Il riaccendersi
della vertenza tra Polonia ed UE, a mio avviso, sposta di poco la questione che
indicavo ai lettori de “L’Opinione” negli articoli del 30 settembre e del 19
novembre dell’anno passato: che l’espressione “Stato di diritto”, di cui
all’art. 2 del Trattato sull’Unione Europea, è altamente polisemica, essendo considerati da un lato “Stati di diritto”
ordinamenti assai differenti; dall’altro il concetto relativo allo stato
elaborato da tanti pensatori in nodo non univoco. Ricordavo, per evitare al
lettore il “catalogo di Laparello” delle concezioni e degli autori, quanto se
ne può leggere nell’attenta voce “Stato di diritto” nel “Dizionario del
liberalismo” scritto da Anna Pintore che, stante la non-univocità del termine e
del concetto “nessuna trattazione del tema può essere neutrale”; con la
conseguenza che, proprio perciò, la formula “ha goduto fin dalla sua nascita di
apprezzamento pressoché universale, al punto da segnare oggi una strada senza
alternative: uno Stato che non incarni
questo modello deve essere considerato legittimo ed indegno di obbedienza”.
Quindi indeterminato da un lato, e perciò utile per giustificare misure sanzionatorie (se non aggressive): la
connotazione lasca è ideale per
sfornare pretesti.
Quale esempio,
scrivevo che “nella procedura Ue d’infrazione alla Polonia è stata contestata
la limitazione all’indipendenza dei giudici polacchi dopo le innovazioni degli
ultimi anni… Tuttavia negli USA tutti i giudici della Corte Suprema, e molti di
quelle “inferiori” sono di nomina (o elezione) politica, ma pare assai
difficile sostenere che gli USA non sono uno Stato di diritto, ma anche che
quel modo di nominare comprometta gravemente lo Stato di diritto”. E così si
potrebbe proseguire, non solo per la Polonia (v. sul punto le “infrazioni”
sulla libertà e l’educazione sessuale) ma anche per la procedura d’infrazione
all’Ungheria.
Ma non risulta
che Montesquieu, Gneist, Orlando, Constant (ecc. ecc.) abbiano usato come
criterio per discriminare gli Stati di diritto da quelli che non lo sono le
preferenze sessuali, il contenuto dei sussidiari e così via. Il pericolo è che,
a forza di calcare la mano su profili irrilevanti o poco rilevanti si perdano
di vista quelli essenziali (allo Stato di diritto), come avviene da decenni
soprattutto in Italia tra l’indifferenza dei mass-media di regime. Solo coll’emergenza pandemica è stato
dibattuto pubblicamente che alcune delle misure non erano proprio in linea né
col concetto del Rechtstaat ed ancor
più con i principi e le disposizioni della nostra Costituzione. Due pensatori
di valore come Agamben e Cacciari sono stati messi alla gogna per aver
sostenuto che obbligo del green pass
nei luoghi di lavoro fa a pugni (tra l’altro) con il principio costituzionale
“lavorista” (v. art. 1 Costituzione).
Piuttosto che
alla paglia nell’occhio degli altri, faremmo bene a pensare alle travi nel
nostro.
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