venerdì 14 dicembre 2018

Teodoro Klitsche de La Grange: «Democrazie illiberali?»


DEMOCRAZIE ILLIBERALI?
1.0 Dall’ascesa del populismo va di gran moda – dall’altra parte della “barricata” – parlare di democrazie illiberali.
Si è scoperto che “democrazia”, questo termine dalle molte definizioni, non è solo quella conosciuta nell’Occidente moderno: ma ve ne sono altre. Talk-show e commentatori, insomma, hanno ri-scoperto Benjamin Costant che, paragonando la libertà degli antichi a quella dei moderni ne evidenziava le differenti caratteristiche[1].
2. Per lo più tale illiberalismo dei vari Orban, Trump (?), Erdogan, Putin (scusate qualche omissione) e soprattutto Salvini-Di Maio è giudicato tale perché tende a promuovere una forma democratica di governo senza quelle garanzie che fanno parte della cultura liberale (libertà di manifestazione del pensiero, di associazione, di eguaglianza giuridica, in taluni casi di libertà personale). Secondo Orban il modello è quello di una “democrazia cristiana illiberale” questa si propone “di difendere i principi originati dalla cultura cristiana, quali la dignità umana, la famiglia, la nazione. E, pertanto, mentre la democrazia liberale è a favore del multiculturalismo, è pro-immigrazione e accetta diverse forme di unione familiare, al contrario, la democrazia illiberale dà priorità alla cultura cristiana, è anti-immigrazione e poggia sui fondamenti del modello familiare cristiano”. A giudizio di Sabino Cassese “Il primo ministro ungherese ha dichiarato più volte di voler realizzare una “democrazia illiberale”. Questo è un disegno impossibile perché la democrazia non può non essere liberale, La democrazia non può fare a meno della libertà perché essa non si esaurisce, come ritengono molti, nelle elezioni. Se non c’è libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non ci si può esprimere liberamente, e quindi non si può far parte di quello spazio pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può organizzare in partiti o movimenti, e la società civile può votare, ma non organizzare consenso e dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa, e le risorse economiche possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo. Se l’ordine giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà personale può essere limitata per ordine del ministro dell’interno (come è accaduto nei giorni scorsi in Italia), i diritti dei cittadini sono in pericolo. Insomma, come ha osservato già nel 1925 un grande studioso, Guido De Riggiero, nella sua Storia del liberalismo europeo. I principi democratici sono «la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo»: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e diritto del popolo di governarsi”.
Il tutto prefigura uno scontro di civiltà; come si legge sul Foglio (P. Peduzzi) del 28/08/2018 “la democrazia è diventata un patrimonio delle élite liberali, un privilegio acquisito di qualcuno a danno di altri. Se parli e difendi la democrazia sei figlio delle élite, della globalizzazione, dell’apertura, di quella cultura di mobilità e occasioni che fa parte dell’occidente: le nostre libertà non sembrano più un patrimonio comune, ma un ammennicolo di chi non comprende, o addirittura ignora e rifiuta, la volontà del popolo, la sua pancia… la democrazia liberale è un’equazione formata da due elementi principali. Uno riguarda la protezione delle persone da varie forme di tirannia – è il sistema istituzionale di divisione dei poteri. Il secondo riguarda il potere del popolo, la maggioranza che segnala qual è il proprio miglior destino” ma attualmente “lo scontro culturale si è trasformato del tutto. Da una parte ci sono dei democrati illiberali, una democrazia con pochi diritti, dall’altra c’è il liberalismo non-democratico, molti diritti senza democrazia, entità sovrazionali come l’Unione europea. In mezzo gli elettori che tra rabbia, malcontento, solitudine, intolleranze di vario tipo si muovono contro il sistema dei partiti tradizionali”. Al punto in cui siamo “la vittoria di Viktor Orban in Ungheria è la rappresentazione di questo scivolamento e della dicotomia tra democrazia e liberalismo… Il premier ungherese ha farcito la sua retorica elettorale e di governo con un piano preciso, che ha delineato lui stesso nel discorso che ha tenuto il 16 marzo scorso, in occasione del 170esimo anniversario della rivoluzione ungherese del 1848: “L’Europa, e al suo interno anche noi ungheresi, è arrivata a un punto di svolta della storia mondiale. Le forze nazionali e globaliste non avevano mai regolato i conti in modo così palese e pubblico prima d’ora. Noi, milioni di persone con forti sentimenti nazionali, siamo da una parte; le élite dei ‘cittadini del mondo’ sono dall’altra. Noi che crediamo negli stati-nazione, nella difesa dei confini, della famiglia e del valore del lavoro siamo da una parte. Contro di noi ci sono quelli che vogliono le società aperte, un mondo senza confini e senza nazioni, nuove forme di famiglia, lavori poco considerati e lavoratori a buon mercato – e sono tutti sovrastati da un esercito di burocrati nell’ombra che non devono rendere conto a nessuno. Da una parte ci sono le forze nazionali e democratiche; dall’altra le forze sovranazionali e antidemocratiche”. Tale scontro di civiltà anni fa ho pensato che fosse meglio riconducibile ad un nuovo contenuto della prevalente opposizione amico/nemico, che ha ridisegnato sia il “campo” della contesa che gli avversari[2].
La concezione della successione dei diversi discriminanti del politico e dei relativi “campi” è stata esposta da Carl Schmitt[3].
3. Sul piano concettuale democrazia e liberalismo sono stati distinti. La prima è un regime politico, che individua nel popolo il titolare della sovranità e quindi del potere politico; il secondo una “tecnica” per la limitazione del potere. In questo senso il liberalismo può accedere a qualsiasi regime politico “puro”: monarchia, aristocrazia, democrazia e loro “combinazioni” (status mixtus); nella storia ha generato sempre degli status mixtus, ma è prevalentemente associato alla democrazia.
Secondo la critica di Schmitt all’ideologia liberale manca un qualcosa che costituisca l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a intenderlo in senso ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di limitarlo. Onde aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un principio politico costitutivo è vano. Come ricorda Schmitt citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”.
Ne consegue, come scrive Schmitt nella Verfassungslehre, che “i principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica […] Da ciò consegue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali” (il corsivo è mio).
Il liberalismo può modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una democrazia liberale, ma non può eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in sé autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi politico-formali”.
L’errore di credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né soprattutto senza elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino del 1789: “Toute Sociétè dan laquelle la garantie des Droits n’est pas assurée, ni la séparation des Pouvoirs déterminée, n’a point de Constitution” (il corsivo è mio). Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo criticava nelle (entusiastiche) parole di adesione di M.me De Stael. Scriveva de Bonald che chiedersi se uno Stato esistente da secoli come la Francia, non avesse una costituzione, è come comandare a un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo dopo altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è , una costituzione. E lo stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto assoluto di costituzione come “concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente” e la cui forma “indica qualcosa di conforme all’essere, uno status, e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di normativamente dovuto”. Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come “vera” o “pura” costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di costituzione”. Ma ritiene il giurista di Pewttenberg “una costituzione che non contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[4].
Pertanto è evidente che nell’espressione “democrazia liberale” il sostantivo designa la forma politica (del potere), l’aggettivo le limitazioni introdotte al medesimo potere (i principi dello Stato borghese). Onde ben può esistere una democrazia – e in effetti ne sono esistite tante – che non sia limitata dall’aggettivo. Per la precisione alcuni dei diritti, garantiti della Costituzione, non sono solo necessari alla tutela del diritto del singolo, ma anche allo stesso esercizio libero e reale delle procedure democratiche – elezioni in primo luogo – come sottolinea Cassese.
L’ “illiberalismo” non consisterebbe nella mancanza  di protezione dei diritti fondamentali, ma specificamente di alcuni di essi,  particolarmente incidenti sulla formazione dell’opinione pubblica e sulla (concreta) libertà di decisione dei componenti il corpo elettorale.
Nella tipologia dei regimi democratici descritti da Norberto Bobbio nella voce “democrazia” del Dizionario di politica, le democrazie illiberali andrebbero ricondotte alla terza specie delineata dallo studioso torinese[5].
Quindi democrazie non liberali esistono, ma sono democrazie un po’… farlocche.
Nel notissimo discorso di Gettysburg, Lincoln chiese, nel luogo dove le cannonate nordiste avevano (da poco) autorevolmente interpretato a chi appartenesse la sovranità, una “definizione” di democrazia che è il caso di considerare.
Il Presidente dopo aver esordito “i nostri avi diedero vita, su questo continente, ad una nuova nazione, concepita nella Libertà e consacrata al principio secondo cui tutti gli uomini sono creati uguali” e ritenuto che il suolo della battaglia era consacrato dagli uomini che vi erano morti, cui nulla potevano aggiungere i vivi, concludeva così “Siamo piuttosto noi a dover essere consacrati al gran compito che ci rimane di fronte: che da questi nobili caduti ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero l’ultima piena misura della devozione; che noi qui solennemente ci si impegni a che questi morti non siano morti invano; che questa nazione, a Dio piacendo, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non scompaia dalla terra”.
Lincoln ribadiva così il legame tra Nazione e democrazia, già istituito da Sieyes. Una nazione di liberi ed uguali, che proprio perché tali hanno pari opportunità di accedere a (tutte) le funzioni pubbliche ed uguali diritti politici, il cui governo doveva essere sorretto dalla volontà e dal consenso popolare, e l’attività del quale doveva essere indirizzata e perseguire l’ “interesse generale” del popolo. A cui ovviamente, apparteneva la sovranità che così costituiva un potere eminente (anche “costituente”) al di sopra la legislazione e l’apparato pubblico e il cui esercizio era inalienabile ed inappropriabile (v. anche l’art. 3 della dichiarazione dei diritti francese del 1789 “Nul corps, nul individu ne peut exercer d’autorité qui n’en émane expressément”.
L’espressione di Lincoln, nella sua icasticità, non si presta a includere i principi dello Stato borghese (anche se non li esclude): al concetto di democrazia che se ne ricava, il liberalismo accede, come scritto, quale aggettivo.
4. Comunque è un fatto che la lotta della borghesia per il potere, si basava su due richieste fondamentali congiunte: la partecipazione alla direzione politica (elemento democratico) e garanzie dal potere politico (distinzione dei poteri e tutela dei diritti): tra i due c’è un evidente contraddizione poiché, almeno in determinate condizioni, la direzione politica, o meglio la sovranità, richiede la deroga della distinzione dei poteri che dalla tutela dei diritti fondamentali, come nello stato d’eccezione.
E, indipendentemente dallo stato d’eccezione vi sono zone del diritto pubblico in cui conciliare democrazia e tutela nei confronti del potere richiede il discostarsi da un’attuazione coerente del “compromesso” democratico-liberale: così per la giustizia politica, come anche per la giustizia amministrativa, perché a tacer d’altro, determinati atti, detti “politici” sono da sempre sottratti al sindacato giurisdizionale, ammesso in via generale[6].
Democrazia e liberalismo possono essere in contrasto, ma storicamente è solo l’unione dell’uno e dell’altro che ha consentito la nascita del moderno “Stato rappresentativo” (così denominato dai costituzionalisti d’un tempo come Orlando e Mosca) perché ha coniugato due elementi diversi – e talvolta opposti – ma politicamente sinergici. La prova storica a contrario è che, laddove si sono costruiti (nel XX secolo) regimi totalitari, alla abolizione delle forme e procedure democratiche (elezioni, pluritarismo, libertà di candidatura e di voto e così via) si è accompagnata quella dei principi dello Stato borghese: né distinzione tra i poteri, se questi competevano tutti al Fürher, né tutela dei diritti verso il potere politico (la giustizia amministrativa fu abolita dal nazismo e mai istituita degli Stati del socialismo reale). Così che del principio democratico e di quello liberale si può adottare il detto di Catullo “ncl tecum nec sine te vivere possum”.
5.0 Tuttavia, dato che risulta che in Ungheria da qualche anno (2011) è andata in vigore una nuova Costituzione, voluta da Orban – che era al governo (cui sono state apportate alcune modifiche successivamente innovazioni assai deprecate dai politici dell’U.E.).
Ad esaminare il testo di tale Costituzione, a parte la “professione nazionale”, questa non ha nulla di particolarmente diverso dall’impianto costituzionale di una democrazia liberale. Sono riconosciuti i diritti dell’uomo e del cittadino (art. XXX). L’organizzazione dello Stato si uniforma al principio di distinzione tra esecutivo, legislativo e giudiziario (art. 1-30). È prevista la Corte costituzionale (art. 24); c’è anche un “Commissario dei diritti fondamentali” per la protezione di questi (art. 30); i giudici sono indipendenti. È regolato lo stato d’eccezione (artt. 48-54) con possibile limitazione dei diritti fondamentali.
Nel complesso, e per quanto valga un testo costituzionale scritto, ovvero parecchio, ma non del tutto, e probabilmente meno dell’ordinamento costituzionale concreto (e della Costituzione materiale). appare  che sicuramente i principi dello Stato borghese di diritto sono applicati.
L’altro caso, che ha indotto il “viso dell’armi” dell’U.E. è la Polonia. Anche qui distinzione dei poteri e tutela dei diritti fondamentali sono previsti dalla Costituzione del 1997.
Tuttavia le preoccupazioni dell’U.E. sono state determinate dalle leggi del 2017 sul potere giudiziario così da avviare una procedura d’infrazione ai sensi dell’art. 7 par. 1 TUE avendo l’organo comunitario constatato l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave e persistente dello Stato di diritto. La normativa suddetta apportava modifiche alla Corte Suprema e al Consiglio Nazionale della magistratura, che ha fatto seguito a leggi sui mezzi d’informazione, sui poteri della polizia e sul Difensore civico.
Tale normativa – che aveva generato un duro scontro tra maggioranza (del Partito “Diritto e giustizia”) e le opposizioni - concerneva l’accesso al Parlamento dei giornalisti e il rinnovo  della dirigenza dei media pubblici. La legge sui media ha previsto l’immediata sospensione di tutti i membri delle direzioni, nonché dei consigli d’amministrazione dei media pubblici. Tuttavia  non sono state riesumate le disposizioni, abolite nel 1990, “classiche” per il controllo dell’informazione: censura e monopolio pubblico, almeno dei mezzi di comunicazione via etere.
In altre parole sembra che la situazione del diritto di espressione/informazione della Polonia attuale somigli parecchio a quella dell’Italia fino agli anni ’70 (inoltrati): un monopolio dell’etere affiancato da un pluralismo della stampa.
Situazione sicuramente non ottimale, ma comunque di limitata pericolosità e che, se non genera una condizione ideale, non appare idonea a connotare addirittura come “illiberale” uno Stato che, almeno dalle disposizioni costituzionali, appare modellato sui principi dello Stato borghese di diritto.
Vero è che altro è scrivere delle commoventi e condivisibili norme nei testi costituzionali e altro dare loro attuazione nella legislazione e nella prassi amministrativa. In specie noi italiani conosciamo bene la prassi di proclamare diritti altisonanti nella costituzione per poi tradirli nella successiva attuazione.
La stufenbau nazionale è essenzialmente cartacea: la costituzione dispone X, il legislatore, profittando delle equivocità della norma superiore e/o del carattere compromissorio[7], emana la legge Z, e l’amministrazione, sulla base di questa, il provvedimento Y. Spesso tra il “prodotto finito” (cioè il comando concreto) e la norma iniziale c’è una divaricazione evidente; in diversi casi una contraddizione manifesta, se non con la lettera, con lo “spirito” della norma superiore.
Pertanto appare maggiormente trasgressiva dei principi dello Stato di diritto, in larga parte trasfusi nella Convenzione EDU - ed in effetti è la causa della mole di lavoro prodotta per l’Italia dalla Corte EDU - la violazione negli atti concreti (sentenze, provvedimenti e così via) di quanto disposto al vertice della piramide.
D’altra parte, se andiamo alla definizione di “Stato di diritto” (nel senso di democrazia liberale o di “Stato borghese di diritto”), questo si basa, oltre che su quelli cennati, sull’uguaglianza di fronte alla legge, sulla “difesa giuridica” nei confronti del potere, e sul principio di legalità.
Non c’è quindi un sostanziale discostamento di Polonia e Ungheria dai “connotati” dello Stato di diritto. E neanche dallo “Stato costituzionale di diritto” giacché le due citate costituzioni prevedono un controllo di costituzionalità esercitato da una Corte apposita sugli atti legislativi.
Tuttavia è chiaro che una approssimativa garanzia della libertà di informazione è un vulnus alla concezione liberale dello Stato, anche se le limitate compressioni di questo, paragonate alle ben più gravose limitazioni imposte in altre democrazie, non sono tali da giustificare l’espressione di “illiberali”.
Piuttosto il fatto che i leaders di Ungheria e Polonia dichiarino essi stessi di volere una “democrazia (cristiana) illiberale” (o altre consimili) ha fornito il destro per vedere nel loro comportamento molto più illiberalismo di quanto ce ne sia.
Del pari quell’ “illiberalismo” parte dall’identificazione del liberalismo con l’ideologia della globalizzazione. Il che non è vero, se non in parte, giacché la democrazia liberale risulta sempre dall’unione di un principio di forma politica (democrazia) con quelli dello Stato borghese. Senza quella, o almeno senza uno Stato che assicuri l’applicazione del diritto non c’è neanche la garanzia dei diritti, fondamentali e non.
Scriveva Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta”[8]: senza uno Stato i diritto non hanno realtà. Lo sanno bene i globalisti i quali in sostanza vogliono ancora gli Stati, ma sottoposti a poteri non statali, non democratici, e forse anche non “politici”, che cercano – e in gran parte riescono – a dominare.
Teodoro Klitsche de la Grange


