente sia il carattere di strumenti di una competizione
di potenza, sia quello di protezione degli interessi americani. American first non implica i marines al portone di casa, ma
sicuramente misure e rappresaglie non militari, comunque idonee a realizzare un
diverso – e non penalizzante per gli USA - rapporto tra Stati (e Nazioni). Fin
da quando fu teorizzata la “ragion di Stato” questa non ha significato l’uso
sconclusionato e ridondante della forza, ma l’impiego razionale dei mezzi
idonei a promuovere gli “interessi degli Stati”, cioè quello che Trump,
Salvini, Le Pen, e sovranisti ripetono molto spesso. Perciò le alternative reali
non sono la pace o la sovranità, come pensa l’ex-Rettore, ma la tutela degli
interessi nazionali o la loro subordinazione ad altri,
I quali poi, nel
mondo globalizzato, per lo più non sono neanche quelli di altri popoli, ma di
poteri forti e talvolta occulti che non
sono sintesi politiche, e
tantomeno hanno carattere democratico. Perché alle democrazie è necessario il
popolo, del quale quei poteri fanno tanto volentieri a meno. Ancor più quando
questo ha la pretesa di essere sovrano, cioè di decidere del proprio destino,
compresi i rischi che ciò comporta. Che poi sono relativi, perché si può “rinunciare” alla propria sovranità ma non alla sovranità, che se non è la propria è
quella degli altri. I quali (altri) decidono chi è il nemico cui è necessario
muovere guerre. Come ben sapevano i romani, i quali alle comunità sottomesse
toglievano il potere di decidere chi fosse il nemico o l’amico. Con il risultato
dover far le guerre e combattere il nemico degli altri.
Teodoro
Klitsche de la Grange
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