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martedì 24 maggio 2011

Discorso di Obama al Mondo Arabo - Parte II: - Egitto, Tunisia, Palestina, Israele

Homepage Egeria - N° 20
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Parla Egeria

Dopo questa introduzione troverete in basso la traduzione della seconda parte del discorso di Obama 'sul Mondo Arabo'. La prima parte è stata pubblicata qualche giorno fa e la troverte a questo link, preceduta da un riepilogo della situazione attuale nel mondo Arabo e in particolare in Palestina.

Nella prima parte del discorso, Obama si era scagliato contro quei paesi che non intendono sottostare alle condizioni di Washington e di Israele - come l'Iran e la Siria, e ovviamente la Libia. Aveva inoltre liquidato la grave situazione del Bahrein - causata dall'invasione dell'Arabia Saudita con l'assenso di Washington - commentando che «il governo del Bahrein ha il legittimo diritto a fare rispettare la legge», mentre sull'Arabia Saudita non ha proferito parola nell'intero discorso, nonostante la corte saudita sia il vero criminale nella regione insieme a Israele - entrambi causa di tanti mali, di tanta repressione nel mondo Arabo.

In questa seconda parte Obama affronta la questione Palestinese, proponendo - per la prima volta in pubblico - la soluzione di uno Stato Palestinese entro in confini antecedenti la guerra del 1967. Ma prima di arrivare alla questione Palestinese, Obama parla di Egitto e Tunisia e illustra una serie di iniziative per 'stimolare l'economia' di questi paesi in particolare, e di altri nella regione, anche per mezzo di erogazioni di fondi.

Agli occhi di un lettore non bene informato, questo progetto potrebbe rappresentare la prova della 'buona fede' di Washington, ma niente è più lontano dalla verità. Vediamo perché, e per quali fini questi fondi dovrebbero servire.

Egitto e Tunisia confinano con la Libia, rispettivamente a Est e a Ovest. E sappiamo bene quali siano le mire dell'Impero in Libia: tutto sembra indicare la ripetizione dello scenario visto nei Balcani, prima, e in Iraq successivamente.

L'Egitto inoltre confina a Est con Israele e con Gaza. Per decenni Mubarak ha ricevuto miliardi di dollari da Washington per fare il 'cane da guardia' di Israele, e in tempi più recenti, per mantenere chiusi i confini con Gaza. Ora al governo dell'Egitto c'è il Consiglio Militare, che è composto dagli stessi personaggi che per tre decenni sono stati gli esecutori degli ordini di Washington e Israele. Mubarak rappresentava un mero simbolo, un fantoccio ben remunerato per il ruolo che impersonava. E inoltre da sempre l'élite militare è in controllo del 90% dell'economia egiziana. L'Egitto è da molti decenni un regime militare a tutti gli effetti. E Washington farà di tutto per mantenere lo status quo, permettendo magari l'elezione di un nuovo presidente 'fantoccio'. Sappiamo che si sono proposti per la presidenza dell'Egitto due figure politiche che nei decenni hanno sempre rappresentato gli interessi di Washington e Israele nelle rispettive sedi: Amr Moussa, in veste di direttore della Lega Araba, e El Baradei, nella sua carica di direttore generale dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica. Mai politiche, da parte di questi due signori, per mettere Israele di fronte alle proprie responsabilità, né nell'Agenzia Atomica, né nella Lega Araba. Sia Moussa che El Baradei si sono dimessi di recente dalle proprie cariche. Intendono fare sul serio nelle prossime elezioni presidenziali egiziane.

Nel discorso che segue, Obama parla molto dell'appoggio che gli USA intendono riservare ai paesi che daranno prova di una 'transizione verso la democrazia'. Ma vediamo - brevemente - cosa stanno facendo gli USA nella regione, e da cosa sono motivati. E vediamo se è vero che desiderano condizioni di vera democrazia nel mondo Arabo.

Negli USA attualmente 50 milioni di persone sono disoccupate. Il 15% della popolazione è in carcere. Un quinto della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Circa 1.000 miliardi di dollari (un trilione) vengono spesi per il budget militare e per i servizi segreti - perfino il budget per il ministero dell'energia serve soprattutto per produrre armi nucleari dell'ultima generazione. I budget per l'istruzione e la sanità sono ridotti all'osso - eppure basterebbe una somma corrispondente al costo di un solo aereo caccia impiegato in Libia per assumere 20.000 insegnanti negli USA.

Se gli USA non continueranno ad avere un accesso privilegiato, a basso costo, al petrolio e ad altre risorse fondamentali, saranno destinati al collasso in breve tempo.

E quindi - come ha brillantemente riassunto un esperto americano di origine indiana intervistato da PressTV: gli USA finanziano le enormi basi militari permanenti (circa un migliaio) in giro per il mondo, per garantire la supervisione degli interessi geo-politici americani e cioè l'accesso alle risorse, e viceversa necessitano l'accesso alle risorse per finanziare gli eserciti, gli armamenti, e le basi militari. In Iraq, ad esempio, sono in perdita e devono recuperare altrove (in Libia, ad esempio).

Per quanto riguarda l'intera area del Golfo Persico, Washington ha delegato all'Arabia Saudita il compito di agire da forza imperiale per sopprimere le sommosse nel sangue, garantire il flusso del petrolio verso l'occidente e salvaguardare l'egemonia di Israele nella regione. Solo pochi mesi prima dell'inizio delle rivolte, gli USA hanno fornito all'Arabia Saudita un arsenale bellico per la somma record di 60 miliardi di dollari.

La brutale repressione del Bahrein è servita da modello per una dimostrazione di forza indirizzata alle popolazioni del Golfo Persico, un deterrente per altri eventuali tentativi di insurrezione nell'area.

Come se non bastasse, da qualche tempo si sta costituendo un esercito privato di mercenari superaddestrati negli Emirati Arabi Uniti.

Il 15 maggio PressTv (che si riceve ovunque nel pianeta) informava il mondo su quello che appunto si sta verificando negli Emirati. L'informazione è stata poi riassunta in un breve articolo, in cui ci viene spiegato che il miliardario Erik Prince, fondatore della famigerata organizzazione mercenaria Blackwater, è stato assunto per 500 milioni di dollari dal principe erediatrio di Abu Dhabi per formare un esercito segreto di mercenari stranieri negli Emirati, in una base militare dal nome Zayed Military city. Già sono presenti numerosi colombiani e sud-africani e altri starnieri, addestrati da soldati americani, dai veterani delle unità per operazioni speciali tedesce e britanniche e dalla Legione Straniera francese. I documenti mostrano che l'esercito straniero sarà incaricato di missioni speciali sia negli Emirati che nell'area del Golfo, per difendere gli oleodotti e i grattacieli da attacchi terroristici, e per sedare eventuali rivolte. Diceva inoltre l'articolo, che gli Emirati sono stretti alleati degli Stati Uniti e un funzionario confermava che Washington è al corrente del programma, e commentava: «Gli stati del Golfo Persico e in particolare gli Emirati, non hanno molta esperienza militare; è quindi comprensibile che cerchino un aiuto all'esterno.»

Ricordiamo che PressTV trasmette in inglese, nel mondo intero, su tutti i satelliti di telecomunicazione. Non è necessaria la Tv a pagamento, basta un piccolo decoder analogico satellitare per prendere PressTV. E si può guardare in streaming sul sito di PressTv 24 h/24. Vengono trasmessi anche molti reportage e documentari di grandissimo valore culturale e divulgativo.

La seconda parte del discorso di Obama va quindi letto alla luce delle considerazioni in alto che sembrano smentire la versione dei 'buoni propositi' illustrati dal presidente americano.

Per assurdo, invece, sembra che Obama voglia forse - forse - fare sul serio con la questione Palestinese. E' quello che pensano alcuni tra gli esperti che in questi giorni si sono succeduti numerosi per commentare il discorso di Obama sul Mondo Arabo e il successivo discorso del presidente di fronte alla Israel Lobby AIPAC. E' vero che Obama nel discorso alla AIPAC ha ritrattato sul piccolo spiraglio di apertura mostrato nel discorso tradotto in basso in merito ai confini pre-guerra del 1967. Ma è anche vero che solo due giorni dopo, durante una conferenza stampa internazionale a Londra, Hillary ha citato le esatte parole di Obama sulla questione Palestinese, pronunciate nel discorso in basso, ribadendo che Obama è serio in merito alla questione.

Infatti Obama - che sappiamo non essere particolarmente entusiasta di Netanyahu - ha fatto la mossa strategica di programmare la partenza per l'Europa, insieme a Hillary Clinton ovviamente, in una data che gli avrebbe evitato di essere presente per i discorsi di Netanyahu di fronte alla AIPAC e al Parlamento americano.