[1] Costant parlava di “libertà” più che di regimi politici; ma la distinzione tra la libertà dei moderni e quella degli antichi, corrisponde a quella tra “libertà da” e “libertà di” (Berlin) ossia tra diritti “liberali” di separazione tra Stato e società civile (Schmitt) e diritti (democratici) di partecipazione al potere. Ne riportiamo i passi fondamentali del famoso discorso di Costant, il sistema rappresentativo “è una scoperta dei moderni e vedrete, Signori, che la condizione della specie umana nell'antichità non permetteva a un'istituzione di questo tipo di introdurvisi o di stabilirvisi. I popoli antichi non potevano sentirne la necessità né apprezzarne i vantaggi. La loro organizzazione sociale li conduceva a desiderare una libertà completamente diversa da quella che questo sistema ci assicura … Chiedetevi innanzi tutto, Signori, che cosa intendano oggi con la parola libertà un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti d'America. Il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell'arbitrio di uno o più individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua proprietà e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne ottenere il permesso e senza render conto delle proprie intenzioni e della propria condotta. Il diritto di ciascuno di riunirsi con altri individui sia per conferire sui propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di ciascuno di influire sulla amministrazione del governo sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l'autorità sia più o meno obbligata a prendere in considerazione. Paragonate ora a questa libertà quella degli antichi. Essa consisteva nell'esercitare collettivamente ma direttamente molte funzioni dell'intera sovranità, nel deliberare sulla piazza pubblica sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi; nell'esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire dinanzi a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli o assolverli. Ma se questo era ciò che gli antichi chiamavano libertà, essi ritenevano compatibile con questa libertà collettiva l'assoggettamento completo dell'individuo all'autorità dell'insieme. Non trovate presso di loro alcuno dei godimenti che abbiamo visto far parte della libertà dei moderni. Tutte le azioni private sono sottoposte a una sorveglianza severa. Nulla è accordato all'indipendenza individuale né sotto il profilo delle opinioni, né sotto quello dell'industria, né soprattutto sotto il profilo della religione. Così presso gli antichi l'individuo, sovrano quasi abitualmente negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino egli decide della pace e della guerra; come privato è limitato, osservato, represso in tutti i suoi movimenti; come parte del corpo collettivo interroga, destituisce, condanna, spoglia, esilia, manda a morte i suoi magistrati o i suoi superiori; come sottoposto al corpo collettivo può a sua volta essere privato della sua condizione, spogliato delle sue dignità, bandito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell'insieme di cui fa parte. Presso i moderni, al contrario, l'individuo, indipendente nella sua vita privata, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in apparenza. La sua sovranità è limitata, quasi sempre sospesa; e se, a epoche fisse ma rare nelle quali è pur sempre circondato da precauzioni e ostacoli, esercita questa sovranità, non lo fa che per abdicarvi”. Sieyès aveva già delineato il fondamento della rappresentanza politica nel discorso all’Assemblea Nazionale del 7/09/1989 sul “Véto royal” (v. Behemoth n. 1). Distinguendo tra categorie di “diritti”, il pensatore di Losanna formulava così la distinzione essenziale tra regimi politici.
[2] Mi si consenta di rinviare al mio articolo “Sentimento politico, Zentralgebiet e criterio del politico” pubblicato in traduzione spagnola in Ciudad de los  Cesares (Santiago – Chile) n. 110 marzo 2017; ora disponibile (su stampa) in italiano negli Annali della Fondazione Spirito de Felice 2018 pp. 135 ss..
[3] Nella conferenza Das Zeitaler der Neutralsierung und Entpolitisierungen  trad. it. di P. Schiera in C. Schmitt Le categorie del politico, pp.    Bologna 1972.
[4] V. Carl Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo Dottrina della costituzione, Milano 1983, p. 64.
[5] v. “Modelli ideali più che tipi storici sono le tre forme di democrazia analizzate da Robert Dahl nel suo libro A preface to Democratic Theory (1956); la democrazia madisoniana, che consiste soprattutto nei meccanismi di freno del potere e quini coincide con l’ideale costituzionalistico dello Stato limitato dal diritto o del governo della legge contro il governo degli uomini (in cui si è sempre manifestata storicamente la tirannia); la democrazia populistica, il cui principio fondamentale è la sovranità della maggioranza; la democrazia poliarchica, che cerca le condizioni dell’ordine democratico non in espedienti di carattere costituzionale, ma in prerequisiti sociali, cioè nel funzionamento di alcune regole fondamentali che permettono e garantiscono la libera espressione del voto, la prevalenza  delle decisioni che hanno avuto il maggior numero di voti, il controllo delle decisioni da parte degli elettori ecc.” v. voce citata, Edizione De Agostini – L’Espresso 2006, p. 513.
[6] Per la giustizia politica ricordiamo quanto scrive Schmitt “Nelle controversie, che a seconda della loro fattispecie o oggetto, quando sia attuata una forma generale di giurisdizione, debbano essere decise per competenza dai tribunali generali – civili, penali o amministrativi -, il carattere politico della questione o l’interesse politico all’oggetto della controversia può venire così fortemente in risalto che anche in uno Stato borghese di diritto deve essere presa in considerazione la caratteristica politica di questi casi. In ciò consiste il vero problema della giurisdizione politica… qui deriva sempre il caratteristica allontanamento dalla forma giurisdizionale tipica dello Stato di diritto, la considerazione del carattere politico attraverso particolarità organizzatorie o d’altro genere con le quali si attenua il principio tipico dello Stato di diritto della giurisdizione generaleVerfassungslehere trad. it. di A. Caracciolo La dottrina della Costituzione, Milano 1984 pp. 182-183; per gli atti politici mi si consenta di rinviare a quanto da me scritto in Temi e Dike nella decadenza della Repubblica in Rivoluzione liberale.
[7] Nel senso del “compromesso” formale dilatorio di Schmitt
[8] § 260 dei Lineamenti di filosofia del diritto.

martedì 27 novembre 2018

Sulla “globalizzazione”: una recensione di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Carlo Calenda

Acquisto Amazon.
Carlo Calenda, Orizzonti selvaggi, Feltrinelli, Milano 2018, pp. 216, € 16,00.

Il saggio di Calenda è una riflessione sulla globalizzazione e sull’antagonista da esso generato, ossia il populismo. Al contrario di altri, critica gli eccessi della globalizzazione, con la conseguenza che ha indotto. Scrive l’autore che nel ventennio tra il 1989 (caduta del muro di Berlino) e il 2008 (inizio della crisi) si è avuta una separazione tra politica e potere “La separazione tra politica e potere deriva da errori interni alla politica, ma è anche un frutto guasto della prima fase della globalizzazione e dell’ideologia che l’ha ispirata. La politica deve tornare ad avere il potere di indirizzare gli eventi a partire dall’oggi… La ricerca della rappresentanza è stata sostituita dalla retorica della competenza. La tecnica ha sostituito il pensiero politico e poi la politica stessa”. Si è rotta la relazione di fiducia tra i cittadini e la classe dirigente “Questa frattura si è allargata rapidamente, poi nel 2008 la prima fase della globalizzazione si è chiusa, traumaticamente e i suoi dogmi sono crollati, insieme al progetto egemonico dell’Occidente iniziato nell’89”.
L’ “ideologia del potere”, cioè il progresso non è più creduta dalle masse. È la paura del presente su cui insistono le forze populiste a determinare la loro ascesa “I populisti prevalgono, pur rimanendo inconsistenti sul piano delle proposte, perché riconoscono le paure contemporanee, mentre i progressisti hanno venduto e continuano a vendere le meraviglie di un futuro lontano”.
A differenza di altri, pregio di questo libro è di fare l’autocritica (dei favorevoli alla globalizzazione) e di riflettere sulle cause di una decadenza, specie in Italia assai accelerata dalla vecchia élite e dal sistema politico da essa costituito.
L’autore ricorda i dieci fallimenti del “progetto egemonico dell’Occidente” indotto dalla globalizzazione: il lavoro che è diventato una commodity, l’iniquità della distribuzione del carico fiscale, la sregolarizzazione della finanza, l’insostenibilità del modello di sviluppo (ed altri). Ma anche i successi: il progresso economico dei paesi in via di sviluppo (è il dato più favorevole) la diminuzione dei prezzi nei paesi sviluppati (sul che ci sarebbe da discutere) le istituzioni di governance internazionale.
Il populismo, di converso rifiuta l’ipotesi tecnocratica e “ha ridato centralità all’oggi ma soprattutto alla rappresentanza contro la retorica della competenza”, mentre “le classi dirigenti liberali hanno pensato di poter sostituire la rappresentanza con la competenza per un trentennio, in forza del fatto che il pensiero liberale era l’unica “narrazione globale” sopravvissuta, compito della politica era esclusivamente applicare tecnicamente i principi di questo pensiero”. Ma “la democrazia non si fonda sul cv, ma sulla rappresentanza, e le elezioni non sono un colloquio di lavoro. La rappresentanza non dipende dalla competenza tecnica ma dalla capacità di essere in contatto con la società”. Peraltro il tutto, nella migliore delle ipotesi, ha provocato uno iato tra efficienza e giustizia; ma “la mancanza di etica nel capitalismo contemporaneo è una delle cause fondamentali della sua crisi di reputazione”. L’ideologia della globalizzazione ha favorito il dumping da parte della Cina “L’industria dell’acciaio è stata distrutta dalla competizione scorretta cinese dovuta a una sovrapproduzione largamente incentivata dallo Stato in barba a ogni norma del Wto”. L’antagonista sovran-populista ha soprattutto sfruttato la paura provocata dalla crisi, dalla migrazione e dalla “revisione” dello Stato sociale; d’altra parte, scrive – a ragione – Calenda, la sinistra ha perso il contatto con la propria base “Un caso esemplificativo della mancanza di qualsiasi riflessione sulle ragioni della sconfitta è quello della manifestazione che il Pd ha deciso di dedicare “all’Italia che non ha paura”. Vale a dire ai vincenti, gli unici che infatti continuano a votarlo. Non sono un appassionato di distinzioni tra destra e sinistra ma una cosa mi è chiara: la sinistra nasce per difendere chi ha paura, non per allontanarlo. Qualsiasi nuovo progetto politico che abbia l’ambizione di diventare maggioranza deve partire da qui: dare rappresentanza all’Italia che ha paura”. Il progetto politico proposto è “aperto”: “Le linee di demarcazione tra destra e sinistra si sono spostate. La vera discriminante oggi è tra chi vuole rinnovare la democrazia liberale mantenendone i valori di fondo e chi invece vuole sostituirla con una democrazia illiberale, infetta e manipolata”. In altri termini il nascente “partito globalista”.
Questo libro ha due pregi, che sono anche due difetti: tiene conto che è cambiato il contenuto dell’opposizione amico/nemico, per cui riproporre la vecchia scriminante del secolo breve, ossia borghese/proletario è inutile e politicamente debole. Se il comunismo dal 1991 è stato collocato nell’archivio della Storia, è inutile combatterci contro. Tuttavia, specie in Italia, la lentezza delle classi dirigenti, ma quella di centrosinistra ancor più che quella di centrodestra, nel valutare la nuova situazione, rende problematico recuperare il (troppo) tempo perduto.
Dall’altra la seconda componente fondamentale del successo del populismo, già sottolineato negli anni ’90 del XX secolo, tra gli altri, da Lasch e Paul Piccone, e cioè la frattura tra popolo ed élite che non condividono più l’ethos delle masse, così che “si sono estraniate totalmente dalla vita comune” (Lasch), appare altrettanto forse più difficile da superare. Il rigetto dell’elettorato nei confronti dell’ “ancien régime”, specie in Italia e così esteso e diffuso che anche una radicale rottamazione potrebbe non bastare.
Anche perché molti delle “nuove leve” condividono (gran parte degli) errori e degli idola delle vecchie volpi, almeno di quelle della “seconda Repubblica”. Comunque, malgrado la strada in salita, il percorso di Calenda è nella direzione giusta. Auguri.
Teodoro Klitsche de la Grange
-->

mercoledì 21 novembre 2018

Teodoro Klitsche de la Grange: «Bismarck e Mattarella»


