MORALINA, LEGALINA ED ETICA POLITICA
1.0 È risaputo che politica e morale (spesso) non vanno d’accordo; lo è parimenti che accusare i propri nemici di essere immorali o amorali è tra i più impiegati topos della propaganda. Ed è altrettanto diffuso ritenere che tra politica ed etica possa esservi antitesi inconciliabile; di guisa che per mostrarsi di una qualità etica superiore, si auspica l’antipolitica[1].
A leggere, tra gli altri Croce, questi scrive delle varie forme dell’attività umana e di come l’una tenda a sottomettere l’altra. E ricorda[2] che la schietta politica non distrugge, ma anzi genera la morale[3]. Proprio perché (l’esistenza e) l’attività umana non è possibile se non nella sua interezza[4], sostiene “E l’uomo morale non attua la sua moralità se non operando politicamente, accettando la logica della politica”. Ciò significa accettarne i mezzi. Ed è proprio “L’amoralità della politica, l’anteriorità della politica alla morale fonda, dunque, la sua specificità e rende possibile che essa serva da strumento di vita morale”.
A Max Weber dobbiamo, nella ricerca di un’etica politica, la distinzione tra etica della convinzione ed etica della responsabilità[5].
La conseguenza è che chi agisce secondo la prima sarà auto-assolto da possibili insuccessi “Se le conseguenze di un’azione determinata da una convinzione pura sono cattive, ne sarà responsabile, secondo costui, non l’agente bensì il mondo o la stupidità altrui o la volontà divina che li ha creati tali”. Al contrario “chi invece ragiona secondo l’etica della responsabilità tiene appunto conto di quei difetti presenti nella media degli uomini; egli non ha alcun diritto… di presupporre in loro bontà e perfezione, non si sente autorizzato ad attribuire ad altri le conseguenze della propria azione, fin dove poteva prevederla”, assumendosi così la responsabilità del proprio operato[6]. Weber, in modo non dissimile da Croce, riteneva che “L’etica religiosa si è variamente adeguata al fatto che noi apparteniamo contemporaneamente a diversi ordini di vita, soggetti a leggi diverse tra loro” (i corsivi sono miei).
Da ciò deriva che spesso l’etica delle religioni ha adattato all’attività dell’uomo le regole da osservare. Così, per il cristianesimo “accanto al monaco che non può versar sangue altrui e non può trarre profitti, vi sono il pio cavaliere e il borghese, dei quali l’uno va esente dal secondo di quei divieti e l’altro del primo”[7].
Dato che la politica è caratterizzata dall’uso della forza è questa che “determina la particolarità di ogni problema etico della politica”. L’apparato di potere (i seguaci o l’aiutantato, come lo chiamava Miglio) ha bisogno di “bottino, potenza e prebende. Il successo del capo dipende…dal funzionamento di questo suo apparato”[8]; il che comporta l’uso di mezzi per lo più non commendevoli o comunque estranei all’etica (della convinzione). Quindi l’etica della convinzione è del tutto irrealistica e politicamente inopportuna? Non del tutto, sostiene Weber perché “la politica si fa con il cervello ma non con esso solamente. In ciò l’etica della convinzione ha pienamente ragione”[9]. Senza il riferimento ad un progetto, valori, al “regno dei fini”, la politica diventa un mestiere. Determinare quanto sia opportuno seguire l’una o l’altra etica è difficile da fare a priori. Perché, conclude Weber “l’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche ma si completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la “vocazione alla politica (Beruf zur Politik)”.
2.0 C’è nell’etica della responsabilità un elemento decisivo: che tiene in una considerazione prevalente l’interesse degli altri. È un’etica “sociale” per natura; è pensabile (pienamente) in relazione alla cura d’interessi non propri.
Se, come nel caso, poi la si applica alla politica, occorre tener conto cosa la politica è; e cosa l’istituzione politica – ossia, nella modernità, lo Stato – e per esso i governanti debbano curare. Freund definisce la politica “come l’attività sociale che si propone d’assicurare con la forza, generalmente fondata sul diritto, la sicurezza esterna e la concordia interna di un’unità politica particolare garantendo l’ordine tra i conflitti nascenti dalla diversità e dalla divergenza d’opinioni ed interessi[10].
Il pensatore francese per stabilire quale ne sia il fine specifico, parte da Aristotele; per il quale ogni attività umana ha un fine particolare (la salute del paziente per il medico; la vittoria in guerra per lo stratega, e così via). Lo scopo della politica (e dell’uomo politico) è il bene comune, definito come quello “della Repubblica (cioè dell’istituzione) o del popolo che formano insieme una collettività politica”[11]. Desumendone i caratteri essenziali da Hobbes, il bene comune consiste nella protezione contro i nemici, nella pace, nel benessere e nel godimento d’un’innocente libertà[12]. Il bene comune è sempre il fine, ma gli obiettivi da raggiungere per assicurarlo variano a seconda della situazione concreta.
