Quando di una guerra si vedono e/o si considerano le immagini dei combattimenti, delle armi, delle distruzioni, si è portati a credere che l’essenza e lo scopo della guerra sia la distruzione dell’avversario.
Non è così: da Sun Tzu a Clausewitz, da S. Agostino a Gentile, da Vattel a Santi Romano, lo scopo cui tende la guerra è d’imporre la propria volontà al nemico al fine di realizzare un nuovo ordine, di gradimento del vincitore (lo scopo politico).
Essenziale, per dettare la propria volontà è indebolire quella del nemico, fiaccarne (e fuorviarne) la capacità di resistenza e la determinazione a combattere: in ciò le parole (la comunicazione) sono elemento essenziale della guerra psicologica. Tipo di guerra non limitato ai nostri giorni.
Ogni belligerante ha una propria retorica, usata come arma per condurre e vincere la guerra; nella quale è sempre presente sia il terrore (il bastone) che la seduzione (la carota), miscelate in varie misure e forme. E ogni retorica, è adatta ad un proprio uditorio. Pensare che le armi cedano il posto alla discussione è la formula di molte illusioni pacifiste. La realtà è che il fine politico (e l’uomo politico) si serve sia delle parole che delle armi: e queste non sono tra loro alternative, ma complementari.
L’aveva ben capito Machiavelli che esaltava la virtù del capo, sia se crudele, sia magnanimo: l’essenziale è che il mezzo serva a raggiungere il fine.
Le forme della comunicazione bellica devono tener conto delle convinzioni, dei luoghi comuni, delle credenze, dei modi di pensare del nemico (se ad esso rivolte) come dei (propri) seguaci. Occorre, pertanto sia per combattere che per negoziare “pensare islamico, parlare islamico, argomentare islamico. Mettersi alla portata retorica dell’avversario”.
Tra società occidentali, riconducibili al tipo di potere razionale-legale, ed islamiche, in cui predomina il tipo di potere tradizionale misto, in particolare nello Stato islamico, a quello carismatico, il discorso persuasivo è radicalmente differente.
Così ad esempio il rapporto comando/obbedienza che nel discorso occidentale è spesso, a livello retorico, mistificato (o almeno edulcorato) sotto varie forme, in particolare quelle del dialogo (e della discussione), nella retorica dell’ISIS è esaltato: è la “proclamazione di questo dovere assoluto di obbedienza che include al tempo stesso il ruolo di imam, ossia la guida religiosa, e il califfato, ossia la guida politica. Il califfo è dunque colui che proclama e assume l’estensione del dominio della fede all’umanità proclamando il dovere di obbedienza”.
Scrive poi l’autore, sulla falsariga della “Teoria del partigiano” di Carl Schmitt che il combattente dell’ISIS è un partigiano, in particolare quando opera nel territorio degli Stati occidentali. Con ciò l’ISIS “condivide questo aspetto con le organizzazioni rivoluzionarie di un tempo: esige e instaura una belligeranza totale, un impegno assoluto da parte dei suoi partigiani”; e così “Vediamo il ritorno del partigiano politico, e dunque di una guerra politica, ci troviamo mentalmente disarmati …per far fronte a ciò che è alla base della fede trasferita qui nell’atto politico: il sacro non si distingue dal profano per differenza quantitativa … ma per una differenza di natura”. Il combattente islamico ha in comune con i partigiani del comunismo del secolo passato la tensione verso l’assoluto “che identifica nella distruzione totale dell’avversario il trionfo dei valori in cui crede il partigiano. Un terrorista non può conoscere mezze misure. Si tratta di rivoluzionare il mondo, cioè di rimetterlo nella sua interezza là dove avrebbe dovuto essere: nell’islam”; come per i marxisti-leninisti di realizzare la società comunista, resa possibile dalla dottrina che aveva scoperto “l’enigma irrisolto della storia”. Mentre il “vecchio” partigiano, i lazzaroni del Cardinal Ruffo come i guerilleros di Empecinado avevano la connotazione di difensori di un determinato territorio, come delle popolazioni e del di esse modo di vita. Il partigiano moderno, quello comunista come quello islamico, ha un’attitudine aggressiva, volta a cambiare il volto del mondo e non già a difendere un territorio.
Scrive Salazar “Questa assolutizzazione ha fatto sì che, per l’appunto, i territori come noi li conosciamo non esistano più, le frontiere vengano abolite e le entità geografiche scompaiono dietro lo slancio globalizzante della lotta”; onde “il terrorismo islamico del Califfato è di un’ostilità generalizzata, polimorfa e illimitata. E’ senza termini di paragone. Questa è la sua forma”.
Tuttavia se le azioni di Al Quaeda avevano portato all’estremo il carattere dell’assenza di forma, (non c’era un territorio, né una popolazione, né un’organizzazione definita), ed accolto così il consiglio di Sun-tzu “che di fronte al nemico ci si deve assottigliare… più del sottile fino a rendersi privi di forma … Soltanto così saremo in grado di diventare gli arbitri del loro (dei nemici) destino” e questo perché “Il Nemico manifesta una forma e con ciò si rende umano. Io invece sono privo di forma”; dimodoché per quanto concerne la forma dell’azione militare, si attinge propriamente l’enfasi con l’assenza di forma, non altrettanto appare per il Califfato. Il che significa che questo perde la caratteristica peculiare di Al-Quaeda: la minima vulnerabilità che in una guerra asimmetrica è la migliore difesa possibile, dato lo squilibrio di potenza con gli Stati occidentali.
In questi giorni la città più importante conquistata dal Califfato, cioè Mosul è sotto attacco della coalizione Anti-ISIS; offensiva che in questi modi, non sarebbe stato possibile nei confronti di Al-Quaeda, non solo priva di città “conquistate” ma anche di una “sede” identificabile sul territorio.
In definitiva a voler sintetizzare la lezione (principale) di questo libro è che la guerra “psicologica” e i messaggi dei contendenti spesso hanno carattere risolutivo. In fondo l’aveva capito bene secoli fa De Maistre, quando, con uno dei suoi (apparenti) paradossi scriveva che è l’opinione a vincere le battaglie.
Teodoro Klitsche de la Grange
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