BISMARCK E MATTARELLA
Tra le tante novità che si leggono (e vedono) in questa fase di transizione, e probabilmente di “dualismo di poteri”, da qualche settimana si attribuisce a Mattarella l’intenzione - ed il potere – di non firmare la legge di bilancio. La possibilità è stata ripetutamente avanzata; si è letto (sulla rete) che “il cerino sarà sempre nelle mani del presidente Mattarella, alla fine. Sarà lui, infatti, che deciderà con la sua firma se la Legge di bilancio del governo gialloverde sarà legge dello Stato o meno. E, a dispetto di quanto si pensi, non è una scelta scontata, né un mero atto formale”. Qualche costituzionalista è intervenuto, ricordando all’uopo gli artt. 81 e 97 della Costituzione, nonché gli immancabili vincoli europei e qualche opinione di uffici. La soluzione appare dubbia.
Piuttosto che lottare – normativisticamente - fino all’ultimo cavillo, a mio sommesso avviso occorre prendere esempio da chi giurista (di professione) non era, ma statista - ed ai massimi livelli -  sicuramente si, come Otto von Bismarck.
Questi, chiamato a risolvere il conflitto costituzionale prussiano, ed (anche) all’uopo nominato cancelliere dal Re di Prussia, dette una propria interpretazione del rapporto tra organi costituzionali relativamente al bilancio dello Stato. In un discorso al Landtag affermò “su ciò che sia giusto quando nessun bilancio viene approvato, sono state messe insieme teorie sul cui giudizio non voglio qui impegolarmi”, ma data la diversità delle opinioni giuridiche, la soluzione data dal “cancelliere di ferro” era altra: “basta per me la necessità che lo Stato esista e che neanche nelle più pessimistiche visioni si lasci accadere ciò che succederebbe se la cassa chiudesse. Solo la necessità è determinante; di questa necessità abbiamo tenuto conto e Loro stessi non chiedono che noi avremmo dovuto sospendere il pagamento degli interessi e degli stipendi ai funzionari” (si rivolgeva all’opposizione liberale). Tale teoria fu chiamata “teoria del gap”: quando c’è uma “lacuna” costituzionale non si può abolire lo Stato (salus reipublicae suprema lex) rendendone impossibile l’esercizio delle funzioni; onde (nella monarchia costituzionale prussiana) spettava al Re – e al suo governo – continuare a garantire il funzionamento (cioè l’esistenza) dell’istituzione statale, anche senza bilancio approvato.
Una tale situazione era in linea con quanto avrebbe sostenuto, decenni dopo, Santi Romano (e non solo).
Piuttosto occorre chiedersi a chi spetti di “colmare la lacuna” (il bilancio “non firmato”) in una Repubblica parlamentare come quella italiana
Non c’è dubbio che più che gli artt. 81 e 97 della costituzione, vadano applicati gli artt. 1 (la sovranità appartiene al popolo) e l’art. 67 (il Parlamento – anzi ogni membro di questo - è rappresentante dalla Nazione); tuttavia anche il Presidente della Repubblica rappresenta “l’unità nazionale” (art. 87) ed ha quindi carattere di organo rappresentativo.
A risolvere il problema di chi debba prevalere nel caso della “lacuna” costituzionale soccorre (a tacer d’altro) il carattere parlamentare della Repubblica e la teoria di Hauriou del Pouvoir déliberant. Scriveva il giurista francese che il potere déliberant di una tipica (la prima – sosteneva – al mondo) repubblica parlamentare come la III Repubblica francese era quello del parlamento, non essendo limitato alle funzioni legislative, ma colmo di ben più importanti funzioni politiche (la fiducia al governo, l’approvazione del bilancio, la ratifica dei trattati, la deliberazione sullo stato di guerra e così via), il quale aveva così anche il potere di allargare o stringere i condoni della borsa. Tradotto ai tempi nostri (e tenuto conto che il giurista francese riteneva comunque principale potere quello governativo-esecutivo), la “centralità” del parlamento comporta che in caso di contrasto o di “lacuna” sia questo a colmarla.
D’altra parte, in una Repubblica parlamentare il governo, ossia il potere che ha in mano l’organizzazione dello Stato, dipende dalla fiducia del parlamento; mentre nella monarchia costituzionale dipende da quella del Re.
Difficilmente l’esperienza e la prudenza del Presidente lo porranno in una situazione di “conflitto costituzionale” con l’effetto politico di alimentare la straripante ondata populista; tuttavia è bene ricordare che oltre all’articolo tale e comma tal altro, le costituzioni – e i rapporti costituzionali – sono fatte per rendere possibile l’esistenza e l’azione della comunità, e non per impedirle.
Teodoro Klitsche de la Grange

lunedì 19 novembre 2018

Oggi, come allora: contro il Trattato di Pace!

Fare il Direttore di una Rivista, come fu “Behemoth”, senza prendere il becco di un quattrino e svolgendo tutte, ma proprio tutte le funzioni, dal facchino, al trasportatore, allo spedizioniere, al traduttore, al collaboratore, autore e coautore, condirettore, ed altro ancora, era cosa che solo un giovane poco accorto, come ero allora, nel 1987, poteva fare... Ma adesso, nel 2018, mi accorgo che era giuste e azzeccate le cose viste e pensate allora, nel 1987, quando eravamo andati a pescare un articolo del 1948 (non ero ancora nato, e Teodoro forse nasceva proprio quell'anno) di Vittorio Emanule Orlando. Me ne sono accorto l'altro giorno, alla presentazione dell'ultimo libro dell'amico Nino Galloni, il cui lavoro apprezzo molto e ai cui eventi librari e conevegnistici, potendo, non manco mai...

A presentare il libro era un giornalista di Repubblica, giornale che detesto ed al quale ho votato una inimicizia assoluta, e Antonio Maria Rinaldi, di cui vedo adesso in internet un suo libretto dove nel titolo si parla di “sovranità” che dice lui “appartiene al popolo”. Il mio primo incontro con Rinaldi risale a un incontro di attivisti del m5s, dove credo avessimo fatto venire un portavoce, che si era specializzato nelle assicurazioni auto, ma credo che oltre a questo argomento di null'altro si intendesse... Non ho capito se questo incontro abbia poi a lui fruttato qualche incarico governativo e a me l'espulsione dal m5s. Infatti, fra i tre dell'incontro dibattito alla libreria Hora Felix era il solo dichiaratamente filogovernativo. Ma non è questo il punto.

Nei miei studi universitari ho superato dignitosamente 8-10 esami di economia. Sono stato pure allievo di Paolo Baffi, che veniva citato spesso in un altro evento presente Bagnai, al quale chiesi se avendo superato l'esame con Paolo Baffi, ottenendo un trenta con lode e perfino dedica sul libro, potevo considerarmi anche io per lo meno un cultore di economia, oppure per “economisti” debbano intendersi unicamente i docenti universitari... Bagnai - bonta sua - rispose che economista lo sono e per giunta fornito di parecchia ironia... Ho detto allora che non ho molta considerazione dello statuto scientifico di questa materia. Ed è per questa ragione che nei miei studi mi sono orientato altrove. Oggi però l’«economichese» è un linguaggio più diffuso dell'inglese. Tutti ne parlano, tutti ne sanno l'uno più dell'altro, ma il guaio è che non si trovano mai d'accordo e l'uno dice il contrario dell'altro. Fu per me probatorio, nei miei pregiudizi, un'ammissione fatta in una sede qualificatissima, un Seminario interno alla Sapienza, riservato a noi docenti, anche di altre discipline, dove i colleghi economisti avrebbero dovuto spiegarci quello che stava succeedendo. E qualcuno disse in quella sede che neppure loro economisti ci capivano nulla... In breve, la mia opinione al riguardo è la seguente. Dietro ogni economia vi è sempre la politica, ossia una decisione politica, e gli economisti sono dei meri esecutori chiamati a mettere in pratica ciò che la politica decide.

Come che sia, all'incontro amichevole di Hora Felix, la mia attenzione è caduta sul fatto che pur parlando di economia si chiamava sempre in causa la Costituzione... Il fondamento dei ragionamenti che venivano fatti approdava poi alla costituzione, come se questo fosse un concetto dato per tutti e non bisognoso di nessuna definizione e nessun approfondimento. Non avendo un particolare interesse per l'economichese, e rimettendomi in questa materia a chi dice di saperne, ho invece pensato che poteva intervenire in un campo a me più proprio, avendo a suo tempo non solo tradotto la Dottrina della costituzione di Carl Schmitt,  ma avendola anche assunta come una base costante di riflessione sui fatti politici. Chi conosce questo testo sa che una delle distintizioni fondamentali è fra norme costituzionali in senso proprio, quelle che caratterizzano e fondano una costituzione, che non può prescindere dall'esistenza della sovranità, e norme aggiunte, di rango costituzionale, la cui modifica richiede una procedura aggravata e che vengono messe per dare protezione a determinati interessi settoriali.

Ha scosso la testa Antonio Maria Rinaldi quando nel mio intervento, dal pubblico, uno dei primi, stavo dicendo che la nostra costituzione non deve essere intesa come una scrittura magica, quando sostanzialmente essa è stata dettata nella spartizione di Yalta, quando l'Italia toccò agli anglosassoni con relativa licenza di plasmarla a loro immagine e somiglianza, secondo i loro desideri e i loro interessi. Certo, lo sappiamo tutti, vi fu poi l'elezione di una Assemblea Costituente, che si mise a redigere il testo sacro che tutti conosciamo e del cui valore e senso ognuno puà giudicare. Anche da ragazzino non mi sono sono mai accorto che la Costituzione fosse la stessa cosa del Vangelo. Qui vi è qualcosa che dovrebbe apparire ovvio non già al Buon Senso che richiede un poco di raziocinio, ma al volgare Senso Comune che deve soltanto guardare quel che vede. Dal 1945, anzi dal 1943, l'Italia è un Paese dapprima invaso e poi da allora sempre occupato, con eserciti stranieri distribuiti su tutta la penisola e con guerre che è costrette a fare su comando altrui, come gli Stati Vassalli dell'antichità.

Antonio Maria Rinaldi
Quale sovranità può avere un simile Paese? E se la sovranità è condizione prelimininare e inscindibile quale Costituzione può avere un simile Paese? Oggi con lo spettacolo delle “rivoluzioni colorate" e delle "primavere arabe” è sotto gli occhi di tutti come il Liberatore Invasore adotti come suo prima atto la Costitizione che il popolo sconfitto deve darsi, una costituzione che diventa carta straccia appena arrivano disposizione dall'Alto. Èmblematico il nostro art. 11 dove il Padrone prima ci castra dicendo che non soggetti rifiutiamo per principio la guerra, ma poi ci ordina di farla in tutti gli scenari internazionali dove ci si vuol mandare, Il caso della Libia è di una evidenza che più evidente non si può, si muore. Non si era ancora asciugato l'inchiostro del trattato di amicizia con il popolo libico che da chi ci governa viene subito violato, e da lì a qualche mese - si legge nel recente libro di T. Meyssan, Sotto i nostri occhi - «I cecchini italiani sui tetti assassina manifestanti e poliziotti di bengasi, scatenando il caos, mentre Al Qaida assalta gli arsenal» (ivi, p. 245). Per quanto se ne sa, ed è di pubblico dominio, il “tradimento” dell'Italia a un patto sottoscritto ebbe origine da un ordine partito da Obama a Napolitano, con semplice telefonata.

Vittorio Emanuele Orlando
E mi avvio alla conclusione di questa chiacchierata informale, stile facebook, per introdurre il testo di Vittorio Emanuele Orlando che insieme con Teodoro avevamo pubblicato nel 1987 io e Teodoro, con una sua Introduzione a quel testo che ora riplubblico. In altro post autonomo pubblico anche un più ampio articolo di Teodoro sul pensiero politico di giurista e uomo politico morto nel 1952. È rimasta celebre un'espressione del discorso parlamentare dell'uomo politico siciliano: la “cupidigia di servilità” con la quale il governo dell'epoca si affrettò a firmare il Trattato di Pace che ci veniva imposto. Ecco la mia consapevole e dichiarata provocazione che faccio pubblicamente a Antonio Maria Rinaldi, oggi star televisivo, che non ha voluto ascoltarmi con la necessaria attenzione, essendo il tema arduo, e che poi alla domanda: «cosa è una costituzione?» non ha saputo rispondere meglio di quanto possa fare uno studente del primo anno che non supera l'esame di diritto costituzionale. L'articolo fondamentale della costituzione non è quello scritto al n. 1: la sovranità appartiene al popolo, sempre preso per i fondelli da 70 anni a questa parte. Ma è un altro! Non scritto nel testo della costituzione. Quello denunciato da Vittorio Emanuele Orlando: la cupidigia di servilità. È un principio basilare al quale si sono tenuti fedelissimi tutti i governi dal 1945 ad oggi, incluso quello Salvini-Di Maio, che hanno confermato la loro fedeltà assoluta e imperitura a Usrael! In ottemperanza a questo principio si spiega l'atteggiamento “filogovernativo» di Rinaldi, di cui non ho capito se ha ricevuto un incarico o lo stia aspettando. Non so e ignoro se vi siano stati contatti formali e accordi sottoscritti, ma è nelle logica delle cose  che un Rinaldi venga premiato dalla dalla Casaleggio Casalino, ed io espulso dal m5s2009, benché poi reintegrato da un Giudice. Ad Antonio Maria ho stretto la mano a conclusione dell'evento-presentazione del libro di Galloni. Questo non è un attacco, ma l'esposizione di un mio pensiero che lui non ha avuto la pazienza e la cortesia di ascoltare e comprendere nella sua portata e nella sua implicazione. Usa facebook, ma io l'ho dovuto rimuovere dai miei contatti per suo Like su un sito sionista, da cui ero stato attaccatto con ricadute anche processuali. Adesso mi richiede l'amicizia fb, ma non posso di nuovo concederla per saturazione tecnica da parte sua: ha superato i 5000 amici e non ne può avere altri. Io tengo una soglia selezionata di 3650 amici. Glielo ho scritto nei "nessaggi" che evidentemente neppure legge, troppo impegnato ad andare per televisioni.

PS. Ecco il Video dell'evento, svoltosi alla libreria Hora Felix. Lo rivedrò, ma ero presente... Non se se alla fine vi sarà la registrazione del mio intervento, che è stato fra i primi dal pubblico. Non mi pronuncio sui temi economici, sulle loro analisi, sulle soluzioni prospettate. La mia impressione era e resta che vi è una evidente fragilità nella concezione della costituzione e dei fondamenti della politica. Qualsiasi voglia essere la soluzione proposta per uscire fuori dalla crisi, ciò può essere fatta solo da un soggetto politico, che faccia poi bene o male la sua parte. Ma senza di esso vi può essere solo un inutile cicaleccio e un turpe protagonismo televisivo. Ormai pe rme la televisione è insopportabile e "non vedibile", neppure quando famosi esperti vengono chiamati per illuminare i telespettatori, in realtà manovrati, manipolati, ingannati dal conduttore della trasmissione, che ha sempre in mente una sua tesi e una posizione a cui vuol guadagnare gli incauti che cadono, si imbattono nella sua rete televisiva.

Antonio Caracciolo


CONTRO IL TRATTATO DI PACE
Orlando ed il tramonto dello jus publichum europaeum.
Discorso pronunciato all’Assemblea Costituente il 30 luglio 1947

È diventato quasi un luogo comune che il XX secolo, col suo irenismo umanitario e le sue guerre totali, ha innovato anche quella regola, essenziale alla limitazione della guerra stessa, che vuole si concluda con un trattato in cui due o più Stati, entrambi sovrani, traggono le conseguenze dell’esito del conflitto, dando una nuova regolamentazione giuridica agli interessi delle nazioni ed inaugurando un periodo di pace reale e - entro certi limiti - stabile.

Dal Croce delle “Pagine sulla guerra”, allo Schmitt del “Begriff des politischen”, passando per le pagine di Santo
Romano e questo discorso di Vittorio Emanuele Orlando, fino alle considerazioni sui trattati di pace di Julien Freund, è stato notato che sono venuti meno i presupposti su cui reggevano queste consuetudini.

Le ragioni di ciò sono molteplici: il carattere internazionale (più che interstatale) del conflitto; l’irruzione delle masse nella politica e nella guerra attraverso la coscrizione obbligatoria; il carattere totale della guerra stessa; il richiamo ad una distinzione amico-nemico che non coincide più con quella nazionale; il moralismo che conferisce nuovamente alla guerra il carattere di conflitto di religione.

Un giurista e statista come Orlando intuisce che con quel trattato di pace imposto all’Italia si stava consumando un altro, ennesimo, vulnus ai principi dello jus publicum europaeum e che dietro il trattato si vedevano non solo le unghie e le zanne del leone, del vincitore che ottiene i frutti della vittoria, ma anche le astuzie della volpe, che condiziona la firma del trattato all’ingresso dell’Italia in un consesso, l’ONU, di cui quarant'anni di esperienza storica hanno mostrato l'inutilità, che è quello di una istituzione volutamente pensata e realizzata senza tener conto delle costanti del politico, onde riesce, solo e talvolta, a mascherarle in forme nuove.

Orlando mostra come nel trattato si abbandoni quella parità giuridica tra vinto e vincitore, che, in termini politici e di mera forza è - in parte - una fin zione, ma è una di quelle finzioni su cui si costruiscono la pace e le alleanze più durature. In sostanza col trattato si introducevano delle limitazioni alla sovranità italiana, per certi versi umilianti (come quella sulla giurisdizione).