Coniugando l’etica “di settore” al fine della politica ne consegue che l’etica del governante prescrive di tutelare e perseguire il bene comune e cioè l’interesse generale (come – per lo più – denominato nei moderni testi costituzionali).
Il fatto che poi il governante non sia sotto il profilo della morale “privata” uno stinco di santo – e di solito non lo è – è irrilevante (o poco rilevante).
Come scrive Croce in un passo tante volte ripetuto – è “l’ideale che canta nelle anime di tutti gli imbecilli”, di auspicare un governo d’onest’uomini, salvo poi, vistane l’inettitudine a guidare lo Stato, rovesciarlo; perché l’onestà politica “non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze” (il corsivo è mio). Lo stesso Montesquieu nell’Avertissement all’Ésprit de lois, temendo la confusione tra virtù privata e virtù pubblica (assai vicina all’oggetto qui trattato) chiarisce che parla di questa, come la molla (ressort) che da movimento al governo repubblicano.
3.0 Un problema analogo si è presentato, limitandosi all’epoca moderna senza voler risalire nel tempo (giacché se ne legge già nella Farsaglia di Lucano)[13], nel contrasto tra norma giuridica e interesse generale o, meglio, “ragion di Stato”. Dove il contrasto più evidente è nello Status mixtus democratico-liberale (o borghese) perché coniugante principi di forma politica con i principi dello Stato borghese di diritto, tra i quali emerge la soggezione alla legge (anche) del potere esecutivo, che renderebbe invalida, se coerentemente applicata, la deroga alla legge. Cosa che potrebbe compromettere la stessa esistenza della comunità politica e dell’istituzione che la mette in forma. Per cui nelle costituzioni borghesi sono previste forme di deroga: dallo stato d’eccezione e dalle rotture costituzionali, fino alle eccezioni della giurisdizione (per gli Acts politiques) e ai giudizi penali speciali (per funzionari e politici). Si sostiene che certe deroghe ledono il principio d’uguaglianza: ma il carattere dell’istituzione politica, come si legge all’inizio dei manuali di diritto pubblico e costituzionale, è che i rapporti relativi sono tra soggetti giocoforza disuguali (per funzione): tra chi ha il diritto di comandare e chi il dovere di obbedire.
Senza tale disuguaglianza non può esistere unità politica, che è in primo luogo, unità del comando e dell’esecuzione.
4.0 Nella contemporaneità, quanto alla morale, è stato affermato che quella derivante dal “pensiero unico” è moralina “un concetto il cui nome rimanda, da una parte, alla morale e, dall’altra, grazie al suffisso impiegato, a tutte quelle sostanze che danno dipendenza, sostanze eccitanti e tossiche come l’anfetamina” il cui effetto è “che contamina queste stesse fonti con un manicheismo capace solo di opporre il bene al male, i buoni ai cattivi, il vero al falso, l’informazione all’intossicazione”[14]. In Italia accanto – e non ben distinta – dalla moralina, si è affermata, per così dire, la legalina, cioè una concezione della legalità che ne costituisce la caricatura (e spesso la strumentalizzazione).
I fondamenti della legalina sono: la soggezione di tutti alla stessa legge; l’inammissibilità delle procedure di deroga previste dall’ordinamento; la percezione strabica delle stesse deroghe, spesso incidenti su diritti che con la politica hanno meno a che fare, mentre ne hanno con la soggezione a decisioni e prassi burocratiche; la mancata considerazione che quelle deroghe appartengano alla natura dell’istituzione politica, la quale genera un proprio diritto – una propria giustizia, connotati fondamentalmente dell’ineguaglianza tra le parti, cioè la Temi di Hauriou (correlata al droit disciplinaire)[15], contrapposta a Dike (correlata al droit commun). Scriveva il giurista francese, in relazione all’aspirazione di voler sottomettere lo Stato al diritto che nell’ordinamento inglese (così privatistico) c’è una prospettiva che inganna (trompe-l’oeil) nell’asserita soggezione degli amministratori pubblici alla legge: lo sono per le piccole cose, ma i grandi affari di governo restano fuori dal diritto[16]. Per cui questa aspirazione rimane sempre relativamente realizzabile: perché se lo fosse integralmente distruggerebbe l’istituzione (e la comunità). La politica risponde alla massima salus reipublicae suprema lex (l’esistenza politica prevale sul diritto), la giustizia su fiat justitia pereat mundus (fare giustizia a costo dell’esistenza)[17].
