La crisi francese, dopo l’approvazione della mozione di
censura da parte di una maggioranza non omogenea della rappresentanza
parlamentare (quindi non decisa a sostituire il governo con un altro
espressione di una diversa maggioranza) pone una serie di problemi tutti siti sulla linea di confine tra politica
e diritto pubblico.
Il tutto rifacendosi al giudizio espresso da Lincoln che il
governo democratico è quello dal popolo, per il popolo, del popolo. Se questo
non succede o lo è solo in parte, la democrazia è zoppa. Anche se l’ordinamento
è democraticamente ineccepibile,
occorre che i comportamenti dei governanti siano ligi allo “spirito” del regime
politico e alla funzione di organi ed istituzioni.
Le vicende del 2024 dimostrano come i comportamenti di
Macron non siano stati coerenti con lo spirito
democratico.
Vediamo come tutto è iniziato quando, come previsto, le
elezioni europee hanno assicurato un grande successo sia alla Le Pen che a
Mélenchon, che sommati insieme riportavano più del 40% dei voti espressi. Con i
“minori” (Zemmour soprattutto) sfioravano il 50%. A questo punto Macron
prendeva una decisione inaspettata, anche se democraticamente corretta: scioglieva l’assemblea
nazionale per l’evidente difformità della volontà popolare rispetto alla
“composizione” di tale organo. A tale proposito è bene ricordare che l’istituto
dello scioglimento parlamentare - da più di un secolo, dopo la diversa funzione
che aveva nelle monarchie costituzionali - è usato per risolvere le crisi politiche
(e costituzionali). In particolare quando l’orientamento politico dei massimi organi dello Stato (parlamento/governo) è
conflittuale o almeno grandemente divergente.
In questi casi, oltre che consentire di superare la crisi e
di riavviare il funzionamento del sistema, assume il significato di un appello al popolo, chiamato a decidere
tra i due orientamenti. Allorquando (è successo tre volte nella quinta
repubblica) l’elettorato (anche quando il Parlamento non era sciolto) sceglieva
una maggioranza contraria al Presidente, questo nominava un capo del governo
proveniente da quella, dando luogo così alla cohabitation. Ciò in ossequio al principio e alla legittimità
democratica. Nei tre periodi di cohabitation
non si verificarono così particolari turbative del funzionamento istituzionale:
la costituzione della V repubblica dà comunque al governo i poteri necessari a
governare. Ancor più con un parlamento a maggioranza omogenea allo stesso.
Nel corso del 2024 con lo scioglimento dell’Assemblea
nazionale – e i conseguenti accordi elettorali di desistenza tra sinistra e
centro – la funzione dello scioglimento è stata ribaltata (forse più nei fatti
che nelle intenzioni): la desistenza non ha assicurato una maggioranza, dato
che l’assemblea è ripartita in tre schieramenti di proporzioni non molto
diverse.
Dopo l’approvazione della mozione di censura al governo
senza maggioranza di Macron, questi ha avvertito qual era la logica conseguenza
dell’intera vicenda: le sue dimissioni. Anche perché se ad essere censurato era il governo, la
responsabilità politica di averlo nominato era tutta di Macron. E infatti
Macron ha subito detto nel messaggio di giovedì u.s. che sarebbe rimasto al suo
posto fino alla scadenza del mandato presidenziale.
Nel caso, come in altre vicende di altri paesi, si pone il
problema di come possa governarsi una democrazia (ancor più che altre forme
politiche) a dispetto della volontà popolare (ripetutamente) manifestata. Nel
caso che Macron sia un Presidente di minoranza – oltretutto che deperisce – risulta da tutte le elezioni
svoltesi in Francia quest’anno che hanno visto la coalizione macroniana sempre minoritaria e
lontanissima dai dati delle presidenziali del 2022 (circa il 58% di voti a
Macron). Scriveva Schmitt che (in generale) «la parola volontà indica – in contrapposizione ad ogni dipendenza ad una
giustezza normativa o astratta – l’esistenziale oggettivo di questo
fondamento di validità» (il corsivo è mio). Cosa che, almeno per il conflitto
tra organi rappresentativi, con la
prassi della cohabitation era stata
costituzionalizzata nel sistema francese.
E così, a quanto pare – Macron non ha intenzione, per la
verità pare neppure la possibilità – di adeguarvisi. Sembra, da alcune mosse,
che cerchi di allargare la maggioranza sul versante di sinistra. Se riesce, a
sinistra o a destra - si avrà così una demi-cohabitation
che ricorda un po’ le alchimie italiane dell’ultimo trentennio (ma non solo):
con governi né legittimi né stabili (ricordatevi dell’Ulivo), né coerenti
nell’indirizzo politico.
Sembra un po’ ingeneroso paragonare quanto fa Macron
all’esempio del fondatore della Quinta repubblica, De Gaulle. Il quale aveva,
dal 1958 in poi, riportato consensi plebiscitari nelle diverse votazioni. Da
ultimo, nelle elezioni parlamentari del
1968, la maggioranza gaullista conseguì circa ¾ dei seggi all’assemblea
nazionale. Ciò nonostante quando l’anno successivo perse per pochi voti il
referendum sui poteri del Senato, il generale si ritirò a vita privata. È
chiaro in quel gesto che a determinarlo (o co-determinarlo) fu la convinzione
che la sintonia tra paese legale e paese reale è fondamento della vitalità
istituzionale del regime politico, ancor più se democratico. Cosa che Macron
non ha appreso; e che nell’Europa (e nell’occidente) del XX secolo, il
Presidente è in una grande – anche se decrescente – compagnia.
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