Altre ne sarebbero seguite forse meno dichiaratamente tali; e che erano l’atto d'ingresso formale (quello sostanziale si era consumato tra 1’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945) dell’Italia nel Grossraum dell'impero nordatlantico.

In un impero la sovranità degli Stati dev’essere per forza limitata: Breznev non ha inventato nulla che non fosse già avvenuto, necessario e quindi prevedibile.

E, si noti, proprio verso l’Italia questo lacunoso riconoscimento dello status di justus hostis, di nemico sì, ma “eguale” e sovrano, era parallelo al mancato riconoscimento dello status di alleato: non giovava all’Italia di collaborare con gli alleati, né di pagare un tributo di sangue con le forze partigiane e con l’esercito regolare. La parola cobelligerante (che si noti, non denota né l’amico né il nemico) era impiegata per definire una condizione ibrida, sospesa tra la pace e la guerra, tra l’inimicizia e l’alleanza. Una delle caratteristiche della guerra è che lottare contro, vuol dire lottare con (De Benoist): questo finché il nemico è colui con il quale, oltre a fare la guerra, si negozia la pace.

Ma, nel caso dell’Italia anche lottare con, non fruttava il riconoscimento di tale “status”: era, invece, la consacrazione di un rapporto tra ineguali a tratti simili a quello tra potenze coloniali e capi afro-asiatici, cui gli eserciti o i sudditi offerti alle guerre tra potenze europee non davano il diritto di essere riconosciuti soggetti con cui trattare in condizioni di parità.

Questo intervento parlamentare è così ricco di idee e spunti politici, storici e giuridici, che esaminarlo sotto un solo aspetto, ancorché il principale, appare un torto all’acume ed alla ricchezza di pensiero di Orlando. Lasciamo al lettore coglierne tutte le sfaccettature; ma nel congedarci, non possiamo tralasciare qualche considerazione.

In primo luogo che è un discorso di un uomo di Stato e non di un politico (tanto meno di partito); i referenti culturali ed il respiro storico sono così evidenti che lo distinguono nettamente da quell’altra categoria - di politica “minore” - di cui era composta la grande parte del suo uditorio; poi Orlando, da buon liberale, mostra che esigenza insopprimibile dell’autentico liberalismo, sia il riconoscimento della libertà ed uguaglianza dei popoli, oltre che quella degli individui e che questa senza quella non ha senso e consistenza politica; infine il lettore attento al valore letterario e all’efficacia dell'ani oratoria -giustamente rivalutata nella nouvelle réthorique
di Chaim Perelman - riconoscerà in questo discorso una chiarezza d’argomentazione ed una perfezione espressiva, che unita al pathos del vecchio patriota, ne fanno un’opera, e non minore, di quell’arte.

Teodoro Klitsche de La Grange 


Argomenti di esordio ne avrei parecchi. Per esempio, vorrei spiegare come, a proposito del Trattato di Versaglia, avesse ragione Nitti quando diceva che poteva firmarlo e non volle, e avevo ragione io quando, alla mia volta, dicevo che potevo firmarlo e non volli. Ed ecco. lo, come Presidente del Consiglio, provocai la crisi il19 giugno del 1919 e mi succedette il Ministero Nitti, costituitosi il 23 giugno. Or il 29 giugno, a Parigi si firmava il Trattato di pace colla Germania.

Io avrei dovuto firmarlo come Presidente della Delegazione, poiché rappresentavo l’Italia alla Conferenza non per la mia qualità di Presidente del Consiglio, ma per le credenziali che mi affidavano la Presidenza della Delegazione. Nitti, nuovo Presidente del Consiglio, poteva, e nonnalmente avrebbe dovuto, esonerarmi senz’altro da questo mandato specifico per assumerlo egli stesso col suo Ministro degli esteri. Preferì correttamente di lasciare a noi il compito della firma conclusiva, dato che noi avevamo operato e, direi, sofferto, durante tutto il periodo della preparazione; la sostituzione come delegati avvenne subito dopo la firma. In questo senso, dunque, è giusto dire che egli preferì di non firmare. In conseguenza di ciò, io, alla mia volta, avrei dovuto firmare come Presidente della Delegazione, qualità che avevo serbata sia pure per quei pochi giorni. Or io ero a Roma, dove ero venuto per la crisi; ma l’apporre la firma a un documento storico di così enorme importanza avrebbe indotto a sacrifici di gran lunga maggiori del viaggio che sarebbe occorso per recarmi a Parigi. Invece, io preferii non muovermi da Roma e in questo senso può dirsi che non volli firmare quel Trattato. Il che indica pure che non l’ammiravo affatto; ma se, a questo punto, spontanea viene la suggestione del confronto di esso con l’attuale documento, di quanto si avvantaggia il primo! Non sarebbe però questo un momento adeguato per tali discussioni. Meglio è parlame in altra sede.

Avrei pure voluto, in questa occasione, parlare a proposito di quella famosa frase «la guerra continua» del manifesto badogliano, la cui origine mi è stata attribuita, dapprima in maniera obiettiva, poi con commenti estensivi di una disapprovazione, necessariamente vaga, perché dietro quelle tre parole non c’era altro. Or io riconosco alla stampa, in tutte le sue forme, come giornale, come diario, come storia, come politica, riconosco il diritto di ricostruire fatti e di esprimere giudizi come meglio o peggio creda. Non riconosco però il diritto di chiamare davanti a sé l'uomo politico come un incolpato che debba giustificarsi. Di fronte a tutto quanto si è potuto dire a proposito di tutta la grande storia cui ho partecipato, io rispondo, se lo credo, quando lo credo, è, soprattutto, in quella sede che mi appare legittima. Nel caso attuale, il momento storico cui si riferiva quel mio intervento era estremamente delicato; complessi e formidabili erano gli argomenti che vi collegavano. Posso oggi, ma solo oggi, discorrerne qui, al cospetto di un’Assemblea che rappresenta il Paese e in una discussione attinente al tema. Non altrove, né altrimenti.

Con quella brevità imposta dall'ora, dirò dunque che, in sostanza, io che non ebbi più rapporti politici col Re dopo quello che fu il vero colpo di Stato del 3 gennaio 1925; avevo mandato l'ultima avvertenza, nel dicembre del 1924. E diceva quel mio messaggio: finora può il Re riprendere la situazione in mano, e dominarla; d'ora in poi non lo potrà più; prima d'ora sentivo che del mio consiglio si sarebbe fatto a meno, ma senza danno irreparabile; dopo di ora, il consiglio non sarebbe più utile poiché l'autorità della Corona verrà a cessare cosituzionalmente col cessare dell'autorità del Parlamento. Tutti sanno quel che seguì. Non ebbi altri rapporti politici col Capo dello Stato. Con le mie dimissioni nel 1925, dopo la magnifica battaglia antifascista di Palermo, dichiarai di ritirarmi da ogni forma di attività politica, poiché, dissi, la forma di regime non consentiva ad un uomo della mia fede di restare nella vita pubblica, neanche all'opposizione.

Questa lunghissima interruzione dei miei rapporti con la Corona ebbe una parentesi quando si preparava il 25 luglio 1943. Allora fui richiesto di consiglio. In generale, chi dà un consiglio per accondiscendere ad una richiesta, dovrebbe aspirare a questa garanzia minima: che non si cerchi, dopo gli eventi, di riversare sul consigliere una quota di responsabilità di un'azione cui questi non ha partecipato; il che vale tanto più, quando il dare un consiglio costituisce un dovere verso il rappresentante della sovranità dello Stato. Ci fu chi non osservò questo dovere. Comunque, i consigli che diedi non furono seguiti. Non furono seguiti, nel modo con cui l'intervento ebbe luogo. Poiché il trionfo del fascismo si era affermato con un colpo di Stato contro il Parlamento, contro la libertà o contro gli organi costituzionali, io pensavo che vi dovesse corrispondere un colpo di Stato inverso, diretto alla reintegrazione dello stato giuridico violato, e quindi attraverso un intervento della Corona, che sotto la sua esclusiva iniziativa e responsabilità restituisse al Paese quelle garanzie parlamentari e quella libertà statutaria che gli erano state tolte.

Non mi fu detto, né io pensavo, che si sarebbe ricorso ad una forma pseudo-parlamentare di un voto di sfiducia, come sarebbe stata la votazione del 24 luglio in Gran Consiglio, famosa votazione, poi tragica. Gli eventi dimostrarono come l'uso di una tal forma fosse un grave errore, se anche a parte ogni riflesso interno, soprattutto nei rapporti internazionali, poiché si determinò un dubbio sulla sincerità della rottura definitiva con il fascismo, essendo il mutamento avvenuto sulla base di un voto dato dai gerarchi e che poteva supporsi derivato da una loro persistente autorità.

Or per l'appunto, in quel momento, la questione più essenziale, questione di vita o di morte, e nel tempo stesso la più delicata e la più pericolosa, era di sciogliersi dall'alleanza nazista e di liberarsi da quella guerra sciagurata: il quale argomento, dunque, era compreso ed anzi dominava nelle conversazioni cui presi parte e per cui preparai, sempre richiesto, bozze di atti o proclami che sarebbero potuti occorrere. Or su quel punto il mio consiglio fu questo:
prima fase dichiarazione: la guerra continua e l'Italia non
manca agli impegni contratti. Come poteva essere diversamente?
Era una questione di onore, che si poneva al di
sopra di tutti gli interessi politici e di tutti i pericoli paventati;
era anche una questione di tecnica militare, a causa della
impossibilità materiale di una immediata separazione fra
due eserciti , che avevano combattuto e combattevano insieme.
Pensate! In quel momento, combattevano fianco e
fianco, proprio nella mia Sicilia, truppe tedesche e truppe
italiane. Come potevano, immediatamente, rompersi l'unità
del fronte e l'unità del comando?

Prima dichiarazione, dunque: la guerra continua. Ma
questa prima fase doveva superarsi rapidissimamente, nelle
prime 24 ore.

Nelle seconde 24 ore, doveva iniziarsi una seconda fase
con questa comunicazione all'Ambasciatore tedesco: «L'Italia
non è in condizione di andare avanti; l'Italia deve chiedere
l'armistizio. Lo chiederà per voi , non per sé, sacrificando,
se occorre, sè stessa per tener fede all'alleanza contratta
». Come? Chiedendo agli alleati di concedere il tempo
tecnicamente necessario, alle truppe tedesche, per ritirarsi:
lealtà elementare, necessità militare. Ricordo che indicai
un precedente da me vissuto, per dimostrare che gli alleati
non potevano rifiutare il loro consenso, poiché l'avevan già
dato un'altra volta in condizioni eguali: il precedente dell'armistizio
chiesto dall'esercito bulgaro nel settembre del
1919, in cui la Bulgaria avea curato di stipulare un termine
di 15 giorni per dar modo alle due divisioni austriache e
tedesche, impegnate nel fronte macedone, di ritirarsi. Termine
che fu accordato, proprio da quelle medesime nazioni
cui ora si doveva chiedere. Vi era poi un'altra questione,
che dovea trattarsi nelle condizioni dell'armistizio: l'occupazione
interalleata avvenuta. Noi tenevamo dei territori
anche per conto della Germania e così reciprocamente.
Questa comunicazione costituiva la seconda fase nelle
seconde 24 ore.

Doveva poi seguire la terza fase , con la stessa rapidità. A
queste dichiarazioni del Governo italiario doveva darsi pubblicità
e diffusione larghissime. Con l'aiuto della radio tutto
il mondo doveva conoscerle. Si determinava così per l'Italia
una situazione di una lealtà perfetta e, in pratica, la più
favorevole, relativamente alle formidabili difficoltà. La

Germania, infatti, o poteva aderire, e noi ci· saremmo trovati
nella più onorevole maniera a trattare con gli alleati un
armistizio in quelle chiare condizioni; o la Germania, come
per verità io pensavo, si sarebbe orgogliosamente rifiutata,
ed allora era la guerra immediata fra noi e la Germania, per
una causa nobilissima di perfetta lealtà italiana. E questa
guerra noi avremmo combattuta quando in Italia le divisioni
tedesche erano cinque o sei , in luogo delle 27, che
Hitler vi concentrò, poi, fra luglio e settembre! E ci
saremmo trovati spontaneamente accanto agli Alleati; e
non avremmo avuto la vergogna e la rovina dell'armistizio!

Questo era il contenuto della mia frase: «la guerra continua
». Beninteso: io non intendo trarre da questi ricordi
alcuna gloria o semplicemente alcun merito: so bene che
altro è un consiglio astratto, altro un'azione concreta. E ne
avrei taciuto certamente, come è mio costume, se non fossi
stato costretto da una pubblicazione proveniente da una
fonte che ignoro e che riferiva quelle parole in forma tronca,
interpretata poi da altri in un senso diverso ed anzi difforme
dal mio pensiero.

Ma lasciamo stare queste vecchie storie e veniamo al
solenne tema odierno.

L'onorevole Togliatti, ieri, nel considerare la situazione
italiana, diceva: «dove andiamo?» È un problema angoscioso.
Poi egli rispose che andare bisogna con la visione di una
politica estera da fare , con un sistema di politica estera da
seguire. Vi corrisponde il discorso di oggi dell'onorevole
Nenni. «Dove andiamo?». Onorevoli colleghi, è certamente
un problema, questo, che può essere di vita o di
morte per l'Italia nostra, ma è problema che io non mi pongo;
mi giova in ciò la mia vecchiezza, poiché mi mancherà il
tempo di godere del meglio o di soffrire del peggio.

Ma la questione del «dove andiamo?» è preceduta da
quest'altra: «dove siamo?». E la questione «dove siamo?» è
preceduta da quest'altra: «come ci siamo arrivati?». Problemi
non scindibili; quando sapremo bene «dove siamo?»
avremo necessariamente conosciuto «come ci siamo arrivati?
». 29

Questo secondo problema è per se stesso storico, ma in
un certo senso si collega con tutta la politica attuale; però,
in questo secondo senso, quando alludo ai nessi della politica
passata con quella attuale, vogliate credere, colleghi
tutti, in qualunque settore sediate, e voi particolarmente
che siete al banco del Governo e che non avete mai potuto
concepire dubbi sulla mia lealtà politica, e oso aggiungere
anche sul mio perfetto disinteresse, vogliate credere che io
non intendo menomamente ricercare le colpe o i torti di
questo o quel Gabinetto, o Partito, o Ministro, né sollevare
dai ricordi delle azioni od omissioni nella storia politica di
questo triennio, il problema delle responsabilità. lo penso
che sia un ben piccolo argomento, in confronto di così
grande tragedia, l'attribuire questa o quella colpa all'onorevole
Tizio o all'onorevole Caio. Ma l'esame di tali questioni,
se si eleva dalle persone alle cose, ha un'importanza che
non si può trascurare senza una leggerezza imperdonabile,
e questa importanza si pone sotto due aspetti: 1) per trarre
dal passato il più realistico insegnamento per il futuro; 2)


per servire di guida nella giusta comprensione della situa


zione attuale. Come ci siamo arrivati?

Sono tre anni di vita vissuti , e quali anni! Per i11870-71 ,
la Francia trovò e mantiene l'espressione: l'année terrible;
per noi sono, invece ben tre questi anni terribili. Cos'è
avvenuto in questo periodo così denso di storia, come mai,
incomparabilmente, alcun altro periodo? E più particolarmente,
cos'è successo che ci riguarda, che ci tocca?