Ieri il discorso di Netanyahu di fronte alla AIPAC è stato spesso interrotto da attivisti infiltrati, poi arrestati uno dopo l'altro, in diretta mondiale. Oggi Netanyahu ha parlato di fronte al Parlamento americano. Nel suo discorso il premier israeliano dichiarava che Israele non avrebbe mai ceduto i territori previsti per uno stato Palestinese entro i confini pre-1967, e ribadiva che Israele intende appropriarsi dell'intera Gerusalemme.

Comunque per la prima volta a Washington è in corso una massiccia contro-iniziativa ANTI-AIPAC, di cui relazioneremo in altro post.

Sono poi arrivate le prime reazioni di alcuni finanziatori ebrei che hanno contribuito alla campagna elettorale di Obama del 2008 e in questi giorni partecipano al congresso della AIPAC. Dichiaravano che non avrebbero più dato contributi per la campagna di ri-elezione di Obama - prevista per l'anno prossimo - perché, a loro dire «Obama ha tradito Israele.» Obama sicuramente sapeva di correre questi rischi, e quindi sarà spinto da motivazioni serie per appoggiare la creazione di uno Stato Palestinese. E qui di seguito alcuni esperti le valutano brevemente.

Al momento i pareri degli esperti che hanno analizzato le vicende di questi giorni sono divisi. Molti vedono l'intera faccenda solo come teatrino politico a beneficio delle popolazioni arabe. Ma alcuni, sia americani che britannici che mediorientali, vedono segni di un cedimento a Washington in favore dei Palestinesi.

La docente in scienze politiche Nada Hashwi commentava: «dopo il periodo iniziale delle rivolte arabe abbiamo assistito ad un'ondata di contro-rivoluzioni, perché nel frattempo i dittatori arabi riuscivano a riprendersi e riorganizzarsi. Ma ora è in atto una rivolta Palestinese. Le vicende del Nakba Day hanno dimostrato che i Palestinesi sono determinati a riappropriarsi della loro Terra, e che la comunità internazionale sta completamente dalla loro parte. Obama è consapevole che un supporto incondizionato per Israele e l'impossibilità per i Palestinesi di avere giustizia potrebbe scatenare una guerra nell'intera area, perché tutti i popoli arabi supportano la Causa Palestinese, e sono arrivati al punto da non lasciarsi più intimidire dai loro dittatori, in particolare gli egiziani e i yemeniti.» Anche oggi circa 60 i morti nelle strade dello Yemen, ma qui Washington non vede alcuna necessità di intervenire - già: c'è poco petrolio nello stato impoverito dello Yemen.

Hussein Ibish, americano, funzionario della 'American Task Force on Palestine', Washington, commentava: «a Washington, le comunità delle politiche estere, dei servizi segreti, e del Pentagono, da qualche tempo concordano tra loro che sia essenziale e assolutamente vitale per gli interessi nazionali degli Stati Uniti fare cessare l'occupazione illegale iniziata da Israele nel 1967 e operare verso la creazione di uno stato Palestinese indipendente. Si rendono conto che gli Stati Uniti non hanno più alcuna scelta opzionale.»

A Londra veniva intervistato John Reese co-fondatore della coalizione britannica 'Stop the War'. Parlava al microfono di Hassan Ghani, mentre partecipava ad una manifestazione anti-Obama, oggi appunto a Londra, per incontrare i reali e il premier britannico. Niente più folle entusiaste a Londra per Obama, come era successo invece due anni fa. Solo proteste per ciò che succede in Palestina e nel Bahrein. Proprio due giorni fa il premier britannico aveva accolto con grandi sorrisi e cerimonie il principe ereditario del Bahrein. Londra non perdona.

John Reese riassumeva in queste parole l'opinione espressa dagli esperti che vedono uno spiraglio di speranza. «Obama si rende conto che la totalità dei popoli, eccetto quello americano, è completamente schierata dalla parte dei Palestinesi, e che presto anche gli americani si sveglieranno e vedranno la realtà. E allora per Washington sarà un bel problema.»

Sì - aggiungo io - sarà un bel problema, perché si renderanno conto che Washington ha anteposto gli interessi di Israele a quelli del popolo americano, e comprenderanno che la giustizia per il popolo americano, saccheggiato e raggirato in favore di politiche estere che rasentano la follia totale, è strettamente legata alla Giustizia per i Palestinesi.


Discorso di Obama al Mondo Arabo,
19 Maggio 2011
Parte 2a


Una lezione che possiamo apprendere in questi tempi è che le divisioni settarie non devono necessariamente risultare in conflitti. In Iraq vediamo la promessa di una democrazia multi-etnica, multi-settaria. I cittadini iracheni hanno rigettato i pericoli della violenza politica in favore del processo democratico e si sono presi la responsabilità per la propria sicurezza. Come vale per ogni democrazia sul nascere, gli iracheni affronteranno battute di arresto. Ma l’Iraq è destinato a giocare un ruolo chiave nella regione se perseguirà il suo progresso pacifico. Se così sarà, l’America sarà orgogliosa di affiancarsi al popolo come partner affidabile.

E dunque nei mesi a venire, l’America dovrà esercitare tutta la propria influenza per incoraggiare le riforme nella regione. Anche se riconosciamo che ogni paese rappresenta un caso individuale, dobbiamo parlare con onestà dei principi che difendiamo, sia con gli amici che non i nemici. Il nostro messaggio è semplice: se sarai disposto a correre i rischi che le riforme richiedono, avrai il pieno appoggio degli Stati Uniti. Perché i nostri sforzi devono indirizzarsi aldilà della élite al potere, per raggiungere le popolazioni che forgeranno il futuro – i giovani in particolare.

Continueremo a dare seguito all’impegno che ho preso nel Cairo – di sponsorizzare l’imprenditoria, di espandere gli scambi culturali; di promuovere la cooperazione nelle scienze e nella tecnologia, e di combattere le malattie. Nell’intera regione intendiamo fornire assistenza a società civili, anche a quelle ufficialmente non sanzionate nonostante dicano verità scomode (?). E useremo la tecnologia per dialogare con i popoli e ascoltare le loro voci.

Infatti, la vera riforma non potrà pervenire solo dalle urne elettorali. I nostri sforzi saranno diretti a supportare i diritti fondamentali per la libera espressione e il libero accesso all’informazione. Supporteremo il diritto dei giornalisti a fare informazione – che siano blogger o lavorino per I grandi media, e il diritto del libero accesso a internet. Nel 21esimo secolo, l’informazione è potere; la verità non può essere nascosta; e la legittimità dei governi dipenderà in ultima analisi dai cittadini informati e attivi.

Un dialogo aperto è importante anche quando le opinioni espresse non coincidono con le nostre. L’America rispetta il diritto di voci pacifiche e rispettose della legge ad esprimersi, anche se siamo in disaccordo con loro. Saremo lieti di cooperare con chiunque voglia abbracciare la causa della vera democrazia. E ci opporremo al tentativo di qualsiasi gruppo di restringere i diritti di altri, e di mantenere il potere con l’uso di mezzi coercitivi e non mediante il consenso. Perché la democrazia non dipende solo dalle elezioni, ma anche da istituzioni forti e responsabili, e dal rispetto dei diritti delle minoranze.

La tolleranza è importante in particolare per quanto riguarda la religione. In Piazza Tahrir abbiamo sentito Egiziani di tutte le fedi ed estrazioni esclamare “Musulmani o Cristiani, siamo uniti.” L’America si impegnerà per fare prevalere questo spirito – per fare rispettare tutte le fedi, e per costruire il dialogo interreligioso. In una regione che è la culla di tre religioni diffuse nel mondo, l’intolleranza può solo generare sofferenza e stagnazione. E perché questa stagione di cambiamenti abbia successo, i Cristiani Copti devono avere il diritto di culto nel Cairo, così come gli Shiiti del Bahrein hanno il diritto alla salvaguardia delle loro moschee (distrutte nella quasi totalità negli ultimi mesi, n.d.t.).

Ciò che vale per le minoranze religiose, vale anche per i diritti delle donne. La storia ci dimostra che le nazioni con donne attive pubblicamente sono più prosperose e pacifiche. E’ per questo che continueremo ad insistere che i diritti universali riguardano sia gli uomini che le donne – nel fornire l’assistenza per la salute delle donne e dei bambini; nel supportare le donne che vogliono insegnare o avviare attività di commercio; nel difendere i diritti delle donne a candidarsi per cariche pubbliche. Perché la regione non raggiungerà mai il proprio potenziale se a metà della popolazione viene impedito di perseguirlo.

Ma i nostri sforzi non possono limitarsi a promuovere riforme politiche e diritti umani. E quindi l’altro aspetto sul quale concentrare i nostri sforzi è lo sviluppo economico delle nazioni che transitano verso la democrazia. Dopotutto la gente non è scesa in piazza solo per via della politica. Molti sono stati sospinti principalmente dalla necessità di mettere in tavola il cibo per la famiglia.