Tale alternativa è decisiva per le conseguenze che può avere: valutare una scelta secondo criteri politici e non morali porta (spesso) alla distruzione e ancor più frequentemente alla decadenza dello Stato e della comunità: vale sempre il giudizio sulla bontà politica di Machiavelli: “perché un uomo che voglia fare in tutta la parte professione di buono, conviene ruini fra tanti che non sono buoni”. Giustamente Hegel, sosteneva che “lo stato non ha nessun dovere più alto della conservazione di se stesso” e ne deduceva che “E’ un principio noto e risaputo che questo interesse particolare è la considerazione più importante; e non è lecito ritenerla in contrasto con i doveri i diritti o la moralità perché anzi ogni singolo corpo statale, essendo uno stato particolare, è tenuto a non sacrificarsi per un universale dal quale non può aspettarsi alcun aiuto: piuttosto, il principe di uno stato territoriale come il consiglio comunale di una città imperiale hanno il sacro dovere di preoccuparsi del loro territorio e dei loro sudditi”[18] (il corsivo è mio).
5.0 In particolare la normazione relativa ai migranti del Governo Conte (1), fortemente voluta dall’allora Ministro Salvini, ha offerto una vasta casistica di affermazioni, riconducibili alla legalina. Il cui fondamento esegetico (principale) è trovare una qualche norma (regolamentare, legislativa, costituzionale, interna, internazionale, consuetudinaria, pattizia, eccezionale ecc. ecc.) che possa fornire un appiglio alla tesi preferita.
Il che spesso non è difficile, attesa la pletora di norme. Ma, dato che lo stesso problema si pone in tante interpretazioni giuridiche l’interpretazione preferibile è quella che non contrasta con il sistema, con l’ordinamento. Applicando così due noti principi enunciati in frammenti del Digesto[19].
Così è stato affermato da un noto giornalista, che non fermarsi all’alt della guardia costiera è legale, perché il diritto di sbarcare in Italia sarebbe garantito dalla Costituzione (da quale articolo?); altrove si legge che un ex Sindaco ha detto “Nessuno deve evitare un processo se accusato di aver commesso reati e questo deve valere anzitutto per un uomo politico… non ci si deve nascondere dietro i ruoli politici e istituzionali per avere immunità particolari” (e allora la legge sull’accusa ai Ministri dov’è finita?). Ma comunque non è giusto, continua l’ex Sindaco perché “Salvini da Ministro dell’interno ha avuto un comportamento inaccettabile, che io considero un reato a livello umano e morale e anche politico; vedremo se i giudici riterranno che si sia trattato anche di un reato penale” né si può ridurre, sempre a giudizio dello stesso, il problema a questione d’ordine pubblico che è il principale compito del Ministro degli interni (se no, che ci sta a fare?).
Un gruppo di giuriste dell’Università di Torino ha poi equivocato sui fatti affermando che Salvini impediva “azioni umanitarie” (cioè i soccorsi in mare); in realtà, ha solo impedito l’ingresso nelle acque territoriali e i successivi sbarchi nei porti italiani, soggetti (le acque e i porti) alla sovranità nazionale di cui all’art. 1, della Costituzione (come sosteneva, più di due secoli fa, l’abate Galliani – tra gli altri).
Qualcun altro la “butta” sulla distinzione tra legalità e legittimità, anche se vi sono contrapposte opinioni sul punto – essenziale - se l’ex Ministro degli interni stava dalla parte della legalità e della legittimità: coloro i quali pensano che legittimità significhi rispondenza alla volontà del popolo, ritengono che il comportamento dell’ex Ministro sia contrario alla legalità costituzionale. Quelli che concedono che la legalità sia stata rispettata, fanno appello alla legittimità dei valori costituzionali, tirandosi appresso Antigone, i monarcomachi ecc. ecc.
6.0 In un contesto confuso, tra moralina e legalina e svariate opinioni sulle medesime, c’è da chiedersi se politico “morale” sia chi rispetta i dettami della morale privata (e della legge) o colui che provvede in vista del bene comune.
Non v’è dubbio che aveva ben visto Hegel per il quale preoccuparsi del territorio e dei sudditi è un sacro dovere (v. sopra); così Croce il quale faceva coincidere l’onestà politica (cioè il perseguimento del bene) con la capacità politica e non con l’essere l’uomo politico pio e morigerato. E con l’aver ancorato la politica e lo Stato all’utile, al vivere (e al buon vivere) cioè all’esistente prima che al normativo.