Ahimè! Per varie ragioni, vere e proprie discussioni di
politica estera non sono mai in questa Assemblea avvenute.
Tutti gli eventi che si sono seguiti , tutti i problemi che vi si
collegano -e son tanti e così complessi e così formidabili! possono
dirsi affatto nuovi -non voglio dire ignoti -in questa
Assemblea in cui dovrebbe manifestarsi la massima
espressione del pensiero politico d'Italia. Ognuno intende
come sia impossibile l'esaminare oggi quei problemi anche
di sfuggita. E allora ho pensato di trattarne uno solo, semplicemente
come, un esempio, cioè come mezzo di dimostrazione
di un assunto, come un caso che serve ad una
dimostrazione. Non ho assolutamente nessun secondo fine,
che mi abbia indotto a scegliere questo fra i vari momenti
storici attraversati. Non so o non m'importa di sapere chi
fosse il Presidente del Consiglio o chi il Ministro degli esteri:
mi potrebbero solo interessare quei chiarimenti di fatto ,
che potesse darmi l'attuale Ministro, non come persona,
che non c'entra, ma come capo dell'ufficio rappresentativo
della diplomazia italiana. Purtroppo però vi è da ritenere
che nuUa gli risulti , come implicitamente apparira dalla
stessa esposizione del precedente.

Or 'dunque, il 27 luglio 1944 il New York Times (voi
sapete l'autorità di questo giornale, il quale non pubblicherebbe
notizie di questa importanza senza un sicuro controllo)
riprodusse una notizia che proveniva daH'Associated
Press, fonte per se stessa autorevole che diceva:

«Washington, 26 luglio. Si è appresa oggi una proposta
britannica nel senso che gli Alleati stipulino una pace provvisoria
con l'Italia, la quale ha ora la condizione combinata
di nemica sconfitta e di cobelligerante. Questa proposta è

30 nelle mani delle autorità militari. Il piano prevede la discussione
con la Russia e con gli altri Paesi interessati alla sistemazione
italiana. Ciò servirebbe a regolare le relazioni dell'Italia
con le Nazioni Unite e a chiarire la posizione dei prigionieri
di guerra italiani , che furono tanto tempo e così
ingiustamente trattenuti.
«II Governo d'Italia ha chiesto che l'armistizio degli
Alleati con l'Italia sia pubblicato, presumibilrnente in vista
del fatto che la reazione pubblica ai suoi termini forzerebbero
una revisione».
Su questa notizia sopravvenne un articolo pubblicato nei
giornali del tempo (credo nel Giornale d'Italia) da Don
Luigi Sturzo, che si trovava allora in America, nel quale egli
diceva: «Mi ricordai allora che alla fine di giugno o al principio
di luglio era stato riferito da Londra che il Gabinetto
britannico aveva discusso la richiesta del Governo italiano
del riconoscimento dell'Italia come aUeata, e questo formava
il substrato di quella proposta».
Volli profittare deUa presenza qui dell'insigne uomo ed
ho avuto con lui un lungo colloquio proprio in questi giorni .

Egli mi ha dato tutti i particolari dei passi da lui allora fatti ,
recandosi espressamente a Washington, ricorrendo a fonti
della cui autorità nessuno vorrà dubitare. La conclusione
cui si perviene è sicura: vi fu quella proposta britannica e fu
accolta dal dipartimento di Stato americano. E badate alla
coincidenza cronologica con altri eventi, onde si può risalire
alle cause determinanti. La notizia è data dall'Associated
Press il 27 luglio; il 5 giugno 1944 avviene lo sbarco a Cherbourg;
il 15 agosto lo sbarco in Provenza; nella stessa estate
coincide il risoluto inizio della marcia in avanti degli eserciti
sovietici per la cacciata dei Tedeschi dal territorio nazionale
.

Quale rapporto causale fra questi eventi coincidenti nel
tempo? Evidente. Quegli sbarchi in Francia erano stati
richiesti dalla Russia, che faceva valere verso gli Alleati gli
impegni da essi assunti dell'apertura di un secondo fronte in
Europa. Il nuovo ingente sforzo militare richiesto dagli
Alleati doveva determinare quel rallentamento delle operazioni
militari in Italia il quale culminò nel famoso arresto
dell'autunno del 1944, sulla linea gotica. Il fronte italiano
era in certo senso abbandonato a se stesso: tragica situazione,
cui corrisposero le dichiarazioni di Alexander, tremende,
quando disse che la campagna d'Italia aveva ormai il
solo scopo di attirare o mantenere in Italia truppe tedesche.
Tremende parole, per le quali facilmente poteva prevedersi
la sensazione di dolore e di pena, che doveva destare in Italia
l'attribuire al nostro fronte la missione di trattenere qui
quanti più tedeschi fosse possibile, con un prolungamento,
presentato come indefinito, di quella crudele separazione
delle due Italie, che virtualmente era guerra civile. Sempre
con quel suo proclama, Alexander dichiarò che i partigiani
dovevano considerarsi in stato di «smobilitazione». Come si
smobilita il partigiano sulla montagna, che è il suo fronte di
battaglia? Come può egli tornare a casa se non per consegnarsi
al plotone di esecuzione? Tremendo proclama, che
dava il senso immediato di un sacrificio immane, che si chiedeva
all'Italia, a quell'Italia in cui pur si combatteva, in cui
pur sostavano corpi d'armata alleati, che non potevano
restare indifesi, tanto più quanto meno potevano essere
protetti dall'invio di altre truppe.

Ecco dunque, il nesso causale che lega quegli eventi: il
bisogno, avvertito dagli alleati, di dare un compenso all'Italia
in un momento in cui essa doveva sopportare un così
immane sacrificio per una causa che, per ciò solo, diventava
più che comune. Questo compenso, che spontaneamente
prendeva le mosse dalla concessione dell'inestimabile
beneficio dell'alleanza, si concretò alla fine nel comunicato
di Hyde Park del 26 settembre 1944 dopo un incontro Roosevelt-
Churchill, che faceva all'Italia le seguenti concessioni:


1°) la Commissione alleata di controUo si sarebbe chiamata
semplicemente «Commissione aUeata». Si leva la
parola «controllo». Questo fu il primo beneficio. Cospicuo
come ognun vede;

2°) uno scambio di rappresentanti diretti sarebbe avve


nuto tra Roma e Londra e Washington; Mosca non aveva

aspettato e aveva consentito reciprocità di rappresentanza


diplomatica, gratuitamente, sin dal 14 marzo. In ottobre
avvenne, con Inghilterra e Stati Uniti, lo scambio degli
ambasciatori, che non presentarono però credenziali, come
del resto non le hanno presentate sinora;

3°) aiuti sanitari e rifornimenti essenziali, all'Italia
mediante l'U.N.R.R.A.;

4°) modifica del1a legge per il commercio col nemico , in
guisa da permettere all'Italia la ripresa dei rapporti commerciali
con gli Alleati.

Si aggiungeva che tutti questi provvedimenti avevano lo
scopo essenziale di «gettare nella lotta -parole testuali tutte
le risorse dell'Italia e del popolo italiano per la sconfitta
della Germania e del Giappone». Quale abisso fra la
prima form.a (l'alleanza conteneva tutto) e quella finale!
Dalla montagna quale piccolo topo era nato! Come
avvenne un mutamento così disastrosamente radicale?
Temo che di questa storia si siano perdute le tracce o che lo
stesso Ministro degli esteri ed il Presidente del Consiglio
non ne siano stati informati. Ma, a parte l'enigma che tormenterà
gli storici futuri, vi è una materia viva che qui interessa,
come lezione da trarre dalle cose; e a tal fine può
bastare un semplice processo induttivo. È certo che la situazione
dianzi descritta determinava negli alleati la spontanea
suggestione di dare all'Italia un compenso, e quello cui pensarono
pure spontaneamente era di un valore inestimabile.
Dunque, essi, in quel momento avevano bisogno dell'Italia.
Questo proposito in seguito svanisce; dunque, un'altra
forza si oppose e prevalse. Ma come si può non pensare che,
se da parte dell'Italia fosse stata opposta una resistenza più
risoluta, più energica, più decisa a tutto (per esempio, le
dimissioni in massa del Governo , con conseguente impossibilità
di sostituirlo), la forza che si oppose a quella prima
proposta sarebbe potuta essere superata? Ecco l'utilità dell'insegnamento
che deve trarsi dalle stesse delusioni sofferte:
la nostra politica è stata sempre quella di accondiscendere;
è stata politica di assoluta remissività. Il motto, per cui
il rispetto verso un'autorità si circonda di misticismo:
parum de principe, nihil de dea, si rovesciò: parum de dea,
nihil de principe .. alleato! Se in quel momento si fosse osato
e si fosse detto: non possiamo restare in questa condizione
di abbandono militare senza che la solidarietà del popolo
non ne resti turbata e scossa; occorre una concessione che
sia di conforto e di incitamento insomma, se si fosse
mostrata allora la decisione energica di chi non vuoI soffrire
un torto , proprio in un momento in cui gli stessi alleati lo
ammettevano spontaneamente, si deve riconoscere che le
cose sarebbero potute andare altrimenti. Invece si è ceduto
e questa è stata la politica dell'Italia per tre anni. (Commenti
al centro).

Venne assunta e mantenuta un'aria di umiltà, sino a
vedere i Ministri d'Italia deferire a funzionari relativamente
modesti. Del resto, e da un punto di vista più generale,
governare sotto il controllo dello straniero, mai! (Commenti
e interruzioni al centro) . Eh! si, lo so che c'era l'armistizio
, ma non è pensabile una clausola che obligasse i Ministri
italiani ad essere organi sovrani ed ufficii subordinati
nel tempo stesso! (Rumori al centro).

Resistere si poteva e si doveva, anche sotto l'aspetto del['
utilità. lo non escludo che la politica in una grande storia
imponga, nell'interesse dello Stato, atti di remissione, e
persino di umiliazione. Per ciò ho detto che non intendo qui
far questione di responsabilità contro alcuno. Ci sono
momenti in cui l'uomo di Stato si deve umiliare e se obbedisce
a questo imperativo, è quello un momento di grandezza
per lui.

lo verso il mio paese non ho nessun titolo che sia di credito
da parte mia ... (Interruzioni al centro). Ripeto: non ho
verso il mio Paese nessun credito, perché la Patria ha tutti i
diritti sopra i suoi figli sino al sacrificio della vita, per una
sola cosa, dico la verità, mi sento creditore verso il Paese:
l'umiliazione, che consapevolmente dovetti soffrire quando
tornai a Parigi dopo la partenza determinata dal famoso
proclama di Wilson ...

Voci al centro: Eravamo vincitori allora!

Eravamo vincitori; ma quando si tratta di accettare un'umiliazione,
vuoi di.re che le condizioni, in quell'atto stesso,
sono simili a quelle dei vinti, non dubitate!(Vivi commenti
al centro). Se con queste interruzioni dimostrate di non
avere il senso di quella fierezza e di quella dignità che,
soprattutto in certi momenti, un uomo di Stato, rappresentante
di un grande Paese, deve imporsi, il resto del mio
discorso non è per voi. (Applausi prolungati a sinistra e a
destra) . Or questa politica di continua remissione ... io ho il
diritto e il dovere di denunziarla. Ho detto e ripeto che non
cerco di accusare alcuno né di fare questioni di responsabilità.
Aggiungo che considero come un'offesa fatta a me
stesso il credere che io, per la vita spesa al Servizio dello
Stato, pretenda di crearmi una situazione di privilegio fra
voi.

Ora, questa attitudine remissiva si è sempre mantenuta ,
come si mantiene tutt'ora nella forma e nel tempo e nel
modo con cui si chiede questa ratifica. Badate, ogni spirito
O intento di partito è da me ben lontano. Sono politicamente
un solo; ma nel tempo stesso nessuno più di me anela
nell'unione di tutti gli Italiani.

Nella mia opera, nei miei discorsi, purtroppo inascoltati, 31
ho sempre detto: verso lo straniero, unione; la divisione in
partiti è privilegio di un popolo libero. Il mio attuale dissenso
con molti di voi non infrange questa unità, poiché
dopo la discussione , dopo il contrasto, e la critica, indispensabili
ad un giusto giudizio, l'unità si ricompone nell'unità
della coscienza collettiva, come avviene nell'unità della
coscienza individuale, dopo l'urto di motivi contrastanti
nell'individuo stesso. In un certo senso, si può dire che, in
ognuno di noi, nel suo foro interno, esista ed agisca un'assemblea
parlamentare simile a questa nostra. Di fronte açl
una decisione individuale da prendere, noi abbiamo interiormente
partiti in contrasto, si agitano discussioni, vi sono
perplessità, incertezze, infine, le decisioni di un uomo si
prendono per la prevalenza dei motivi, come qui con un
voto di maggioranza. lo vi prego di ritenere che in questo
momento io sono una parte di voi, così come voi , che mi
interrompete siete una parte di me; qui discutiamo insieme
perché dai nostri contrasti sorga una decisione la quale
ritrovi la sua unità nella comunione dell'intento: che questa


decisione sia la migliore possibile per la salvezza del nostro
Paese, per la resurrezione, per la grandezza di esso. Dicevo
che vi è questo senso di pavidità quando si parla ... de principe,
cioè degli alleati . lo non so se Nitti se ne sia andato.
(Voci: È qua).

Ebbene, quando egli parlava, l'altro giorno, io avvertii
un particolare stato d'animo in una parte dell' Assemblea
che l'ascoltava; lo avvertii con questa specie di sesto senso,
che.l'oratore acquista nei rapporti col pubblico: e fra gli oratori
mi classifico per quel lungo corso della mia vita che mi
ha fatto parlare tante volte a pubblici così diversi e da così
varie tribune. Ed io dunque , avvertii che quando egli fece
delle allusioni alla sconfitta francese , vi fu un bisbiglio sommesso,
come in un'assemblea eli religiosi una frase che desse
scandalo. Si, una sconfitta ci sarà stata, ma il dirlo è un'indiscrezione;
si tratta di vincitori e bisogna usare forme riguardose.
Badate, i francesi che sono gente di spirito sono essi
stessi i primi a riconoscere la gravità di quella loro disfatta
e a dedicare tutta una ricca bibliografia sulle cause di essa'.
Riprendendo il tema di Nitti, dirò anche io che, insomma i
nostri soldati si sono battuti in una guerra ingiusta, infame
quanto volete, ma per l'onore della bandiera si sono battuti
e sono caduti da valorosi , cui va tutta l'ammirazione e tutto
il rispetto, anche dell'avversario. (AppLausi a destra) .

E il nostro collaborazionismo, effetto puro della coazione
nazista, fu molto più limitato per tempo e per spazio;
e in' quanto ai personaggi più rappresentativi, al nostro Farinacci
si contrappone un cardinale Baudrillart, membro dell'Accademia,
grande storico e grande patriota, e a Starace
sì contrappone Charles Maurras, anch'egli della Accademia,
uno dei più grandi scrittori francesi contemporanei.
Lasciamo stare; la Francia è vittoriosa e noi abbiamo tradito
la causa della libertà e dobbiamo essere rieducati alla
scuola della democrazia. Cosa volete? La storia ha di questi
paradossi. Ma egli è che una vera superiorità della Francia
su di noi può riconoscersi nella fierezza dei suoi rappresentanti,
per cui l'ipotesi di una Francia come grande Potenza
fu ed è sempre una pregiudiziale che si deve ammettere se

32
si vuole conversare con un francese. Nessuno e tanto meno
io, contesterà la opportunità dell'adesione nostra all'invito
di concorrere al piano Marshall; ma il «sì» pronunciato dall'onorevole
Ministro Sforza a Parigi fu, con il colore ed il
calore della sua parola, lumeggiato dallo stesso conte
Sforza come pronto, fervido, immediato. È sempre così:
nei rapporti con l'estero noi ci dobbiamo sempre precipitare;
noi sentiamo sempre l'urgente bisogno di dar prova al
mondo che siamo dei ragazzi traviati , i quali avendo demeritato
e non bastando la tremenda espiazione sofferta,
ammettono la loro indegnità e non aspettano altro di meglio
che di riabilitarsi e di essere ripresi in grazia. Ebbene, in
quell'occasione dell'invito a Parigi, l'onorevole Sforza, in
sede di Commissione dei Trattati, pronunciò una frase particolarmente
felice e giusta, a proposito della quale si verificò
uno di quelli che io chiamo plagi involontari, e cioè
quando due persone, indipendentemente l'una dall'altra e
reciprocamente ignorandosi coincidano in un medesimo
pensiero e lo esprimano con una medesima frase. lo, infatti,
onorevole Sforza, avevo per l'appunto pensato ciò che lei

disse e nella forma stessa. Ella disse: ma insomma, a Parigi,
valsero assai più che qualunque mia parola, a darmi autorità
come Ministro d'Italia, l'Esposizione ferroviaria di
Roma e la Fiera Campionaria di Milano. Perfettamente!
Ma cosa significa ciò? Significa che l'Italia vale per quel che
è, e non per le finezze, le astuzie, l'abilità di una diplomazia
flessibile. Or l'Italia è grande, perché è l'Italia: quia nominar
Leo. Ma bisogna averne il sentimento.