Troppe persone nella regione si svegliano al mattino con la mera speranza di arrivare alla fine della giornata, e che forse un giorno la fortuna busserà alla loro porta. Ovunque nella regione molti giovani hanno una solida istruzione, ma poche speranze di trovare un lavoro. Gli imprenditori hanno tante idee, ma il sistema corrotto non permette di realizzarle.

La risorsa meno sfruttata nella regione del Medio Oriente e Nord Africa è il talento della gente. Nelle recenti proteste abbiamo visto quel talento al lavoro, quando le persone si sono servite della tecnologia per far girare il mondo. Non a caso uno dei leader della rivolta in Piazza Tahrir era un dirigente della Google. Quell’energia ora deve essere canalizzata, in ognuno dei paesi, in modo che i successi della protesta si traducano in crescita economica. Così come le rivoluzioni democratiche possono essere innescate dalla mancanza di opportunità individuali, le transizioni verso la democrazia dipendono dallo sviluppo verso una prosperità allargata.

Dalle nostre esperienze intorno al mondo, vediamo che è importante concentrare l’attenzione sul commercio, non solo sull’aiuto umanitario; e sull’investimento, non solo sull’assistenza. L’obiettivo deve essere un modello in cui il protezionismo ceda il passo all’apertura; il regno del commercio deve passare dalle mani di pochi a quelle di tanti, in modo che l’economia generi lavoro per i giovani. Il supporto dell’America per la democrazia sarà basato quindi sulla stabilità finanziaria; sul promuovere riforme; e sull’integrare tra loro mercati competitivi per un’economia globale – a iniziare dalla Tunisia e dall’Egitto.

Prima di tutto abbiamo chiesto alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale di presentare un piano in occasione del G-8 che si riunirà la prossima settimana. Un piano che illustri cosa sia necessario per stabilizzare e modernizzare le economie di Egitto e Tunisia. Insieme dobbiamo aiutarli a riprendersi dagli sconvolgimenti della rivolta democratica, e supportare i governi che saranno eletti quest’anno. E stiamo sollecitando altre nazioni ad assistere Egitto e Tunisia a soddisfare le proprie esigenze finanziarie immediate.

In secondo luogo, vogliamo evitare che un nuovo Egitto democratico sia travolto dai debiti del passato. E quindi allevieremo l’Egitto di 1 miliardo di dollari di debito, e lavoreremo con i nostri partner egiziani affinché queste risorse siano investite ai fini della crescita imprenditoriale. Aiuteremo l’Egitto a riconquistare l’accesso ai mercati garantendo 1 miliardo di dollari in prestito, necessari per finanziare infrastrutture e creare posti di lavoro. E aiuteremo il nuovo governo democratico a recuperare il patrimonio sottratto illegalmente.

Terzo, stiamo lavorando con il nostro Parlamento per creare un Fondo Imprenditoriale da investire in Tunisia e Egitto. Il modello seguirà quello del fondo creato per supportare la transizione dell’Europa dell’Est dopo la caduta del Muro di Berlino. La OPIC (agenzia governativa americana che mobilizza capitali in aree critiche per le politiche estere degli Stati Uniti) lancerà a breve un programma per sostenere gli investimenti privati nella regione. E lavoreremo con i nostri alleati per fare in modo che la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo fornisca lo stesso supporto per transizioni democratiche e per la modernizzazione del Medio Oriente e dell’Africa del Nord, come ha fatto per l’Europa.

Quarto, gli Stati Uniti lanceranno l’iniziativa per una complessiva ‘Partnership di Commercio e Investimenti’ in Medio Oriente e Nord Africa. Se si esclude l’export del petrolio, il tetto complessivo dell’export in questa regione di oltre 400 milioni di persone raggiunge appena quello della Svizzera. E quindi lavoreremo con l’Unione Europea per promuovere l’incremento del commercio nella regione, partendo dalle relazioni commerciali già esistenti per favorire l’integrazione con i mercati americani ed europei, e aprendo le porte a quelle nazioni che adotteranno uno standard alto di riforme e di liberalizzazione del commercio, per incrementare con esse gli scambi commerciali. Proprio come la creazione dell’Unione Europea è servita come incentivo per riforme in Europa, la prospettiva per una economia moderna e prosperosa nella regione potrà creare l’impulso necessario per riforme nel Medio Oriente e nel Nord Africa.

Per raggiungere la prosperità sarà anche necessario abbattere quei muri che costituiscono un ostacolo al progresso – la corruzione della classe dirigente che ruba al popolo; le pratiche viziose che impediscono ad un’idea di tradursi in attività lavorativa; il meccanismo corrotto che distribuisce le ricchezze sulla base di fattori tribali o settari. Aiuteremo i governi a soddisfare gli obblighi internazionali e a investire in sforzi per combattere la corruzione; collaborando con parlamentari impegnati in programmi di riforme, e con attivisti che fanno uso delle tecnologie per spingere il governo ad agire con responsabilità.

E vorrei concludere parlando di un altro aspetto fondamentale del nostro impegno nella regione, che riguarda l’obiettivo della pace.

Per decenni il conflitto tra israeliani e Arabi ha gettato un’ombra sulla regione. Per gli israeliani ciò ha significato vivere nel terrore di vedere i figli morire in attentati agli autobus o a causa di razzi lanciati sulle loro case, oltre al dolore di sapere che ad altri bambini nella regione si insegna ad odiarli. Per i Palestinesi ha significato subire l’umiliazione dell’occupazione, e non potere mai vivere in una Nazione che sia la loro. Inoltre, questo conflitto ha rappresentato un costo alto per il Medio Oriente, dato che ostacola la formazione di partnership che potrebbero generare maggiore sicurezza, prosperità, e potere decisionale per la gente comune.

Il mio governo ha lavorato con le due parti e con la comunità internazionale negli ultimi due anni per mettere fine al conflitto, ma le aspettative non sono state raggiunte. Le attività degli insediamenti israeliani continuano. I Palestinesi hanno abbandonato il tavolo delle trattative. Il mondo assiste ad un conflitto che si protrae da decenni ed è arrivato ad un punto morto. Alcuni sostengono che a causa dei cambiamenti e delle incertezze nella regione, semplicemente non è possibile fare passi avanti.

Personalmente, non sono d’accordo. In tempi in cui le genti della regione si stanno liberando dei pesi del passato, la necessità di spingere per una pace duratura che metta fine al conflitto e risolva le rivendicazioni è urgente più che mai. Per i Palestinesi, gli sforzi di delegittimare Israele finirà nel fallimento. Azioni simboliche per isolare Israele presso le Nazioni Unite a settembre non creeranno uno Stato Indipendente. I leader Palestinesi non otterranno pace e prosperità se Hamas prosegue sul cammino del terrore e del rifiuto. E i Palestinesi non raggiungeranno mai l’Indipendenza negando il diritto di Israele ad esistere.

Quanto ad Israele, la nostra amicizia è profondamente radicata in una storia condivisa e in valori condivisi. Il nostro impegno per la sicurezza di Israele è incrollabile. E ci opporremo a tentativi di prendere di mira Israele nelle sedi internazionali. Ma proprio in virtù della nostra amicizia, è importante che diciamo la verità: lo status quo è insostenibile, e anche Israele deve agire con coraggio per promuovere una pace duratura.

Il fatto è, che il numero di Palestinesi in Cisgiordania sta aumentando. La tecnologia renderà più difficile a Israele potersi difendere. I profondi cambiamenti che la regione sta attraversando condurranno al populismo, in cui milioni di persone – e non solo pochi leader – crederanno che la pace sia possibile. La comunità internazionale è stanca di un processo di pace che non produce risultati. Il sogno di uno stato ebraico e democratico non può avverarsi mediante occupazione permanente.

In ultima analisi, spetta agli israeliani e ai Palestinesi prendere iniziative. La pace non può essere imposta, né possono interminabili deroghe far sparire il problema. Ma quello che l’America e la comunità internazionale possono fare, è parlare francamente e dire quello che tutti sanno: una pace duratura richiede due stati per due popoli. Israele come stato ebraico e patria del popolo ebraico, e lo Stato della Palestina come patria per il Popolo Palestinese; con il diritto di ogni stato all’autodeterminazione, al riconoscimento e alla pace.

Mentre è vero che le questioni centrali del conflitto dovranno essere negoziate, le basi di tali negoziati sono chiare: una Palestina attuabile, e un Israele al sicuro. Gli Stati Uniti ritengono che i negoziati dovrebbero risultare in due stati, con confini permanenti tra Palestina e: Israele, Giordania, Egitto, e con confini permanenti tra Israele e Palestina. I confini tra Israele e Palestina dovrebbero basarsi sui confini del 1967, con scambi (territoriali) concordati, in modo da stabilire confini sicuri per entrambi e rispettati da entrambe le parti. Il popolo Palestinese deve avere il diritto di auto-governarsi e raggiungere il proprio potenziale in uno stato sovrano e contiguo.

