Scusate se
insisto; ma la discussione sulla “riforma” Cartabia ha ridestato gran parte dei
luoghi comuni sulla giustizia. Uno
dei quali è che, sanzionando comportamenti di amministratori e funzionari si
sarebbero indotti gli stessi a non decidere; col risultato di rendere (ancora)
più inefficienti le P.P.A.A. italiane. Vero è che l’attenzione si è focalizzata
su un reato specifico cioè l’abuso di potere (art. 323 c.p.) la cui
formulazione è così vaga da prestarsi ad interpretazioni plurime (e
contrastanti).
Se è certo che
detto reato si presta a strumentalizzazioni (anche) politiche, lo è altrettanto
che escludere, ridurre o rendere inefficaci le sanzioni non può che incentivare
a commetterlo. Funzione della sanzione è, come scriveva Carnelutti “Sancire, significa fondamentalmente, in
latino, rendere inviolabile e perciò avvalorare qualche cosa; ciò che viene
avvalorato, in quanto si cerca di impedirne la violazione, è il precetto, in
cui l’ordine etico si risolve… in quanto la sanzione garantisce l’osservanza
dell’ordine etico, converte il mos in
ius perché meglio congiunge, così
tiene uniti, gli uomini nella società”; ma aggiunge “non v’è alcun motivo per
riservare al castigo il carattere della sanzione: serve a garantire l’osservanza
dell’ordine etico il premio al pari del castigo; praticamente e, per ciò,
storicamente, il premio ha però una importanza assai minore”.
Per cui a
seguire il ragionamento di Carnelutti non sanzionare vuol dire non avvalorare
(almeno) la norma. Resta il fatto che senza sanzione il precetto è zoppo: ma
non è detto che a sanzionarlo debba essere la prescritta irrogazione di una
pena dal giudice penale. In effetti, come scriveva il giurista, la sanzione può
essere la più varia: al punto che può consistere in un premio per chi osserva
(e fa osservare) il diritto.
Nella specie
l’inconveniente della prescrizione di pena è stato aumentato dalla legge
Severino, che ha previsto sanzioni “politiche” a carico di amministratori di
enti pubblici, anche in caso di sentenze non definitive (compresa la sospensione
e decadenza dall’ufficio) come l’impossibilità di ricoprire la carica per la
quale erano stati scelti dal corpo elettorale. Per cui rende più appetibile per
togliere di mezzo un amministratore scomodo, di ottenere una sentenza penale di
condanna dalla quale consegue la sospensione o la decadenza dalla carica.
Circostanza la
quale unitamente al fatto che si tratta di sentenze non definitive (ma politicamente efficaci) ha indotto molti
a ritenerla incostituzionale. Un primo passo per evitare ciò sarebbe
l’abolizione della legge Severino, fatta, come tutti hanno capito, non per amore
di giustizia, ma per il fine di parte di mandare a casa Berlusconi, a dispetto
del popolo italiano che s’intestardiva a volerlo come proprio governante. Che
è, per l’appunto, uno dei quesiti dei referendum Lega-radicali.
Ma, oltre a
ridurre l’appetibilità e le conseguenze politiche, togliendo la suddetta normativa,
la sanzione può essere utilmente ricondotta alla conseguenza di una condanna
civile e amministrativa.
Non nel senso,
però, di togliere l’amministratore dall’incarico, ma utilizzando la vasta gamma
di sanzioni previste dall’ordinamento. All’uopo rinforzandole e rendendone meno
saltuaria l’applicazione. Prendiamo ad esempio la c.d. astreinte, cioè la sanzione pecuniaria a carico dell’amministrazione
che non adempie una sentenza (!!!), malgrado l’obbligo relativo risalga (almeno)
alla Destra storica (v. all. E, L. 2248/1865). In Italia è stata prescritta
dall’art. 114 (lett. E) del c.p.a. (D.Lgs. 02/07/2010 n. 104), la quale è una delle
poche disposizioni (forse l’unica) che nella seconda Repubblica, ha previsto un
rimedio a favore dei creditori delle P.P.A.A., tra una miriade di precetti
volti a tutelare le amministrazioni dalle pretese altrui, derogando al diritto
comune.
Ebbene (ingenuamente?)
il precetto è stato formulato premettendo l’eccezione “salvo che ciò sia
manifestamente iniquo”: è bastato questo per allargare a dismisura il perimetro
dell’iniquità (??), oibò, di chiedere alle P.P.A.A. di adempiere a sentenze e
giudicati nei modi stabiliti dai giudici e dalla legge. C’è una sterminata messe
di decisioni giudiziarie limitanti l’applicazione dell’astreinte perché sarebbe “manifestamente iniquo” sanzionare uno Stato
“in bolletta” come la Repubblica italiana. Ovviamente tale giurisprudenza burofila ha dimenticato quanto scriveva Jhering
del diritto romano “classico” che “La pena pecuniaria era il mezzo civile di
pressione, onde il giudice usava, per procacciare ed assicurare l’osservanza
agli ordinamenti suoi. Un convenuto, che si rifiutasse a fare ciò che il
giudice gl’imponeva, non se la cavava col
semplice pagamento del valore della cosa dovuta” (il corsivo è mio). Basterebbe
eliminare quell’inciso per ottenere un ridimensionamento del garantismo burofilo. Ancora meglio
associarlo, ex art. 28 della Costituzione, ad una sanzione pecuniaria – anche modesta
– a carico del funzionario inadempiente. E di esempi così ne potrei fare diversi, a
costo di annoiare il lettore, più di quanto abbia già fatto.
Piuttosto
tornando a Jehring, il giurista tedesco sosteneva che il tardo diritto romano
aveva debilitato il senso del diritto attraverso mitezza e umanitarismo. Da quello
“robusto ed energico” repubblicano si era passati a una fiacchezza
contrassegnata dal miglioramento delle “condizioni del debitore alle spalle del
creditore”. Ai nostri giorni il maggior debitore è lo Stato: per cambiare
andazzo, come si chiede l’Europa, basta non eccedere in mollezza, peraltro neppure
generale, ma burofila. Come sosteneva
Jhering “credo che si può stabilire questa massima generale; le simpatie verso
i debitori sono segno di un periodo di fiacchezza. Il titolo di umanitario è esso stesso che se lo eroga”;
il contrario, praticato nei regimi decadenti consiste ne “l’umanità di san Crispino,
che rubava cuoio ai ricchi per farne stivali ai poveri”. E chissà che, ai
giorni nostri, i pagamenti ai grandi creditori sono stati ritardati quanto
quelli ai quisque de populo? Non mi
risulta d’averlo letto.
Speriamo che i
giudizi di Jhering possano ispirare anche la (di esso collega) Cartabia.