Così io mi avvicino al problema che per l'abito della
remissività pesa su molti qua dentro come un incubo: cosa
succederebbe se non si ratificasse? Or la migliore risposta a
questa domanda consiste nel ritorcerla: cosa credete che
possa succedere di peggio della ratifica stessa?

Riconosco spontaneamente che a questa maniera di considerare
la politica estera corrisponde un sentimento che
sembra di scarso interesse nel Paese: corrispondenza che
giustifica in parte l'Assemblea in quanto organo rappresentativo
di questo stesso Paese. In questo momento, si riscontra
nel popolo nostro come uno squilibrio fra il senso che l'italiano
ha di se stesso come individuo in rapporto ad altri
individui e il senso che egli ha dello stato della sua Patria
come unità collettiva, di cui sente di essere parte. Normalmente
tra quei due sensi si stabilisce un equilibrio, come
liquidi che si livellano in vasi comunicanti. L'individuo
comprende, nel suo complesso psicologico, il senso di grandezza
o di miseria dello Stato cui appartiene. Il romano
antico , anche se era proletario, avvertiva con fierezza la
potenza della sua Patria: civis romanus sum. L'Italiano del
1943 aveva la tragica visione della disfatta e come rovina
individuale e come disfacimento dello Stato. Ma in questi
anni successivi questa correlazione è venuta man mano
scomparendo. Per le sue qualità, onde nei secoli è stato
educato a lottare contro le avversità, l'Italiano è venuto
migliorando il complesso delle sue condizioni di vita , mentre
quelle del Paese come unità di Stato, son rimaste le stesse:
cioè senza effettiva indipendenza e con autorità quasi
nulla; e sono precisamente le condizioni che questa cosiddetta
ratifica riassume, riconosce e consacra. È umano il
desiderio di non esser turbati da ammonimenti penosi e così
l'Italiano preferisce ignorare in quali condizioni questo
orrendo Trattato ponga l'Italia. Da parte sua, il Governo fa
il possibile per nasconderle. Da ciò la relativa indifferenza
che il popolo dimostra verso questo epilogo della sua tragedia,
onde i giornali, che sono i termometri dell'interesse del
pubblico verso i vari argomenti, riservano il maggiore spazio
della loro prima pagina (e non ne hanno che due) a qualche
delitto o processo celebre, al campionato di calcio o al
giro ciclistico di Francia. Ma in verità vi dico, o colleghi: diffidate.
Il cervello di questo nostro organismo collettivo è
ancora «shoccato», per usare un neologismo brutto ma
espressivo, dei psichiatri; è ancora sotto il colpo tremendo
della catastrofe sofferta. Ma guai se si risveglia. Le collere
del popolo quando ha attraversato vicende così atroci , possono
essere terribili , specie perché il fondo dell'anima italiana
è profondamente patriottico e l'esasperazione di questo
sentimento può dar vita a quel nazionalismo, che è la
degenerazione del patriottismo . Ne soffrimmo per ventidue
anni e i mali attuali ne sono la conseguenza.


Badate, ripeto. Il popolo attualmente non ha l'idea giusta
delle condizioni cui è ridotta l'Italia da questo Trattato, che
stiamo discutendo , per ratificarlo senza necessità! E bisogna
illuminarlo e soprattutto non fargli credere (e non credere
voi stessi) che il resistere dell'ingiustizia ci esponga a
chissà quali oscuri pericoli , poiché oltre i danni estremi che
ci sono stati inflitti, non si potrebbe andare, senza destare
l'opposizione invincibile delle stesse gelosie e rivalità internazionali.
Anche di ciò posso portare un esempio di un'efficacia
incomparabile, di cui dirò le fonti a tutti accessibili ,
senza che occorra che io le convalidi con le altre da me raccolte
in Sicilia, che non derivano dalla pubblica sicurezza e
che anzi con essa non han nulla di comune, ma che come
valore di informazioni non lasciano nulla a desiderare.

Or, nell'Umanità dell'l1 luglio 1947, recentissimo dunque,
c'era un articolo non firmato -in generale gli articoli
sono firmati -non firmato , ma scritto da persona di primo
piano, che sapeva bene quello che diceva.

Ebbene, questo articolo conteneva un singolare ricordo
storico -ripeto che l'autore aveva tutta l'aria di essere bene
informato, specialmente di cose inglesi -diceva ad un certo
punto: «L'abbandono da parte inglese della volontà di controllare
la Sicilia e Pantelleria ... ». Notate il significato profondo
di questo ravvicinamento della Sicilia con Pantelleria.
Piccola isola questa, cara al mio cuore ed a quello di
Maffi, che vi fu relegato -ma ne parla con memore ammirazione
ed affetto -cara, bella isola, ma pur piccola isola in
confronto della massima isola mediterranea. Che, dunque,
si parli, di un controllo sopra Pantelleria, abbinandolo con
uno sulla Sicilia, ha un significato eufemistico che fa fremere.


Bene, l'articolo diceva: «L'abbandono da parte inglese
della volontà di controllare la Sicilia e Pantelleria fu dovuto
sostanzialmente ad un'azione pubblica, quando a Londra
non esisteva ancora ombra di diplomazia italiana».

Dunque, stando a questo autorevole scrittore, ci sarebbe
stata quell'intenzione, si; però una indagine condotta sull'opinione
pubblica persuase che era meglio abbandonarla.
Quale opinione pubblica? Quella dell'Italia no, perché l'Italia
era divisa in quattro o cinque compartimenti fra loro
non comunicanti. L'eufemismo è trasparente, lo si vede
come attraverso un vetro, anche per quanto riguarda questa
curiosa «azione informativa» condotta su di un'opinione
pubblica non altrim'enti identificata, che poteva anche
essere quella .. . americana, francese, russa; e allora l'eufemismo
significa che questo «controllo che si sarebbe esteso
su tutto il Mediterraneo non piaceva alle altre .. . opinioni
pubbliche! Fu grazie a questa azione informativa che l'Italia
sfuggì ad una minaccia: che sarebbe stata la più grave fra
quante hanno pesato su di noi. Ecco, dunque, dove sta una
garanzia forse più forte di tutte e che sostituisce le carte che
mancano. Ecco la risposta alla domanda: che cosa succede
se rifiutiamo la ratifica? Succede che resta l'Italia, alla quale
ben può dirsi che sia capitato il peggio sotto forma di questo
Trattato, che è feroce, ma che segna pur tuttavia un limite
al di là del quale ogni ulteriore pretesa straniera viene contenuta
dallo stesso gioco delle aspirazioni, delle gelosie,
delle rivalità internazionali .

Ma, riprendendo nei suoi sviluppi l'accennato episodio
così significativo, esso ha pure delle coincidenze con un
articolo, di cui non ho conservato la data, ma è qui presente
l'autore. È un mirabile articolo nella Voce Repubblicana di
Randolfo Pacciardi, il quale articolo cominciava così: «Un
membro della Commissione Alleata di controllo -si chiamava
ancora di controllo, non c'era venuta come concessione
graziosa la soppressione di queste parole, il che
riporta l'articolo ad una data anteriore al settembre del
1944 -ha affermato pubblicamente che la Sicilia non è
matura per un regime democratico». lo vorrei conoscerlo
questo membro, dico la verità (Ilarità) , e avere con lui un
contraddittorio davanti a dei neutrali , perché io lo devo
convincere che o è un ignorante o è uno sciocco! (Applausi
generali) .

L'articolo continua: «Molti hanno rilevato l'errore di
questa affermazione. Ma che cosa significa essa dal punto di
vista internazionale? -diceva giustamente Pacciardi -La
Sicilia è parte integrante dello Stato italiano, e quando lo
straniero stacca una regione italiana dal complesso nazionale
e ci dice che quella regione non è matura per un regime
democratico, abbiamo diritto di domandarci che cosa significa.
Il Texas non ha lo stesso sviluppo politico dello Stato
di Nuova York, ma gli americani troverebbero assai curioso
che noi dicessimo che ilTexas non è maturo per la democrazia
». E continua (è molto bello tutto l'articolo, ma io debbo
qui limitarmi a citarne solo quest'altra parte): «I nostri confini
meridionali non si discutono; bisognerebbe occupare
militarmente non soltanto la Sicilia, ma tutta l'Italia per un
secolo, per impedire che la generosa isola, da cu(partì la
falange garibaldina per l'unità nazionale, sia unita nella
forma che gli Italiani stessi desidereranno di dare alla
Nazione italiana».

Per un secolo avrebbero dovuto occupare l'Italia! Non
poteva dirsi né più energicamente né più nobilmente. Ma
oggi per evitare la firma spontanea di un Trattato disonorante,
io non le chiedo che di aspettare soltanto un mese,
onorevole Pacciardi! (Applausi a destra e a sinistra).

Occorrerebbe dunque considerare come sia venuto for33
mandosi questo singolare Trattato del quale, pur sempre
con esclusione rigorosa, quando non fu anche scortese, dell'Italia
da ogni negoziato, le condizioni nei nostri riguardi
ebbero questo carattere: di diventare sempre più dure.
Soprattutto a Parigi, dove era avvenuta la effettiva definizione
di tutte le clausole per la volontà assoluta dei quattro
Grandi, ricordate in qual modo? Il pubblico italiano veniva
a conoscere attraverso indiscrezioni di stampa, sapientemente
manovrate che si era discussa una data questione e,
dopo varie alternative di timore e di speranza, veniva a
sapere che fra le varie tesi era prevalsa la peggiore. Ma
dopo qualche tempo apprendeva che la questione era stata
ripresa e che la soluzione finale era... ancora peggiore.
All'italiano, col solito sistema ottimistico, si era fatto vagamente
sperare, dopo il disastro di Parigi, che a Nuova York
qualcuna delle più dure clausole fosse potuta essere migliorata.
Nessun miglioramento avvenne; ma le modificazioni
non mancarono del tutto: alcune ne furono introdotte, ma
tutte in senso peggiorativo per noi! Insomma tutto questo


lungo procedimento è stato per l'Italia una via crucis; sempre
di male in peggio.

Questa constatazione paradossale ha trovato non solo
una conferma ma una espressione particolarmente incisiva
proprio nella relazione della maggioranza della Commissione,
affidata (Rivolgendosi al centro) ad uno dei vostri
migliori, a quell'onorevole Gronchi, verso cui io provo una
simpatia particolare, perché egli è un Toscano intellettualmente
fine come i Toscani sanno essere, anche se la finezza
è qualche volta sottigliezza. Or fra i Toscani egli è forse il
più sottile di tutti; e la frase di cui si è servito questa volta,
si risolve in un tale epigramma che vien fatto di domandarsi:
«Ma, l'ha fatto apposta?». (Ilarità). Non lo credo; sinceramente,
non lo credo. Ma direi quasi che quanto più quel
senso dell'espressione non fosse stato voluto ma gli fosse
stato invece suggerito dal subcosciente, tanto maggior
valore acquisterebbe, perché tanto più spontaneo. Nella
relazione, dunque, della maggioranza della Commissione,
l'onorevole Gronchi ha avuto cura di enumerare in forma
sistematica le ragioni per cui convenga ratificare subito. E
viene così un numero 2° in cui si dice: «Lontana è da noi
ogni idea di speculare sui dissensi altrui od ogni speranza di
trame qualche profitto ... ».

Consentite, onorevoli colleghi, che a proposito di quest'ultima
frase, io apra qui una parentesi. Il tempo stringe e
posso accennare solo per incidenza ad un argomento di una
tale autonomia logica e politica che si dovrebbe considerarlo
adeguatamente in una sede propria: si tratta infatti,
dello spirito generale che dovrebbe animare la nostra politica
estera. lo qui mi pongo all'estremo, in una posizione
intransigente, poiché dissento profondamente dai mezzi
con cui è stata sinora condotta questa nostra politica, la
quale culmina nell'atto che oggi ci si richiede: d'accettare
un Trattato disonorante senza almeno la scusa della necessità.
Ma non dissento sugli scopi essenziali. Assicurare la
pace: ma chi è quel pazzo delinquente che in Italia possa in
questo momento non desiderare la pace? lo più di ogni
altro, perché nessuno più di me ha presenti i tremendi lutti,
che sarebbero riserbati al Paese proprio per questo Trattato
costruito appositamente in vista di un'Italia destinata ad
essere il campo di battaglia di una guerra futura.

Ed è pure il mio auguno piÙ fervido, se anche affidato ad
una opera pur troppo modesta, che si raggiunga l'unione,
l'accordo fra Oriente e Occidente, che si crei una salda
unione internazionale per la pace; tutte queste cose sono
anche per me sommamente desiderabili, ed hanno, se mai,
questo solo difetto: che tendono a divenire , degli slogan
ripetuti in maniera automatica senza più penetrarne il profondo
significato.

Ma chiudiamo la parentesi.

Continua la relazione· della maggioranza: «Se un simile
modo di concepire il ruolo dell'Italia non dovesse essere
respinto per molte e validissime ragioni morali e politiche,
sarebbe pur sempre contro di esso una constatazione amara:
che cioè la nostra pace, da Potsdam in poi» (e Potsdam
-osservo io -succede al famoso periodo che si concluse così
ironicamente ad Hyde Park) «la nostra pace, da Potsdam in
poi, ha conosciuto soltanto peggioramenti e aggravamenti,

e che ogni transazione successiva fra i Grandi si è risolta con
un ulteriore crescente nostro danno. Il ratificare, dunque,
vale a segnare una linea di arresto sul pericoloso piano inclinato
di patteggiamenti rinnovantisi senza di noi e contro di
noi».

Per carità, ratifichiamo subito! Guai se si ritarda, guai!
Chissà dove ci porta ogni nuova attesa! È una rovina di più
che ci aspetta! Questo dice Gronchi con spietata chiarezza.
Per ciò io vi dicevo che questo giudizio, pronunziato in sede
così solenne, si risolve in un epigramma, sia pure involontario.
E tanto più s'impone la ricerca del modo con cui si è
pervenuti a questo incomparabile paradosso storico, la
quale ricerca , come ho detto e ripeto , non serve per attribuire
responsabilità politiche ma per trarre insegnamenti
che ci proteggano dalla persistenza in un sistema fallito ,
così miseramente fallito. Se, per riferirmi a quanto diceva
ieri Togliatti, ha sempre fatto difetto nell'azione di
Governo una decisione ferma e risoluta, un senso di fierezza
e di dignità, non dovrebbe esser questa una ragione
sufficiente per la condanna del sistema? Per raggiungere
questo scopo io, nel silenzio degli altri, mi sono dovuto
assumere il compito duro e amaro di precisare con franchezza,
anche se dovesse sembrare brutale, come il trattamento
cui siamo pervenuti, attraverso un triennio di questa
politica, ferisca la libertà, l'indipendenza e l'onore stesso
dell'Italia.