E in quanto alla sicurezza, ogni stato ha il diritto a difendersi, e Israele deve essere in grado di difendersi – autonomamente – contro ogni minaccia. Bisogna predisporre il necessario per prevenire la recrudescenza del terrorismo; per mettere fine all’infiltrazione di armi (!); e per implementare una sicurezza efficace alle frontiere. Il pieno e graduale ritiro delle forze armate israeliane deve coincidere con il presupposto che i Palestinesi agiscano con responsabilità in merito alla sicurezza, in uno stato sovrano non militarizzato (!!! – un mini-stato sovrano senza esercito né armi, accanto ad una superpotenza militare ostile - fantastico). La durata di questo periodo di transizione deve essere concordata, e l’efficacia delle disposizioni di sicurezza deve essere dimostrata.

Sulla base di questi presupposti si possono avviare i negoziati. I Palestinesi dovranno sapere quali siano i contorni territoriali del loro Stato; gli israeliani dovranno essere rassicurati in merito alle loro necessità di sicurezza. So bene che queste misure da sole non saranno sufficienti a risolvere il conflitto. Rimangono da affrontare due questioni delicate: il futuro di Gerusalemme, e la sorte dei rifugiati Palestinesi. Ma nel procedere subito per stabilire i territori e la sicurezza, si forniscono le basi per risolvere questi due aspetti in un modo equo e giusto, che rispetti i diritti e le aspirazioni degli israeliani e dei Palestinesi.

Riconoscere che i negoziati devono iniziare con gli aspetti del territorio e della sicurezza non significa che poi sarà facile tornare al tavolo dei negoziati. In particolare, il recente annuncio di un accordo tra Fatah e Hamas, solleva interrogativi legittimi per Israele – come fare a entrare in trattative con chi non si mostra disponibile a riconoscere il tuo diritto ad esistere. Nei mesi a seguire, i leader Palestinesi dovranno fornire una risposta credibile a questo interrogativo. Nel frattempo, gli Stati Uniti, i nostri partner del Quartet, e gli stati Arabi dovranno perseguire ogni sforzo per superare l’attuale impasse.

Mi rendo conto di quanto sia difficile. Il sospetto e l’ostilità sono stati trasmessi di generazione in generazione, e a periodi si sono intensificati. Ma sono convinto che gli israeliani e i Palestinesi, in maggioranza, preferiscano guardare verso il futuro, piuttosto che rimanere intrappolati nel passato. Vediamo questo spirito nel padre Israeliano il cui figlio è stato ucciso da Hamas, che ha fondato un’organizzazione per fare incontrare Israeliani e Palestinesi che avevano subito la perdita dei loro cari. Aveva detto: “Alla fine mi sono reso conto che l’unico modo per fare progressi era riconoscere la natura del conflitto.” E lo vediamo nelle azioni di un Palestinese che ha perso tre figlie, uccise dall’artiglieria israeliana in Gaza. “Ho il diritto a essere arrabbiato,” diceva. “Tante persone si aspettavano di vedermi reagire con odio. Ma la mia risposta è: mi rifiuto di odiare … preferisco sperare nel domani.”

E’ questa la scelta giusta da fare – non solo in questo conflitto, ma nell’intera regione – una scelta tra l’odio e la speranza; tra le catene del passato e la promessa del futuro. E’ una scelta che devono fare sia i leader che i popoli, ed è una scelta che definirà il futuro di una regione che è stata la culla della civiltà ma anche teatro di infiniti conflitti.

Per tutte le sfide che ci attendono, vedo molte ragioni per essere fiducioso. In Egitto vedo gli sforzi dei giovani che hanno guidato le proteste. In Siria vedo il coraggio dei manifestanti che resistono nonostante le violenze che subiscono durante le proteste pacifiche. In Banghazi, una città minacciata di distruzione, vediamo la gente radunarsi nella piazza di fronte al tribunale per celebrare la libertà finora negata. In tutta la regione, quei diritti che per noi sono scontati, vengono ora accolti con gioia da coloro che vogliono liberarsi dalla morsa della tirannia.

Per i cittadini americani le scene di insurrezione nella regione possono sembrare sconvolgenti, ma le forze che la sospingono non sono a noi sconosciute. La nostra nazione è nata in seguito alla ribellione ad un impero. Il nostro popolo ha combattuto una guerra sofferta che ha esteso i diritti alla libertà e alla dignità a coloro che erano in stato di schiavitù. E non sarei qui, oggi, se le generazioni passate non avessero usato la forza morale non-violenta per migliorare il nostro paese – organizzandosi, marciando e protestando pacificamente, insieme, per tradurre in realtà quelle verità secondo cui “tutti gli uomini sono nati eguali”.

Quelle parole devono guidare la nostra risposta alla trasformazione che sta avvenendo nel Medio Oriente e in Nord Africa – parole che ci ricordano che la repressione fallirà, che i tiranni cadranno, e che ogni essere umano ha diritti inalienabili. Non sarà facile. La linea verso il progresso non è una linea retta, e le avversità si alterneranno a tempi di speranze. Ma gli Stati Uniti d’America sono stati fondati sulla convinzione che i popoli abbiano il diritto di auto-governarsi. E quindi non possiamo esimerci dal prendere la parte di coloro che lottano per i propri diritti, sapendo che la loro vittoria porterà a un mondo più pacifico, più stabile, più giusto.

venerdì 13 maggio 2011

Evento di Londra su Ebraicità e Sionismo – L’Inaudito è stato pronunciato, pubblicamente.

Homepage Egeria - N° 18
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Parla Egeria

Alcuni giorni fa Gianluca Freda scriveva un articolo straordinario dal titolo R. Goldstone: Sui Crimini di Israele Ha Ritrattato Sotto Minaccia?, offrendoci uno sguardo sconcertante nelle pratiche rituali dogmatiche e nelle pressioni sociali con cui la comunità ebraica sionista si assicura la fedeltà e coesione dei membri che la compongono. Nell’articolo che segue, Gilad Atzmon, ebreo britannico ex-israeliano, parla di fronte ad un pubblico londinese per mettere a nudo la ‘psiche tribale ebraica’, essenza dell’ebraicità, materializzata nel sionismo, e appunto esemplificata nell’articolo di Gianluca Freda.

Qui, di seguito, Lauren Booth (1) ci racconta come si è svolto l’evento di Londra del 3 Maggio 2011 dal titolo ‘Sionismo, Ebraicità e Israele, nella scia della ritrattazione di Goldstone’. L’evento era in origine programmato nell’Università di Westminster, ed è stato poi spostato in altra sede perché l’Università ha ceduto alle pressioni della comunità ebraica ‘anti-sionista’ di Londra. Sì avete capito bene: è la comunità degli ebrei che si definiscono ‘anti-sionisti’ che ha fatto di tutto per boicottare un evento in cui ‘Sionismo’ ed ‘Ebraicità’ vengono ‘pericolosamente’ associati e messi in relazione nello stesso discorso. Ma la cronistoria del tentativo di boicottaggio dell’evento è stata ampiamente illustrata nel post precedente di Egeria, dal titolo: ‘La Lobby minaccia – Gilad Atzmon e Alan Hart resistono. Come lascia intendere il titolo del post, Gilad Atzmon e Alan Hart non si sono fatti scoraggiare e hanno avviato un dibattito animato, in presenza di un pubblico eterogeneo, folto, interessato e partecipe.

Gilad Atzmon lo aveva detto chiaramente sul proprio sito: «Questo promette di essere l’evento dell’anno» - e così è stato. Dal resoconto che fornisce Lauren Booth si capisce che la serata ha avuto un successo enorme, e si può con tutta tranquillità affermare che questo evento segnerà una svolta nella discussione che indaga cause ed effetti del fenomeno razzista chiamato ‘sionismo’.

Con questo dibattito, infatti, la discussione sui crimini di Israele e dei sionisti cambia marcia e prende di mira l’elemento primario all’origine del sionismo, che i relatori – e Gilad Atzmon in particolare - individuano nella natura stessa dell’Identità Ebraica, dell’Ideologia Ebraica, dell’Essere Ebrei. Sul banco degli imputati, secondo la discussione, troviamo non tanto il regime sionista (scontato), quanto tutti quegli ebrei che pur definendosi liberali, di sinistra, anti-sionisti, sono in realtà strenui difensori di quell’ideologia che avrebbe permesso al sionismo di prendere vita come entità politica, in quanto il sionismo altro non sarebbe che l’incarnazione dell’ebraicità stessa. Basta leggere gli scritti di Gilad Atzmon per comprendere bene il concetto - che in estrema sintesi, si può riassumere così:


Sionismo = Ebraicità = Supremazia degli Eletti = Razzismo.

