La ventilata
riforma del catasto ha ridestato il dibattito sulle imposte patrimoniali, cioè
quelle le quali, secondo una definizione diffusa, prescindono dalla percezione
di un reddito (come, al contrario, l’IRPEF ed altre) e si applicano a chi è
proprietario (o possessore) di un bene. Onde se il bene non produce alcunché,
il possessore o proprietario è comunque obbligato a pagare l’imposta.
C’è chi esalta
la patrimoniale perché “giusta”, in quanto colpirebbe i proprietari e
lascerebbe indenni i non proprietari. Se il criterio della giustizia
corrispondesse all’appartenenza proprietaria (secondo un’ingenua opinione del socialismo ottocentesco) tale concezione
avrebbe un qualche fondamento. Ma dato che è evidente che non è così, essendoci
redditi (e ricchezze) enormi generate con nulla o modesta relazione con la
proprietà del bene (come i redditi dei manager,
i corrispettivi del commercio, le retribuzioni dei vertici burocratici, ecc. ecc.)
e, di converso, proprietà con redditi nulli o modestissimi); onde è la
sproporzione di ricchezza, non l’appartenenza a determinarne la “giustizia”. E
neppure notano che ad ottenere l’effetto redistributivo
non è la patrimonialità o meno dell’imposta, ma l’essere progressiva o no.
Gli è che a sostenere
tesi così inconsistenti è che se si esentano i patrimoni “piccoli”, si riduce
gran parte della base imponibile e così l’utilità della patrimoniale viene
ridotta: ciò quando, invece, il fine della stessa è “mettere le mani nelle
tasche” degli italiani come dice Salvini, o “spennare l’oca senza farla troppo
gridare” come scriveva Pareto, e cioè aumentare l’assetto predatorio,
compensandolo (a beneficio delle oche) con nobili e commoventi discorsi di
giustizia, eguaglianza ecc. ecc. che con l’imposta patrimoniale (secondo i di
essa sponsor) avrebbero a che vedere
più che con altri tipi di prelievo pubblico.
Si potrebbe
rispondere a ciò con altri argomenti di natura economica: che la patrimoniale
stimola a produrre reddito. Vero, ma del tutto marginale, perché ricavare reddito da un bene, direbbe la Palice è,
comunque meglio che non percepirlo affatto e così via.
È interessante,
invece, rilevare che la preferenza per la patrimoniale risponde non tanto a
criteri economici, quanto a evidenze e regolarità
politiche e politologiche.
La prima –
tipica dell’Italia repubblicana – perché è la più gestibile da un’amministrazione
sgangherata come quella nazionale.
Assai più se l’oggetto
del prelievo sono immobili censiti e soggetti a pubblicità. Per cui l’affetto
verso tale forma d’imposizione occulta la realtà di non volere e non credere
che sia possibile recuperare l’evasione fiscale, generata per lo più da redditi
di tutt’altra natura. Cioè non credere alle “riforme” sbandierate da tanti
anni. Più che di volontà di cambiare il tutto rivela rassegnazione e
compiacimento.
La seconda:
scriveva Miglio che ogni sintesi politica dà luogo a rendite politiche
distribuite dal vertice ai propri collaboratori e seguaci. La differenza principale
delle rendite politiche da quelle di mercato è che le prime sono ottenute con
la coercizione e che perciò sono garantite (e per questo assai appetite) dal
monopolio della forza. Come sostiene Miglio la garanzia della rendita del
seguace è a vita e per ogni situazione (almeno finché dura la sintesi politica).
Scrive: “comunque andranno le cose, comunque andrà il mercato e si evolverà la
situazione economica, la paga verrà ricevuta”. Mentre le rendite di mercato sono
caratterizzate in negativo dall’aleatorietà
(ossia dalla dipendenza dalla situazione economica) e in positivo della (tendenziale)
assenza di limiti; un imprenditore può morire di fame o divenire Jeff Bezos. L’unico
limite, sempre esistente, ma in misura assai differente, è quello dell’imposizione
pubblica e soprattutto fiscale.
È da notare l’analogia
tra imposta patrimoniale e i caratteri delle rendite politiche: il gettito non
dipende dall’andamento di mercato e dai flussi di reddito. Così i quattrini per
seguaci ed aiutanti devono essere trovati anche se non “prodotti” (quindi
inesistenti).
Il gettito, per
la stessa ragione, è garantito (come la rendita) perché la base imponibile è
costante e sicura. Ancorare l’imposta al valore di beni non (o poco) deperibili
come gli immobili significa, dal lato della spesa, assicurare i redditi erogati
dalla classe politica. Non che lo stesso non possa farsi con altri “tipi” d’imposta
(che non presentano le suddette analogie): ma è sintomatica la corrispondenza d’amorosi sensi tra sostenitori della patrimoniale e fruitori
delle rendite politiche (per lo più gli stessi).
Dov’è il limite
della patrimoniale? È la realtà. Nel senso che, a meno di ritenere i contribuenti
affetti da volontà di miseria, per un bene che non da reddito non può, alla
lunga, pagare imposte; con la conseguenza che per farlo, il proprietario deve
alienare il bene, ossia tollerare la propria spoliazione. Il regime/assetto parassitario (secondo la tripartizione
di Pantaleoni) si converte così in assetto predatorio. Con i proprietari espropriati (o, nel migliore dei casi, immiseriti)
per alimentare – prevalentemente – i tax-consommers.
Analogamente
pensare che un sistema fiscale possa
sostenersi senza che i beni diano un corrispettivo (a meno di alienarli)
è concepibile solo ove l’incidenza dell’imposta patrimoniale sia modesta, di
guisa che l’adempimento dell’obbligo relativo possa essere assolto con altri
redditi del contribuente.
Certo a tali
obiezioni si può replicare che questi inconvenienti
possono essere causati anche da altri tipi d’imposta: è vero, ma solo nella
patrimoniale la corrispondenza tra modalità del prelievo e realtà della
politica, delle sue regolarità e del dominio è così evidente. Onde si pensa di
mistificarla od occultarla con un’overdose
di derivazioni.
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