Nell'accingermi a questa dimostrazione, necessariamente
rapida, non mi soffermerò sull'angoscia delle mutilazioni
sofferte. Esse aprono nel corpo della Patria ferite che
non potranno mai rimarginarsi senza una restaurazione.
Trieste, travestita in uno Stato ridicolo, se non fosse anche
tragico, che manca di tutto, a cominciare dalla sovranità per
finire con l'acqua da bere, e Pala e Fiume e Zara: nomi di
città che ricapitolano tutte le ansie e tutte le speranze, tutti
i dolori e tutte le gioie della storia d'ltaliq dal 1860 al 1919,
redente dal sangue di seicentomila caduti, fiore della giovinezza
italiana; città, che dànno al mondo la lezione eroica di
un plebiscito in cui il voto è espresso col sacrificio supremo 35
dell'abbandono in massa della propria terra e di ogni cosa
diletta più caramente; la feroce amputazione di questa
Venezia Giulia, che da secoli difende la sua italianità contro
tutte le invasioni di tutti i barbari calati in Italia in tutti i
tempi, onde fucinata in queste prove, è quella, fra tutte le
altre Regioni, dove l'italianità e più profonda, più intima,
più pura f...l.

Ma ogni rimpianto per questi brani di carne, anzi di
organi vitali, strappati alla Patria, viene dai cinici, che si
dicono realisti, qualificato, come rettori ca nazionalista.
'Procediamo oltre.

Ho detto che questo Trattato toglie all'Italia quella indipendenza
che non sopporta altri limiti che non siano
comuni a tutti gli altri Stati sovrani. Or bene, approvando
questo Trattato, voi approvate un articolo 15, il quale dice:

«L'Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicu


rare a tutte le persone soggette alla sua giurisdizione, senza

distinzione di razza, sesso, lingua o religione, il godimento

dei diritti dell'uòmo e delle libertà fondamentali, ecc.».

Questo articolo si collega con quella educazione politica


di cui sembra che abbisogni l'Italia, e cioè la Nazione del
mondo che arrivò per la prima all'idea di Stato, e l'apprese
a tutti i popoli civili. Dovevamo proprio noi ricevere lezioni
di tal genere! E meno male se fosse soltanto un corso di
lezioni: ma si tratta di un umiliante limite alla nostra sovranità.
Voi capite che qualunque degli Stati che figurano vincitori
-anche l'Etiopia, che è compresa tra questi ed è tra i
firmatari del Trattato -può sollevare la questione se le
libertà fondamentali siano state rispettate a proposito di
una qualsiasi legge italiana, per esempio di una legge per l'istruzione,
come quella che potrebbe presentare l'onorevole
Gonella e che fosse da alcuni, anche in Italia considerata
come lesiva della libertà di coscienza, che è libertà fondamentale.
Un Paese che nell'esercizio del più sovrano dei
diritti , che è il potere legislativo, sia soggetto a tali controlli ,
non è più un Paese indipendente! Qualche cosa di simile
poteva forse avvenire nell'antico impero Ottomano, la vecchia
Turchia; ma la nuova Turchia ha superato questa possibilità
d'interventi. L'Italia l'ammette con questo articolo
15, che vorreste approvare d'urgenza, senza necessità, ma
bensì come un'accettazione, sia pure rassegnata, ma pur
sempre volontaria.

Poi c'è l'articolo 16, il quale si presenta a prima vista semplicemente
privo di senso perché dice:

«L' Italia non incriminerà né altrimenti perseguiterà
alcun cittadino italiano, compresi gli appartenenti alle
Forze armate, pel solo fatto di avere, durante il periodo di
tempo corrente dal giugno del 1940 ~tll'entrata in vigore del
presente Trattato, espressa simpatia o d'aver agito in favore
della causa delle Potenze alleate od associate».

Salvo l'oscura allusione agli «appartenenti alle Forze
armate», l'articolo manca di serietà quando dispone che l'onorevole
De Gasperi non potrebbe incriminare molto l'onorevole
Pacciardi o -persino -se stesso per avere espresso
simpatia alla causa degli alleati! E c'è poi l'articolo 17 che
dice:

«L'Italia, la quale, in conformità dell'articolo 30 della

36
Convenzione di armistizio, ha pr~so misure per sciogliere le
organizzazioni fasciste in Italia, non permetterà in territorio
italiano, la rinascita di simili organizzazioni, siano esse
politiche, militari o militarizzate, che abbiano per oggetto
di privare il popolo dei suoi diritti democratici».

Or ecco. Non c'è nessuno che sia stato più intransigente
di me contro il fascimo.

Nessuno più di me avverte l'inesorabile nesso casuale,
che lega la nostra presente catastrofe a quel terribile fenomeno
verso cui non abbiamo neanche il conforto di una
immunizzazione, come c'è stata negli altri Paesi. Perché
non è vero che il fascismo sia stato un fenomeno esclusivamente
italiano. Gli stessi Inglesi hanno avuto qualche anticipazione
di metodi fascisti verso la fine del Governo di
Cromwell: lord Protettore è affine , anche nel significato
della parola, a Duce o a Fiihrer.

Certamente, egli fu un grand'uomo; e fu fortuna dell'Inghilterra,
che quella parentesi nella grande storia delle
libertà di essa non abbia nociuto ma giovato alla sua potenza.
Eppure il ricordo di questo Protettore fu così esecrato

da arrivare sino alla profanazione di una tomba e ad atti
feroci contro un cadavere. La Francia ebbe il suo secondo
[mpero, che rassomiglia al fascismo come due gocce d'acqua.
E finì nel disastro , come fu per l'Italia. Il ricordo però,
direi l'orrore per quel regime, per quel periodo, si perpetuò
talmente che a Milano, dove si era preparata una statua
equestre per Napoleone III artisticamente assai bella, non
si poté farla uscire dal magazzino dov'era custodita perché
discretamente il Governo italiano era avvertito che l'impressione
in Francia sarebbe stata penosa .. ..

Il fascismo è come il vaiuolo: chi lo ha avuto ha almeno il
vantaggio che non lo avrà più. In Italia, purtroppo, dobbiamo
sentir parlare di neofascismo; temo che, in gran
parte ciò si debba agli errori dell'immediato antifascismo.

Non è già , dunque che l'articolo 17 mi dispiaccia per sé
stesso, ma mi ripugna come un'offesa intollerabile alla
sovranità del nostro Stato. Qualunque atto di Governo può
prestarsi ad una interpretazione che dia luogo alla accusa
della violazione dell'articolo 17. Intanto tutte le espressioni
in esso usate sono elastiche, atte a favorire ogni punto di
vista soggettivo. Una organizzazione dei così detti giovani
esploratori potrà essere considerata come militarizzata; e
del resto, le organizzazioni di cui si vieta la rinascita sono
anche quelle politiche: ogni associazione , la stessa organizzazione
dei partiti può esservi compresa. Che cosa sono,
poi, questi «diritti democratici» la cui privazione violerebbe
l'articolo 17? Vorrei conoscere il collega che ha inventato
frasi così bislacche. Certo è che vi è qui un vastissimo campo,
a proposito del quale il nostro Ministero degli esteri
potrà bruscamente ricevere da parte di un diplomatico etiopico
o lussemburghese una protesta formale perché un
qualsiasi provvedimento avrebbe violato l'articolo 17. E
badate che le censure contro provvedimenti od atti accusati
di aver carattere fascistico , sono continue o reciproche
anche in questa Aula: in discussioni di politica interna sono
forme polemiche quasi ordinarie. Quante volte non
abbiamo inteso noi un deputato di quei settori (Accenna
all'estrema sinistra) accusare di fascismo questo o quell'altra
opinione e quante voIte la stessa accusa è stata ritorta dai
settori opposti! Lo straniero, pertanto, che vorrà sollevare
una questione di quel genere, potrà sempre fondarsi sull'autorità
di ammissioni italiane, ed anche autorevoli, a
favore del suo assunto!

E non mi sento di andare oltre. C'è tutta una collezione
di articoli , mortificanti quando non sono umilianti. Quelli
sul disarmo sono orribili. Si potrà entrare in ogni casa italiana
per vedere se c'è nascosto un ordigno più progredito,
utile all'offesa e difesa militare. Le poche truppe che ci
lasciano devono avere un armamento ridotto, che può dirsi
primitivo in questa epoca dei carri armati e dei cannoni a
grande portata. Al Paese di Galileo, di Volta, di Marconi è
vietato persino di fare scoperte che valorizzino di più il proprio
esercito. È già una prepotenza odiosa; ma chi può dire
e sino a qual punto una scoperta in qualsiasi campo possa
avere applicazioni militari? In conclusione anche i gabinetti
delle nostre Università potrebbero essere assoggettati ad
un controllo, capace di impedire il proseguimento di uno
studio scientifico!


Or questa non è più indipendenza. La sovranità italiana
non è più completa, e, in questa maniera delicatissima, un
limite qualunque si pone per sé come una negazione totale.
Anche grammaticamente, sovrano è un superlativo; se ne
fa un comparativo, lo si annulla.

L'indipendenza sovrana del nostro Stato vien dunque
meno formalmente, cioè come diritto, mà che dire dell'indipendenza
come fatto? Argomento forse ancor più doloroso.
Non è più un segreto l'intervento degli stati maggiori e
degli ammiragliati nella formazione di questa camicia di
forza che toglie all'Italia ogni possibilità di difendersi. Questa
imposizione di pace è fatta in maniera di trasformare l'Italia
nel campo di battaglia della guerra futura , fra Occidente
ed Oriente, se questo orrore non sarà evitato. Peggio
ancora, l'Italia è stata considerata come un territorio alla
mercé degli eserciti combattenti, tanto di oriente che di
occidente.

Tutto ciò è stato fatto consapevolmente con quello scopo
preordinato. Aperta la frontiera orientale, dove avevamo
la chiusura delle Alpi culminante al monte Nevoso, l'eventuale
esercito dall'oriente è già in territorio italiano e si è
assicurata la demolizione delle nostre fortificazioni per
venti chilometri. Quindi il giorno -Dio non voglia -(nessuno
più di me può presentirne l'angoscia) in cui avvenisse
l'irruzione noi sappiamo che essa non potrà essere arrestata
ma solo contenuta ritardandone l'afflusso in quella Valle
Padana che è stata nei secoli, e tornerebbe ora ad essere,
campo di battaglia in tutte le guerre europee. Si ripeterà
quella che è stata la storia dei mille cinquecento anni seguiti
alla caduta di Roma. E gli stati maggiori dell'altra parte han
facilmente previsto l'evento di un insuccesso in pianura: ed
han pensato alle Alpi. Così si a~riva alla frontiera occidentale:
Briga o Tenda.

Appena si intese parlare di Briga e Tenda, nessuno potè
credere che lo scopo fosse di annettersi quelle poche
migliaia di montanari italianissimi. Vero èche vi è un tesoro
di energia elettrica. Non so a questo proposito se l'onorevole
Ministro Sforza, quando mise a disposizione del piano
Marshall tutta la forza dalle acque delle nostre Alpi, si sia
astenuto per cortesia verso il collega Bidault, dall'inc1udervi
anche quella della Roia e quelle del Moncenisio. Ad
ogni modo prescindiamo dal lato economico; a titolo di
riparazioni si potevan dare le ore di energia desiderate. Ma
il passo del Col di Tenda dato alla Francia significa il punto
di arresto dell'invasioni orientàli. Le Alpi non servono più
a difendere l'Italia, ma gli altri paesi, dopo il sacrificio dell'Italia.
!

Quello che accadde poi, a proposito del disarmo navale,

rappresenta un mistero inspiegabile o, peggio, profonda


mente conturbante, quando si pensa alle spiegazioni possi


bili, poiché qui l'incredibile è che le limitazioni sarebbero

state richieste proprio dagli Stati che hanno rispetto a noi

una schiacciante superiorità navale. Perché ci hanno por


tato via tutte le motosiluranti e tutti i sommergibili 'e ci

hanno vietato di costruirne o di acquistarne? Non sono que


ste per eccellenza armi difensive? Chi dunque poteva avere

interesse che l'Italia non potesse neanche difendersi? Si

dice che siano stati gli Inglesi. Ma, almeno, a Parigi si erano

salvati gli antisommergibili. A Nuova York però, davanti ai
21 , sarebbe stata la Francia a rilevare che una tale conces~
sione fosse eccessiva. E fu così che ci furono definitivamente
negati anche gli antisommergibili!

Questo è l'atto che per beffarda antifrasi si chiama Trattato
di pace; con cui l'Italia perde l'indipendenza in diritto,
la perde in fatto, perché non può più difenderla; e perde l'onore.
Perde l'onore! Tutto il testb e tutto il contesto, ma
soprattutto lo spirito del Trattato consiste in questo, o
signori: nel dare il più duro, il più inesorabile rilievo a questo
punto: che durante la guerra o dopo, sinora, sempre, noi
siamo stati considerati come nemici. Ce l'hanno detto in
tutti i toni: nemici! Ed allora i partigiani che si sono battuti
ed il corpo di liberazione e gli aviatori veramente eroici che
hanno volato con i loro apparecchi vecchi, logori e stanchi
perché non davano loro quelli nuovi e buoni e partivano
senza sapere se avrebbero fatto ritorno, tutti questi per chi
si sono dunque battuti? Per un nemico?

Quale maggiore offesa? E noi dobbiamo tollerarla:
intendo.non in quanto ci venga imposta per legge di necessità,
ma per atto volontario e in certo senso spontaneo? Quei
nostri soldati, p'artigiani, aviatori, marinai sarebbero considerati
peggio dei mercenari guidati dai condottieri, da un
Alberigo da Barbiano o da un Muzio Attendolo Sforza, o
da un Giovanni dalle Bande Nere perché quelli almeno si
battevano per un compenso, onestamente e, in generale,
valorosamente si battevano per colui che li aveva ingaggiati
. Ma questi nostri , secondo la definizione del Trattato, si
sarebbero'battuti per un nemico!

E ancora ancora, minore sarebbe l'offesa in rapporto agli
uomini. Ordinati essi in unità militari, ,di queste, quando
sono disciolte, non rimane che un nome; e l'onore dei morti
e dei vivi dipendono dalla causa per cui si sono battuti, giudicata
secondo quella giustizia ideale che è ben più grande
di tutti i quattro Grandi messi insieme.

Ma la questione dell'onore rimane invece ed è ardente
per la marina. Qui, l'uomo si fonde con la cosa: la nave. E
la nave continua ad esistere con la sua bandiera e voi inten-37
dete quel che ciò significhi per il marinaio, il quale deve
morire, prima della sua nave o con essa. E si sono battute
queste navi infaticabilmente, in tutti i mari, ed hanno corso
tutti i rischi ; hanno tutta la legione eroica dei loro morti. Ed
ora si viene a dir loro: queste vostre navi debbono esserci
consegnate come bottino di guerra, cioè come navi nemiche;
come quelle che battendosi per noi, alleati, si sarebbero
battute per un nemico. Si può dare ingratitudine più
atroce?