Tuttavia Gilad Atzmon ha sempre fatto una distinzione importante tra i diversi tipi di ‘identità ebraica’. Già nel 2005 scriveva questo in un articolo pubblicato su Redress-Information-Analysis:
«Coloro che si definiscono ebrei possono essere suddivisi in 3 categorie, in base alla rispettiva ‘percezione di sé’:
  1. Coloro che si definiscono seguaci del Giudaismo.
  2. Coloro che si considerano esseri umani e per caso anche ebrei di origine.
  3. Coloro che mettono la loro ‘ebraicità’ al di sopra di ogni altra loro caratteristica.»
Nell’articolo citato, Gilad Atzmon individua in questa 3° categoria ‘l’essenza del sionismo’, facendo notare che molti ebrei sono in effetti sionisti, pur negando di esserlo. Arriva poi alla conclusione che gli ebrei appartenenti alla ‘3° categoria’ tendono a considerarsi una comunità a sé, un ghetto di eletti che si proteggono tra loro e agiscono collettivamente come scudo dell’organismo sionista globale.

Ritroviamo il concetto della ‘3° categoria’ in molti scritti di Atzmon. Ed è proprio questa ‘categoria’ di ebrei che i relatori dell’evento di Londra, e in particolare Gilad Atzmon, prendono di mira nella discussione.

Nello scritto che segue, la famosa attivista londinese del ‘Free Gaza Movement’ Lauren Booth si assume il compito di fornire un resoconto dell’evento al posto di Gilad Atzmon, in quanto l’autore/musicista è dovuto partire per un tour negli Stati Uniti solo poche ore dopo la conclusione della serata – un tour fatto di eventi musicali e discussioni con il pubblico, unito ad una campagna di raccolta fondi destinati a diverse entità che operano in favore della Causa Palestinese.


Questo primo resoconto dell’evento è il risultato degli appunti scritti da Lauren durante la discussione. In seguito forniremo su questo blog anche la trascrizione – tradotta – del dibattito per come si è svolto, magari nelle parti di maggiore rilievo. Infatti solo ieri ho ricevuto da uno dei relatori il video che sintetizza i punti salienti del dibattito di Londra, oltre al video integrale, ora anche pubblicati sul sito di Gilad Atzmon.


Dopo averlo guardato ho anche aggiunto nella traduzione del testo di Lauren alcuni passaggi della discussione che ritenevo importanti. Il video è incredibilmente divertente nonostante la serietà e gravità dell’argomento: Alan Hart funge da moderatore e ‘provocatore’ per indurre Gilad Atzmon ‘ex-israeliano, ex ebreo’, a sviscerare fino in fondo quell’aspetto dell’essere ebrei, dell’ideologia ebraica, che è alla base del sionismo, in modo che il pubblico possa capire fino in fondo.

Personalmente posso affermare di non avere mai assistito a niente di paragonabile finora – né per profondità di analisi, né per la modalità con cui le verità sono state rivelate e sviscerate. E mi spiego.
Alan Hart, noto per essere l’autore dell’epopea sul sionismo, è coinvolto nella questione Palestinese da oltre 40 anni ed è stato lui stesso protagonista della storia in veste diplomatica fungendo da mediatore per i negoziati di pace.

Gilad Atzmon, famoso musicista, filosofo e autore, è anche l’unico autore ebreo ex-israeliano che ha il coraggio di affrontare l’aspetto dell’identità ebraica in relazione al sionismo. Alan Hart conosce ogni aspetto più recondito del sionismo e di Israele, e conosce tutte le risposte a tutte le domande. Ma lui non è un ebreo. E quindi, come l’autore stesso spiegava nel suo discorso introduttivo, ha deciso di offrire al pubblico la possibilità di ascoltare la verità sulla stretta connessione tra ebraicità e sionismo raccontata da Gilad Atzmon, di origine ebraica, uomo di grande cultura, in dissenso con Israele e in polemica con l’ideologia ebraica.

E Gilad Atzmon che da decenni si dedica proprio a sviscerare questi aspetti in dialoghi con sé stesso, riflessi nei suoi scritti profondamente onesti, è stato fenomenale. Incalzato da Alan Hart si è immerso nei gironi della psiche politica ebraica, a tratti perfino impersonando, da istrione quale è, l’ebreo vittimista che tenta di persuaderci delle ragioni degli ebrei – ma lo faceva per illustrarci l’inganno. Un’analisi concreta, la sua - profonda, arguta, senza spazi per giustificazioni pietiste, che toccava ogni punto controverso della storia in discussione, ogni interrogativo che da anni ci poniamo – incluso quello che proprio non riusciamo a spiegarci, e che neanche gli ebrei ci hanno mai spiegato:
- il perché delle ‘persecuzioni storiche’ del popolo ebraico, a cui Gilad risponde:

«Intanto gli ebrei non sono un popolo. E vi siete mai chiesti questo: è proprio verosimile che nel corso della storia il resto del mondo fosse sempre un po’ matto, tanto da perseguitare cronicamente gli ebrei ovunque fossero? Tutti i popoli prima o poi sembra siano stati colti da questa strana e inspiegabile follia. Non vi sembra un po’ strano?»
Aggiungo solo una mia considerazione personale. Mentre da una parte è forse vero che nessuno, più di un ebreo, sia adatto ad esplorare questioni legate all’ideologia ebraica – dall’altra esiste un aspetto che trovo oltraggioso. Nessun esperto sul sionismo e su Israele, neanche il più qualificato, si azzarderebbe ad affrontare l’oggetto in discussione qualora non fosse ebreo: sarebbe tacciato di razzismo e quindi ignorato, o comunque non preso sul serio. Pensiamo alle implicazioni di questa realtà e ai condizionamenti che rivela: solo gli ebrei possono discutere 'degli ebrei in quanto ebrei.' E’ un pregiudizio universalmente accettato. Già, mentre invece a tutti – cristiani, ebrei e altri - è concesso discutere dell’Islam e dei musulmani, e perfino coprirli di ingiurie, pubblicamente e impunemente.

E’ questo il virus che si è insinuato nelle nostre menti, nelle nostre culture e società occidentali ‘cristiane’: l’intoccabilità della questione ebraica e il pregiudizio nei confronti dei musulmani. Ma esiste un tabù ancora più inviolabile: un musulmano che discuta sugli ebrei e su Israele. Un esempio ci viene fornito in basso, proprio all’interno dell’articolo che illustra l’evento di Londra su ‘Sionismo ed Ebraicità’.


Egeria


Ebraicità, tattiche del terrore…
e un senso dell’umorismo


di
Lauren Booth, 5 maggio 2011


Un alone di ‘intrigo e spionaggio’ ha caratterizzato la cronaca degli eventi culminati nella serata che si è svolta vicino ad un campus nel centro di Londra. Sì, non all’interno del campus come previsto in origine, perché l’Università di Westminster si è arresa quando la Lobby Sionista britannica, e in particolare la comunità ebraica anti-sionista, ha minacciato di interrompere la discussione con azioni di disturbo violente. Perché? Perché Gilad Atzmon, sassofonista di fama mondiale, ha organizzato un panel di esperti per dibattere sul tema ‘Ebraicità e i Crimini di Israele’.

Ma la discussione ha avuto luogo, e la partecipazione è stata massiccia. La serata è iniziata con dichiarazioni introduttive mozzafiato - e considerate che fino all’ultimo i relatori avevano subìto pressioni enormi per non partecipare all’evento. E se doveste trovare nei media i soliti resoconti ‘rivisitati’ del dibattito, tornate a leggere questa pagina per avere un’idea sulla vera natura della discussione.

Insieme a Gilad Atzmon, i relatori erano: Alan Hart, autore, ex-inviato speciale della BBC nel Medio Oriente, esperto in questioni su Palestina/Israele; e Karl Sabbagh, autore, editore, produttore televisivo.

Gilad Atzmon ha iniziato il suo discorso ricordando al pubblico che “avere causato l’indignazione dei sionisti mi mette di buon umore”, e facendo notare che dopo tutti quegli anni passati a combattere con la sua identità (di ebreo) non intendeva accettare passivamente l’appellativo di ‘ebreo che odia sé stesso’ senza opporsi pubblicamente fornendo la propria versione dei fatti.

Senza altro indugio si è poi lanciato nell’interrogativo, conciso e spinoso: «Cos’è il Giudaismo?», che, alla lettera, - diceva Gilad - è la religione degli ebrei, e questo termine da solo non è adatto per caratterizzare il gran numero di ebrei laici.

«Cos’è allora il Sionismo?» Il sionismo, sostiene Gilad Atzmon, NON è un’impresa coloniale di per sé. Piuttosto, è un aspetto ideologico di stampo tribale. Non ha niente a che vedere con il Giudaismo o con le tradizioni ebraiche. E’ una causa politica che usa cinicamente la fede religiosa per raggiungere i suoi secondi fini. Il sionismo, quindi, inganna i seguaci del Giudaismo e gli ebrei laici con un raggiro, inducendoli ad investire emotivamente in un progetto espansionista violento, che altrimenti troverebbero ripugnante.

E qui Gilad Atzmon si è tuffato a testa bassa nella domanda tabù che chiunque altro avrebbe considerato un suicidio professionale:
«Forse il sionismo è ciò che è, perché gli ebrei sono ciò che sono?»
Gilad Atzmon proviene da una famiglia ebrea laica. E’ nato e cresciuto in Israele. Fino agli anni della prima gioventù coltivava un grande sogno: una carriera brillante nelle Forze Armate israeliane. Ma ciò che vide nel periodo della leva mentre era di stanza in Libano si rivelò sufficiente, così dice Gilad, per «schierarmi completamente dall’altra parte».

Gilad Atzmon si trova in una posizione unica, quindi, per porre pubblicamente la “domanda improponibile”, per “pronunciare l’inaudito”.
«Il Giudaismo? Non ne affronto l’aspetto religioso. Non è la religione che uccide. Sono le persone che uccidono in nome della religione.»

«E l’Ebraicità? Cos’è l‘Essere Ebrei? E’ Supremazia. E’ Sentirsi Eletti.»
Solo una decina di anni fa Gilad era nelle grazie del movimento anti-sionista britannico. Ma si rifiutò di fare la parte del ‘bravo ebreo’ – e cioè di diventare un ‘anti-sionistiano’, per così dire - : un ebreo disposto a condannare certi aspetti, certe azioni di Israele, pur difendendo, nonostante tutto, e in contraddizione con quanto contestato, il diritto degli ebrei ad uno stato ebraico. Su terra Palestinese. Questo tipo di attivista spesso evita dichiarazioni davvero importanti – oppure le ritratta – per via delle pressioni sociali esercitate sulla famiglia da parte della comunità ebraica. E con questo fa il gioco di Israele ai danni del movimento anti-sionista in genere. Basta pensare a Goldstone.

Per tornare al racconto sulla persona di Gilad Atzmon. Nel giro di poco tempo la comunità ebrea anti-sionista iniziò a demonizzarlo perché Gilad insisteva a difendere il suo diritto, come ex-israeliano, come accademico e cittadino di una democrazia (quella britannica), a indagare nei recessi più oscuri della mente ebraica e israeliana. Ormai sono dieci anni che Gilad è preso di mira dagli ebrei ‘anti-sionisti’ e dalle loro feroci campagne di boicottaggio dei dibattiti pubblici a cui partecipa. E Atzmon stasera mette le carte in tavola. Le smaschera davanti al pubblico, queste manovre, con atteggiamento di divertita polemica, per dimostrare che l’Ebraicità stessa significa presunzione di superiorità, e che non può avere altro risultato che ‘espansionismo tribale violento’, apartheid, segregazione.

Tra il pubblico interviene l’esponente di un gruppo di solidarietà pro-palestinese, che fa un’osservazione interessante. Racconta che gli ebrei del movimento chiamato ‘Ebrei per la Giustizia per i Palestinesi’ avevano preso in considerazione di cambiare il nome in ‘Ebrei per la Giustizia per la Palestina’ – ma avevano poi cestinato l’idea, in quanto i membri del movimento ritenevano la parola ‘Palestina’ troppo difficile da digerire (2).

Atzmon rigetta l’accusa di anti-semitismo – e con assoluto vigore, perché nega l’esistenza stessa dell’anti-semitismo. Nel 2003 scriveva:
«Non esiste più l’anti-semitismo. Nella devastante realtà creata dallo stato ‘ebraico’ l’anti-semitismo è stato sostituito dalla reazione alle politiche di Israele.»
Anche stasera Gilad torna su questo argomento:
«Come si diventa un cosiddetto anti-semita? Facile: si fa arrabbiare un ebreo. E quello poi neanche ti dà una spiegazione logica su cosa lo abbia fatto arrabbiare.

Basta dire: è oltraggioso quello che fa Israele, e diventi un ‘anti-semita’.
Basta dire: voglio vederci chiaro sull’Olocausto, e diventi un ‘negazionista’.

E che significa ‘anti-semitismo’? Il dizionario ci dice che sarebbe il disprezzo degli ebrei solo per essere ebrei. Ma in tanti anni di dibattito sulla ebraicità, sui crimini di Israele, sul sionismo – dice Gilad Atzmon – non ho mai conosciuto un anti-semita.»
E come è possibile, viene da chiedere? Atzmon fa notare che c’è una differenza tra l’odio razziale – e gli ebrei non sono una ‘razza’, o etnia, - e l’opposizione alle politiche di ‘apartheid’ (razziste) di Israele, che può generare azioni dettate dalla frustrazione.

Continua Atzmon:
«Certo che ho conosciuto persone che si oppongono alle politiche di Israele, o al fatto che certi ebrei al potere nelle nostre società occidentali agiscano nell’interesse di Israele. Ma questo non è anti-semitismo.»
. E allora come definire questo tipo di opposizione? Spiega Gilad Atzmon:
«E’ l’opposizione al ‘lobbying politico’.»
– e cioè al fatto che il potere politico si regoli secondo le disposizioni dettate dalla Israel Lobby.

E’ chiaro che gli attacchi alle proprietà di ebrei – o alle persone – non si spiegano principalmente come ostilità verso i seguaci di una fede abramica, ma piuttosto come risposta alle violenze del sionismo e di Israele: una reazione di frustrazione contro un movimento politico criminale. E c’è da osservare quanto segue. I ricercatori dell’Università di Tel Aviv ci forniscono alcuni dati interessanti da analizzare. Rispetto all’anno 2009, i casi di atti violenti contro gli ebrei nell’anno 2010 sono dimezzati (ricordiamo che il 2009 è l’anno del bombardamento di Gaza). E questo trend verso il basso, invece di rappresentare un fattore di rassicurazione, in realtà preoccupa non poco la Israel Lobby. Già, perché in assenza di atti che vittimizzano gli ebrei, come riuscirebbe Israele a giustificare le violazioni dei diritti umani perpetrate dallo ‘stato ebraico’?

Sulla questione dell’identità degli ebrei laici, Atzmon commenta così:
«Chiedi a un ebreo laico cosa significhi essere ebrei, e ti farà una lista di quello che lui non è. Ne vengono fuori discorsi alquanto caustici.»
Gilad fa lo sketch dell’ipotetico discorso, e il pubblico ride. A volte gli accademici si sentono disturbati dall’umorismo di Gilad – ma non un pubblico come quello di stasera: loro sì, che apprezzano un modo di scherzare cervellotico su questioni serie con aspetti da smitizzare.

Continua Gilad Atzmon:
«Gli ebrei laici non sono capaci di spiegare cosa significhi essere ebrei. Ti fanno un elenco di tanti NON, e questo riflette la loro sindrome della ‘negazione’, dell’impossibilità di conciliare l’ebraicità con qualsiasi altra cosa. Ecco perché gli israeliani non sono adatti come interlocutori di un ‘processo di pace’. Sono in conflitto con il resto del mondo. la soluzione dello ‘Stato unico’ in cui arabi ed ebrei possano convivere in pace è un’idea molto bella, ma all’interno della cultura israeliana, ed ebraica in genere, non esiste la nozione di ‘pace’. Come i musulmani – che hanno il saluto ‘Salam’ – gli ebrei si salutano con ‘Shalom’. Ma Shalom non significa ‘Pace’. Non significa ‘Riconciliazione’. Significa ‘Sicurezza’. Sicurezza per gli ebrei. ‘Pace e sicurezza’ per gli ebrei, e per gli ebrei soltanto.»
«Per capire, bisogna capire fino in fondo cos’è l’ebraicità. L’ebraicità tende alla segregazione. Significa, vivere in un ghetto. L’avete visto il Muro di Apartheid di Israele? Davvero pensate che serva per la ‘sicurezza’? Niente affatto: serve per separare gli ebrei dai non-ebrei. Se non sei ebreo, non hai diritto allo stesso trattamento. Sei inferiore. E’ questa l’ideologia ebraica: operare nell’interesse di questo ‘club’ esclusivo per soli ebrei, che ha fondato uno stato su territorio Palestinese. L’ironia è questa: se un Palestinese volesse protestare contro le politiche israeliane nella sua terra, verrebbe escluso dai gruppi come ‘Ebrei per la Pace’ o ‘Ebrei per la Giustizia’ per ragioni razziste, perché anche quelli sono ‘club’ esclusivi per soli ebrei.»
Alan Hart aveva iniziato la serata asserendo che Israele era uno stato NON fondato sui principi della religione ebraica, ma sulle mire espansioniste di un movimento di ebrei laici dell’Europa centro-orientale che hanno fondato il sionismo. Ora Gilad Atzmon ritorna sulla questione del nesso tra sionismo ed ebraicità in relazione con quanto succede in Gaza. Perché?
«Perché, spiega Gilad, le bombe, i missili, lanciati su Gaza, giorno dopo giorno, notte dopo notte, sono decorate con i simboli ebraici.»
E’ proprio su questo concetto dell’etichetta ebraica, del marchio ebraico, che Gilad vuole vederci chiaro. Perché, si chiede, e chiede al pubblico, devono esserci gruppi pro-Palestinesi con l’appellativo di ‘ebrei pro-Palestinesi’? Perché questa necessità di essere ‘speciali’ o ‘separati’ da altri gruppi di solidarietà. L’idea sarebbe, commenta Gilad, che le parole di condanna contro Israele sarebbero più ‘forti’ se provengono da un ebreo; che l’indignazione di un ebreo ha più peso di quella degli altri. Non è forse questo, di per sé, un concetto di supremazia? Un concetto che eleverebbe la sofferenza degli ebrei e la capacità degli ebrei di comprendere la sofferenza, al di sopra di quelle degli altri? Le voci degli ebrei dissidenti potevano avere un peso particolare un tempo, all’inizio della lotta per aprire gli occhi su Israele e su cosa succede in Palestina. Ma oggi la lotta e il dissenso contro Israele ha assunto proporzioni di indignazione mondiale. Che necessità rimane ancora per gli ‘ebrei pro-Palestinesi’ di distinguersi dagli altri gruppi di attivismo pro-Palestina?