Queste navi si trovano nel porto di Spezia o altrove; ricevono
l'ordine di sottrarsi ai tedeschi , di raggiungere Malta
per mettersi a disposizione dell'Ammiragliato inglese. La
flotta francese si trovò in una situazione simile quando il 27
novembre 1942 Tolone fu occupata dai tedeschi; le navi
furono autoaffondate, bel gesto, in quanto imposto dalla
impossibilità dei movimenti. Ma la nostra uscì senza nessuna
protezione aerea e sapendo a quali rischi si esponeva.
E la nave ammiraglia, la bella corazzata Roma, affondò
sotto bombe di aeroplani tedeschi col suo Ammiragliato,
coi suoi 1800 marinai. Queste navi, dicevo, hanno conti



Ma è ormai tempo di avviarmi alla conclusione. La critica
da me fatta al cosiddetto Trattato, per quanto prolungata
anche troppo, resta sempre inferiore a tutto quello che si
potrebbe e dovrebbe dire per un'analisi appena adeguata.
Ma l'ora non lo consente. Or la conclusione è in forma di
questo dilemma: dare o negare l'approvazione? Parecchi
oratori, l'onorevole Gasparotto, l'onorevol~ Corbino ed
altri hanno avuto per me un pensiero affettuoso e deferente,
quando hanno riconosciuto che la storia da me vissuta,
l'avere avuto la fortuna e l'onore di legare il mio nome alla
vittoria della Patria, vittoria che ci diede quello che ora perdiamo,
costituiscono per me un titolo quasi personale, che
mi consenta di rifiutare l'approvazione. In altri termini,
l'approvazione per sé è cosa amarissima, ma a cui non ci si
può sottrarre; a me questa esenzione è consentita. Ringrazio
del pensiero, ripeto, affettuoso e deferente; ma dico
subito che se pure avessi questo titolo di immunità non vorrei
servirmene in via pregiudiziale. Un'umiliazione che io
riconoscessi necessaria alla salvezza del Paese dovrebbe
essere accettata da me come dagli altri: nel rifiuto a priori io
troverei i segni di quel nazionalismo, che è la degenerazione
del patriottismo, e di esserne immune io lo dimostrai, in
memorandi eventi. Che se lo storico futuro volesse riconoscere
in questi eventi un titolo di merito per me, penso che
dovrebbe riscontrarlo, nell'essere io stato sempre al centro
di due estremi, esposto al fuoco incrociato dell'una parte o
dell'altra in questa Italia sulla quale -o almeno su alcune
regioni di essa -pesa la sciagurata tradizione delle divisioni
estreme ed irriconciliabili: Guelfi e Ghibellini. Così io ebbi
contro con pari veemenza, non meno' i rinunciatari che i
nazionalisti. Quanto a questi ultimi, se qualcuno pensasse
che io con il mio atteggiamento di intransigenza, contro il
Trattato, riveli tendenze nazionaliste, lo pregherei di
andare alla Biblioteca della camera e consultare il giornale,
organo di quel partito: L'Idea Nazionale. Se mai vi fu un
uomo cui nessuno oltraggio fu risparmiato, fui io quello. Ci
fu un famoso articolo che aveva questo titolo abbastanza
significativo: «Tagliate gli la lingua». Se quindi gli antinazio


38
nalisti vogliono tagliarrni qualche altro organo, mi rimetto
alla loro discrezione. Per ciò, ho detto e ripeto che se ritenessi
necessaria un atto di umiltà per la salvezza della
Patria, chiederei di essere io stesso il primo a compierlo.
Ma, per l'appunto, mi sono soffermato sulla storia di questa
politica triennale fatta di sottomissione e di umiltà, perché
sia a tutti presente il rapporto con lo stato cui quella politica
ci ha ridotti: stato di cosÌ estrema miseria da giustificare
l'atto inverso cioè di una ribellione che si ponga, non fòss'altro,
come una sfida al destino, quando tutto è perduto e
non resti che salvare l'onore. Ringrazio vivamente l'onorevole
Gasparotto del pensiero, che ha avuto, di citare oggi
qui quel mio telegramma a proposito della decisione di
quella che fu la battaglia di Vittorio Veneto. Or m\ importa
di precisare che la copia di quel telegramma egli non la ebbe
da me; io non me ne sono mai vantato, ed anzi di quel mio
intervento non ho mai parlato.

Voglio dire che la rivalutazione di quello storico episodio
non proviene da me. Ma una volta che essa è avvenuta, ho
bene il diritto di metterne in rilievo il significato, in quanto

abbia rapporto col solenne momento storico attuale. E il

significato è questo: che come ci sono momenti in cui biso


gna umiliarsi e sottomettersi, ci sono pure i momenti in cui

bisogna osare. L'uomo di Stato si rivela proprio in questi

momenti, quando si tratta di assumere le grandi responsabi


lità dell'azione, e non già di abbandonarsi a quella sostan


ziale fuga da ogni responsabilità che è la sopportazione. Ed

io dissi che l'episodio di quel mio telegramma dell'ottobre

del 1918 poteva avere un rapporto con la discussione odier


na, sotto questo aspetto: che la responsabilità da me allora

assunta fu cosÌ grave che se Vittorio Veneto fosse stata una

sconfitta io avrei dovuto essere mandato in Alta Corte di

Giustizia e condannato forse anche alla fucilazione.

nuato a battersi ed ora sono bottino di guerra, e debbono

ora essere consegnate come se fossero state vinte e prese.!

E noi, per secondare il piano Marshall e per contendere alla

Bulgaria l'onore di entrar prima nell'O.N.U., approviamo

tali iniquità, senza almeno la scusa di una urgenza improro


gabile.

Badate! non domandate ai nostri marinai -i quali hanno
fatto prodigi di disciplina, che è coraggio morale, oltre che
di coraggio fisico -non domandate loro di ammainare la
loro bandiera, per farla sostituire da un'altra, come dei vinti.
Essi non lo tollerebbero, non potrebbero tollerarlo; vi è
qualcuno, qua dentro, che darebbe loro torto? Evitatelo.
Non so; credo che ci siano forme da studiare capaci di
togliere alla nave la sua qualità di militare e di combattente.
Credo che si dica: rendere le navi borghesi. Tra le altre
cose, il trattato impone all'Italia non solo la consegna delle
navi, ma anche che esse siano rimesse in efficienza, cosa che
non si chiese alla Germania, nel 1919. li Trattato di pace
con la Germania fu allora incomparabilmente più mite di
questo nostro attuale. L'Italia deve spendere alcuni
miliardi per mettere in efficienza le navi danneggiate nella
lunga campagna fatta a favore degli stessi alleati. CosÌ perdiamo
le nostre navi migliori : le ammirabili Italia e Vittorio
Veneto; nomi così cari ad ogni cuore italiano. Pensateci! I
nostri marinai han meritato che il loro onore, per quanto
possibile, sia salvo.

Certamente, io ritenevo e continuo a ritenere che il Capo
del governo civile, nelle guerre di popolo e non solo di eserciti,
come le due recenti, ha il diritto ed il dovere di ingerirsi
in cio che riguarda l'andamento della guerra anche dal lato
puramente militare, da qui il mio insanabile dissenso con il
Generale Cadorna. Ma non è men vero che anche quel
diritto ha dei limiti ed io confesso che con quel telegramma
avevo quei limiti sorpassafi, esponendomi con ciò a quelle
estreme conseguenze, che, qualora l'evento fosse stato
avverso, avrebbero comportato un giudizio ed una severa
condanna.

Per cio, dunque, pur rinnovando i miei ringraziamenti ai
colleghi che han voluto attribuire a me una specie di asilo
spirituale per sottrarmi ad un voto amarissimo, dico che
non intendo servirmi di questo titolo. Se io sono risolutamente,
irriducibilmente ostile all'approvazione che ci si
chiede, egli è perché sento come una morale impossibilità,
superiore ad ogni utilità (se pure ci fosse!) di dare un consenso,
sia pure coatto, ad un documento che, in fatto di ini



quità e di ingiustizia, raggiunge una delle vette più elevate
fra le tante prepotenze ed arbitri onde è contaminata la storia
dei rapporti internazionali. Ma tanto più poi e tanto peggio
per il momento e per il modo onde il voto ci si chiede,
pregiudicando dinanzi alla storia l'unica scusa e cioè di aver
ceduto ad una legge 'di necessità. Questo sentimento ha
carattere ideale ; ma trova altresì conforto in una ragione
d'ordine pratico, la quale avverte di essere ormai venuto il
momento di interrompere il sistema di cedere ed accondiscendere
finora seguito e di compiere finalmente un'atto di
fierezza e di dignità. Per tre anni ci siamo sottomessi continuamente
e ne vedete i risultati. Ora, basta.

Non mi soffermo sulla causa specifica della ratifica che
manca. Per me basta l'articolo 90. Così brutale per noi, poiché
quanto all'esecuzione dell'atto prescinde totalmente
dalla nostra volontà; ma, per ciò stesso, ci fa sapere che sino
a quando le quattro ratifiche non siano depositate, l'atto
non entra in vigore, e noi non siamo obbligati a subirlo e
tanto meno a riconoscerlo. Se dunque quella condizione
manca, il nostro consenso, si presenta libero e volontario e
ciò determina la mia ribellione. Che poi la potenza la cui
ratifica sinora manchi, sia la Russia o l'America o la Gran
Bretagna o la Francia, mi è perfettamente indifferente. I
colleghi Nenni e Togliatti, che mi furono compagni nella
Commissione dei Trattati, mi han dato atto di ciò ed uno di
essi ha ripetuto una mia frase detta allora, e cioè che per me
la ratifica che manca basta che sia attribuita ad una potenza

X.
Quanto alla Russia, peraltro, vi fu un curioso documento
che l'A.N.S.A. diramò come proveniente da un portavoce
di Palazzo Chigi , e secondo il quale la ratifica della Russia
era lì per venire e sarebbe arrivata fra pochi giorni. Sono
ora invece passate varie settimane e non se ne vede il principio.
Ah , questi portavoce! Ad ogni modo, ripeto , a me che
sia la Russia a non ratificare non importa nulla e si dovrebbe
aggiungere che anche per la Russia non vi è nessun rapporto
fra la sua astensione e la ratifica che pur hanno fatta alcuni
degli Stati che si dicono satelliti di essa. Il mio intento è
puramente obbiettivo: il Trattato per ora è ineseguibile.
Perché, dunque, questa fretta di approvarlo spontaneamente,
proprio noi, i sacrificati e gli offesi?

Tutto ciò assorbe la questione della utilità poiché la
soverchia di gran lunga. Ma, ad ogni modo, in che consisterebbe
questa utilità? Prima ci si disse, in Commissione dei
Trattati, che occorreva la ratifica per l'ammissione dell'Italia
al convegno di Parigi pcr il piano Marshall: l'evento
dimostrò che non era così . Ora ci si dice che occorre per
l'ammissione all'O.N.U. Ma dove è la disposizione che
subordina l'ingresso all'O.N.U. alla ratifica? Dove è? Ho
qui lo Statuto, dove si parla dell'ammissione dei nuovi
membri e se ne stabiliscono le condizioni; nulla , in esso, che
si colleghi con la ratifica. Se sbaglio, mi si interrompi e mi si
dica quale sia l'articolo, il capoverso, la parola che importi
una tale conseguenza. Dunque, questa ragione non sussiste.


Non è vero nemmeno -l'hanno ingannata, onorevole

Ministro -quando si dice che se passa il lO agosto non

potremo avere questa fortuna di essere ammessi e per


diamo l'anno. Neanche ciò è vero, perché l'anno scorso il
Siam fu ammesso a novembre. La procedura è la seguente.
In agosto avviene un esame preliminare da parte di una
Commissione, che nei suoi membri riproduce le undici
potenze del Consiglio di sicurezza. Quando si trattò del
Siam, siccome pendeva una contestazione con la Francia
per i confini con l'Indocina, la Francia chiese ed ottenne che
la domanda del Siam non fosse ammessa. Senz'altro. In
seguito, il dissidio si compose e il Siam fu ammesso, come
ho detto, in novembre.

A voler chiamare le cose col loro nome e senza ipocriti
infingimenti, la verità è che per l'ammissione all'O.N.U. ,
tutto dipende dall'accordo delle cinque Potenze che hanno
il seggio permanente e quindi il diritto di veto. L'opposizione
di una sola di esse basta a fermare l'ammissione. [ ... ]

Lascio poi stare per l'ora che urge, l'altra indagine più
sostanziale per cui si pretende che l'ammissione nell'O.
N.U. sia un così grande beneficio da valere come una
giustificazione di questa sciagurata ratifica. lo non solo contesto
risolutamente che vi sia un vantaggio qualsiasi , ma
ritengo invece che si tratti di cosa non desiderabile e mi
asterrei, nonché dal chiederla, dall'accettarla, considerandola
come un 'altra mortificazione inflitta al nostro Paese.

11 posto che esso prenderebbe lo graduerebbe dopo
Stati minuscoli ; diciamolo francamente: sarebbe come una
firma apposta alla nostra rinuncia alla qualità di grande
Potenza. Ammetto che questa sia purtroppo la situazione
attuale; ma perché andare verso il riconoscimento di questa
nostra decadenza con così premurosa e soddisfatta sollecitudine?
ma anche a parte tutto ciò, lo Statuto dell'O.N.U.
contiene quei due famosi articoli, 53 e 57, che non leggo, ma
il cui senso, per quanto poco chiaro, importa che, mentre la
garanzia essenziale per i membri dell'O.N.U. è che nessuno
possa essere aggredito senza violare solenni impegni dando
luogo all'immediato soccorso di tutte le nazioni unite, a
questa regola si introduce con quegli articoli un'eccezione
pel caso che l'iniziativa provenga da uno degli Stati alleati
ed associati contro uno stato ex nemico. In altri termini, la 39
Jugoslavia o l'Etiopia potrebbero aggredirci senza che noi
fossimo protetti dalle garanzie che proteggono gli altri Stati
dell'O .N.U.!

Il Ministro si rende conto della enormità di queste disposizioni
e dice di aver avuto l'affidamento che saranno sorpresse,
poiché tutte le repubbliche del Sud America si son
dichiarate contrarie. Si, ma gli debbo ricordare il veto che,
da solo, annulla tutte le maggioranze. In ogni caso io vorrei
che quei due articoli fossero già soppressi, prima di accettare
la situazion che ne deriva, la quale ci mette in uno stato
di inferiorità verso gli altri membri dell'associazione, sin dal
momento in cui entreremmo a farne parte.

~essuno, dunque, dei vantaggi che si fanno sperare come
conseguenza di questa approvazione anticipata può dirsi
sussistente ed effettivo; la stessa condizione armistiziale
continua formalmente immutata, perché il termine dei 90
giorni fissato per la cessazion« di essa, non comincia a
decorrere se non dal deposito delle quattro ratifiche. Ma ci
fossero pure dei vantaggi, nulla essi varrebbero, per me, in
confronto dei sacrifici estremi che ci si vogliono imporre,


come ho dimostrato in questo mio discorso, incompleto se
pur lungo. Perciò io sono, in ogni caso e in ogm tempo, contrario
all'approvazione, perché non val vivere quando si
perdono le ragioni di vivere. L'Italia non può opporre al
disfacimento cui l'atto la vorrebbe condannare che il fatto
della sua esistenza come grande e gloriosa nazione: e questo
fatto è insopprimibile, malgrado ogni iniquità. Che se, però
questa mia decisione estrema la maggioranza di voi non
crede di consentire, io posso rispettare codesta perplessità.
Ma considerate almeno questo lato della decisione odierna,
il signjficato di questa accettazione, che avviene in un
momento in cui essa non è necessaria ; onde il vostro voto

acquista il valore di un'accettazione volontaria di questa
che è una rinuncia a quanto di più sacro vi è stato confidato
dal popolo quando vi elesse: l'indipendenza e l'onore della
Patria. Vi prego, vi scongiuro, onorevoli colleghi , al di là e
al di sopra dj qualunque sentimento di parte -quale stolto
potrebbe attribuirmelo? -non mettete i vostri partiti, non
mettete voi stessi di fronte a così paurosa responsabilità.
Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni
future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per
cupidigia di serviljtà.

Vittorio Emanuele Orlando