Poi Alan Hart rivolge a Gilad Atzmon quella domanda cruciale, a cui tutti, da anni, vorremmo una risposta: Perché gli ebrei si rifiutano di riconoscere che lo stato di Israele è costruito sulla sofferenza dei Palestinesi, sulla cacciata del popolo Palestinese dalla propria terra, sulla pulizia etnica violenta, sull’espropriazione delle terre, sull’abolizione dei diritti civili e umani? Perché gli ebrei si rifiutano di affrontare e discutere questa realtà, arrivando al punto di negarla – e di negare la Nakba (Olocausto Palestinese perpetrato dagli ebrei). Risponde Gilad Atzmon:
«La risposta è: per via della ‘cecità culturale’ degli ebrei. Quella ebraica è una cultura patologicamente morbosa. E’ una cultura impermeabile al pensiero razionale e logico. Shlomo Sand nel suo straordinario libro ‘L’invenzione del popolo ebraico’ fa un’osservazione brillante: che dal 70 D.C. fino alla fine dell’800 non esiste alcun testo di storia o resoconto storico sulla storia ebraica. Perché? Perché gli ebrei si sono sempre basati solo sulla Bibbia. La loro visione della storia è totalmente diversa dalla nostra in occidente. La loro versione della storia contemporanea somiglia incredibilmente alla storia secondo la Bibbia. E sono molto dogmatici in merito. Impongono questa visione, nella quale la Nakba palestinese non può trovare e non trova posto e quindi la negano. Per contro, chi voglia indagare sull’Olocausto ebraico, diventa un ‘Anticristo’.»
E alla domanda: ‘Pensi che questa ‘cecità’ nasconda anche un ‘senso di colpa’ che non vogliono ammettere? – Gilad risponde:
«La ‘colpa’ è un aspetto complicato. Bisogna prima chiedersi: sono consapevoli delle colpe che hanno? Sentono di essere in colpa? Per essere capaci di sentirsi in colpa, bisogna prima avere la ‘percezione dell’altro’ – e se sei un ‘Eletto’ non hai alcuna percezione dell’altro. Non hai empatia. Le persone che nei giorni precedenti a questa discussione hanno perseguitato te (Alan), Ghada Karmi e John Rose, (scoraggiandoli con minacce a partecipare all’evento) certo non hanno alcuna familiarità con il concetto di empatia e compassione – e perché dovrebbero, visto che loro sono gli ‘Eletti’?»
Continua Gilad:

«Ecco perché ciò che facciamo qui, oggi, è così rivoluzionario. Perché queste domande non sono più state discusse dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Siamo ossessionati dal ‘politicamente corretto’, e quindi ci auto-censuriamo. Non sono tanto gli ebrei a dirci di tacere: lo facciamo noi stessi, volontariamente. E quindi, se noi stessi non siamo disposti a criticare gli ebrei per il loro modo di vedere le cose, non possiamo poi prendercela con loro per essere nel torto.

«Per questo avrei tanto voluto che i miei detrattori fossero qui, stasera, per sentire le mie critiche e capire cosa intendo dire. Se loro non ascoltano per capire le mie critiche, non possono entrare in merito alla cosa e rispondere. E questo è un bel problema, è un circolo vizioso. E questo circolo vizioso è proprio inerente alla cultura ebraica. Ecco perché questa discussione è tanto importante. Lo dice proprio il titolo del tuo libro (3), Alan. Questa discussione è cruciale soprattutto per loro. Infatti il titolo che darei io sarebbe ‘Ebraicità, il vero nemico degli ebrei’. Così come trovo sbagliato dire ‘Lobby sionista’ – in realtà si tratta della ‘Lobby ebraica’. Il problema con il cosiddetto ‘sionismo’, è che la maggioranza degli ebrei non sa e non capisce cosa sia il sionismo. Perfino la cosiddetta ‘Diaspora ebraica’ è un concetto sionista. Concordo con Ilàn Pappe che afferma: non esiste quella che viene chiamata ‘Diaspora ebraica’ - perché è appunto una percezione sionista.»

Karl Sabbagh, autore britannico di origine palestinese, seduto al tavolo dei relatori, ha esplorato a fondo la storia Palestinese fino alla Nakba del 1948. E’ venuto per dibattere questioni controverse come “chi sarebbero i legittimi proprietari della Palestina storica”. Anche lui esterna la propria frustrazione, come storico, nata dai tentativi di parlare di ‘fatti’ con i colleghi ebrei. «Non si riesce a discutere da una posizione di logica con persone che provengono da una posizione di non-logica». Ad esempio illustra la menzogna propagandata dal mito sionista, secondo cui dopo la Seconda Guerra Mondiale un piccolo gruppo di coraggiosi sopravvissuti all’Olocausto ebraico avrebbe combattuto contro il potere, la crudeltà e la brutalità di Arabi locali per fondare lo stato di Israele. Ma Sabbagh, storico specializzato proprio in quell’epoca – e cioè il periodo in cui il mandato britannico in Palestina finiva nell’ignominia e Israele si auto-proclamava stato sovrano - parla al pubblico spiegando come andarono veramente le cose nel 1948. E Alan Hart che ha raccontato questa storia nel primo dei suoi tre volumi sul sionismo, specifica: «Novantamila ebrei, bene addestrati, bene equipaggiati, e armati fino ai denti, si sono scagliati su ventimila Arabi, male addestrati e male equipaggiati! Ma tu racconti questo ai colleghi britannici ebrei che supportano Israele, e ti rispondono che questo non è successo.»

Poi Gilad Atzmon si avventura nella controversa questione della cosiddetta ‘congiura ebraica mondiale’.
«Allora, che dite, esiste?»
- chiede Gilad con tono da cospiratore divertito. Poi la risposta pesante come un sasso.
«No, gli ebrei non gestiscono il mondo: lo fanno gestire da altri per loro conto e in loro favore.»
(Risate in sala).

(Ed è proprio questo uno dei punti centrali di ogni discorso pubblico dell’autore Alan Hart. Alan lo dice sempre: “attenti, non fatevi ingannare - i nostri politici e i nostri media fanno gli interessi di Israele non perché costretti e neanche per convinzione ragionata. Come tutti noi, anche le persone che gestiscono i media hanno subìto da sempre il condizionamento pro-ebrei, pro-Israele. E’ una questione automatica. Leggono dal copione sionista e agiscono nell’interesse di Israele come se fosse nell’ordine naturale delle cose. Come tutti noi, sono stati educati con la versione sionista della storia. Ma la verità storica è tutt’altra cosa. I giornalisti si autocensurano automaticamente, senza neanche rendersi conto di abdicare alla loro autonomia mentale, alla capacità critica. Si opera nell’interesse di Israele perché è ‘la cosa giusta’ da fare. E’ questo che il sionismo è riuscito ad ottenere agendo nell’ombra, di nascosto, dietro le quinte, con l’inganno, sistematicamente, per decenni, facendo leva sul senso di colpa dell’occidente nei confronti degli ebrei." Un ricatto morale dal quale dobbiamo de-condizionarci per cessare di essere complici più o meno volontari di Israele. Altrimenti – come dice Gilad Atzmon – il mondo continuerà ad essere gestito da ‘altri’ per conto e in favore di Israele. Sono perfetti ‘compagni’ di discussioni pubbliche, Alan Hart e Gilad Atzmon, perché in completa sintonia, anche se ognuno porta il proprio stile e le proprie esperienze personali e professionali al tavolo del dibattito, distinte e diversificate. Egeria)

Continua Gilad Atzmon nel suo discorso al pubblico. Solleva l’interrogativo: chi e cosa frena i media dall’esplorare a fondo cosa succede davvero in Palestina e ai Palestinesi? Cosa impedisce ai media di rivelare i crimini contro l’umanità come il massacro di Deir Yassin? Gilad rigetta l’idea che i dirigenti dei media rifiutino consapevolmente di relazionare sul Medio Oriente.
«Il mondo, dice Gilad, si auto-censura. Non sono tanto gli ebrei a soffocare il dibattito pubblico. Lo facciamo noi stessi – e per noi stessi intendo: il resto del mondo. Ma in realtà loro ci disprezzano, vedono la tolleranza di noi non-ebrei come debolezza – sì, come stupidità! E in un certo senso hanno ragione, perché noi non ci opponiamo!»
Poi la sala ha ascoltato il discorso di Sameh Habeeb, un giovane originario di Gaza ma ora residente a Londra, fondatore e editore del giornale online Palestine Telegraph, e noto al pubblico internazionale per i suoi interventi su PressTV. Il giovane Sameh spiega le difficoltà nel cercare di fornire resoconti di prima mano della vita sotto l’occupazione israeliana, e i tentativi di terrorizzarlo e scoraggiarlo dal diffondere la verità.
«Provengo dal Medio Oriente, racconta Sameh Habeeb, una regione in cui vige l’autoritarismo. E quindi la prospettiva di vivere qui, in un paese democratico mi riempiva di gioia. Ma poi ho visto che se provavo a discutere su Israele venivo accusato di essere una anti-semita, e improvvisamente scompariva ogni traccia di democrazia e libertà di espressione.»
Il Palestine Telegraph pubblica articoli in cui si affronta la questione (spesso denunciata da altri giornali occidentali) dell’espianto illegale di organi connessa a gruppi israeliani. Molto del materiale proviene proprio dal giornale israeliano Haaretz, ma nonostante ciò, Sameh Habeeb è stato preso di mira da gruppi sionisti britannici, che hanno minacciato di usare violenza contro lui e la sua famiglia, e di denunciarlo alle autorità.
«Appena iniziata la mia attività online sono stato accusato di essere un anti-semita. E pensare che io sono un ‘vero’ semita, date la mie radici palestinesi, appunto semite.»
La serata continua con le domande dal pubblico e qui si può assistere ad alcuni momenti di tipico sarcasmo tutto ‘atzmoniano’.
«La vera ‘genialità’ degli ebrei, dice Gilad, consiste nel fatto che hanno trasformato Dio in un agente immobiliare e la Bibbia in un registro del catasto.»
Affronta anche la questione del cosiddetto ‘Eccezionalismo’ tipico dell’ideologia ebraica. Dice Gilad:
«Abbiamo osservato questa arroganza di eccezionalismo in altre culture, attualmente in quella americana e in tempi recenti in Germania. Ma i tedeschi si sono dati da fare per smantellare questa ideologia contorta. Ma quando parliamo di ebraicità, parliamo di una forma sinistra di eccezionalismo che dura da 4 millenni, caratterizzata da una identità politica tribale di cui non solo i Palestinesi, ma tutti noi siamo vittime. Perché la crisi finanziaria mondiale è il prodotto di questa identità politica tribale, come lo sono le guerre contro l’Iraq e altri popoli nella regione. Gli ebrei seguono lo schema che trovano nei loro testi biblici, secondo cui avrebbero il compito di infiltrarsi a tutti i livelli del potere e controllare il mondo.»
Alan Hart a questo punto fornisce una breve spiegazione su come opera la Lobby ebraica negli Stati Uniti per fare in modo che i parlamentari difendano gli interessi di Israele. In breve: ogni candidato alla Camera, al Senato, sia nel parlamento centrale, che nei parlamenti di ognuno dei 50 Stati dell’Unione, viene contattato dalla Lobby e il discorso è questo: "Ecco il programma che a noi interessa. Se prometti di difendere questi interessi, e di schierarti pubblicamente in favore di Israele, ti finanziamo la campagna elettorale. Avrai tutto l’accesso ai talk show politici, tutta la pubblicità mediatica che ti assicurerà i voti degli elettori. Se non acconsenti alla nostra proposta, finanzieremo il candidato tuo avversario e faremo in modo che sia lui ad essere eletto."

Aggiunge Alan Hart: «Il sionismo si è sempre offerto ad essere ‘usato’ in cambio di un prezzo alto da pagare. In America il risultato è quella oscena relazione che esiste tra la Lobby – sionista o ebraica, come vogliate chiamarla – e quegli 80 milioni di americani cristiani fondamentalisti evangelici sionisti, totalmente fanatici, che si sono fatti incantare e influenzare per mezzo dei ricchi neo-conservatori repubblicani ad appoggiare la ‘causa israeliana’. In Inghilterra, la dinastia ebraica dei Rothschid finanzia da sempre ogni guerra – e da ambo le parti del conflitto.»

La discussione con il pubblico tocca alcuni punti storici e in particolare l’epoca della Dichiarazione di Balfour, le ragioni politiche che l’hanno determinata e le conseguenze che ha generato. Dice Gilad Atzmon:
«Dobbiamo riappropriarci della verità storica del passato recente. L’abbiamo persa, ci è stata sottratta. La storia è stata distorta perché siamo soggetti alla tirannia del ‘politicamente corretto’. Voglio poter discutere apertamente sull’Olocausto. Voglio affrontare la storia ebraica. Voglio parlare apertamente di 4 mila anni di eccezionalismo ebraico. Voglio che questa diventi una discussione permanente. E penso che siano gli ebrei i primi su questo pianeta a dovere affrontare questi aspetti.»
Aggiunge Alan Hart:
«E’ la verità storica l’unica arma che potrà sconfiggere il sionismo. L’occidente è stato condizionato a credere in una versione falsa della storia: la versione imposta dal sionismo, che consiste in è un mucchio di menzogne e inganni propagandistici, una versione che è entrata a far parte del nostro DNA mentale.»
La domanda sollevata e rimasta in sospeso, in questa serata, rivolta alla comunità degli ebrei inglesi, è questa:
“Ma sapete cosa sta commettendo lo ‘stato ebraico’ in nome del ‘popolo ebraico’? E: Ve ne importa qualcosa?»

NOTE

(1) A proposito di Lauren Booth, autrice di questo articolo. Lauren è una vera combattente. E’ nota al grande pubblico inglese per essere la cognata di Tony Blair con cui è da sempre in polemica e che definisce ‘un criminale di guerra’. Ma è nota soprattutto negli ambienti dell’attivismo internazionale a favore della Palestina. E’ co-fondatrice del ‘Free Gaza Movement’ e insieme a Vittorio Arrigoni e tanti altri personaggi a noi noti, è partita per Gaza con la prima nave ad osare un viaggio per Gaza dopo oltre 40 anni di divieto di approdo, nell’agosto del 2008. E’ rimasta in Gaza a lungo insieme a Vittorio Arrigoni e tanti altri volontari che conosciamo. Conduce una rubrica settimanale su PressTV dal titolo Remember Palestine e dopo la morte di Vittorio ha dedicato proprio a lui una delle puntate recenti. Al ritorno dal suo viaggio sulla ‘Mavi Marmara’ nel maggio del 2010 l’abbiamo vista a Londra nella manifestazione di protesta di fronte all’ambasciata israeliana e tutti ricordano la sua famosa frase quando ha preso il microfono sul palco esclamando con rabbia: “I commandos israeliani hanno attaccato noi attivisti per Gaza in mare aperto e hanno massacrato tanti dei nostri compagni di viaggio. Israele dice che lo ha fatto per la questione della ‘sicurezza di Israele’. Sapete cosa vi dico? Non me ne importa più niente della ‘sicurezza’ di Israele.” - Torna al testo.

(2) Pensate all’implicazione: questi ebrei ‘pro-palestinesi’ riconoscono il diritto all’esistenza dei palestinesi - delle persone, ma non della Palestina. E che ‘giustizia’ sarebbe questa? (n.d.t.) - Torna al testo.

(3) Il Libro di Alan Hart su cento anni di storia politica del sionismo fino all'epoca Obama: ‘Sionismo: Il Vero Nemico degli Ebrei. - Torna al testo.