Ad applicare tale criterio, l’uomo a cui si addice di più appare proprio il leader della Lega e non i moralisti e legalisti salmodianti in politicamente corretto. Con un’avvertenza: che la capacità politica non si giudica sulla conformità a buone intenzioni, ma al raggiungimento dei risultati auspicati: per averla occorre, come sostiene Machiavelli, tanta virtù (politica) cioè prudenza e intelligenza delle situazioni necessarie a battere l’avversa fortuna. Da questo e non solo dall’intenzione di seguire l’interesse pubblico (che ne è la premessa necessaria) si misura.
Teodoro Klitsche de la Grange
[1] La quale, a parte la propaganda, è altrettanto possibile che abolire la legge di gravità, essendo la politica connaturale all’uomo come diceva già Aristotele (zoon politikon) e ribadito da tanti, tra cui Freund con la sua teoria delle essenze. Resta da dimostrare se proprio perché l’uomo ne ha diverse, può fare a meno di qualcuna. Ora il politico, ora l’etico, ora l’economico e così via.
[2] “La politica, che è e non può essere schietta politica, non distrugge ma anzi genera la morale, nella quale è superata e compiuta. Non c’è nella realtà una sfera dell’attività politica o economica che stia da sé, chiusa e isolata; ma c’è solo il processo dell’attività spirituale, nel quale alla incessante posizione delle utilità segue l’incessante risoluzione di esse nell’eticità” , v. Etica e politica, Bari 1931, p. 228.
[3] Op. loc. cit.
[4] “Non vita morale, se prima non sia posta la vita economica e politica; prima il «vivere» (dicevano gli antichi), e poi il «ben vivere». Ma altresì non vita morale che non sia insieme vita economica e politica, come non anima senza corpo”
[5] Scrive Weber “ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e inconciliabilmente opposte: può esser cioè orientato secondo l’«etica della convinzione» oppure secondo l’«etica della responsabilità». Non che l’etica della convinzione coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con la mancanza di convinzione. Non si vuol certo dir questo. Ma v’è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima dell’etica della convinzione la quale – in termini religiosi – suona: «il cristianesimo opera da giusto e rimette l’esito nella mani di Dio», e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni” v. Politik als Beruf, trad. it. di A. Giolitti ne Il lavoro intellettuale come professione, Torino 1966, p. 109.
[6] Weber delinea nel prosieguo alcuni tratti, in ispecie di chi segue l’etica della convinzione. Il rifiuto relativo della forza, a meno che non giustificata dalla santità dei fini. La non accettazione (almeno parziale) della realtà perché “non sopporta l’irrazionalismo del mondo; il rifiuto del paradosso delle conseguenze (Freund), cioè che buone azioni possano provocare il male (e viceversa). Ossia il contrario, dice Weber, di quanto credono tutte le religioni della terra, col problema fondamentale della teodicea (op. cit. p. 112). Già i primi cristiani, scrive “sapevano perfettamente che il mondo è governato da demoni e che chi s’immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo capisce, in politica non è che un fanciullo”.
[7] Op. cit., p. 116; per un esame sommario della teologia politica cristiana si rinvia ai miei articoli Meglio Callicle, in Behemoth n. 24 e Tangentopoli tra politica morale ed etica politica in Behemoth n. 23.
[8] E prosegue “Il risultato da lui effettivamente raggiunto in siffatte condizioni del suo agire non è rimesso alla sua volontà, bensì gli è prescritto dai motivi – per lo più eticamente scadenti – ai quali s’ispira l’azione dei suoi seguaci… però questa fede, anche se soggettivamente sincera, è in gran parete dei casi semplicemente la «legittimazione» etica della brama di vendetta, di potenza, di bottino e di prebende”, op. cit., p. 116.
[9] Op. cit., p. 118.
[10] v. L’essence du politique, Paris 1965, p. 751.
[11] op. cit., p. 651. Freund afferma di seguire la concezione di Hobbes (in effetti risente anche del pensiero di M. Hauriou), e sottolinea come nel corso dei secoli lo stesso concetto sia stato denominato con diverse espressioni.
[12] op. cit., p. 652.
[13] Nel consiglio dato da Plotino a Tolomeo di non proteggere Pompeo, fuggiasco in Egitto “«lus et fas multos faciunt, Ptolomaee, nocentes; dat poenas laudata fides, cum sustinet» inquit «quos fortuna premit. Fatis accede deisque et cole felices, miseros fuge. Sidera terra ut distant et flamma mari, sic utile recto. Sceptrorum vis tota perit, si pendere iusta incipit, evertitque arces respectus honesti. Libertas scelerum est, quae regna invisa tuetur, sublatusque modus gladiis. Facere omnia saeve non inpune licet, nisi cum facis. Exeat aula qui vult esse pius. Virtus et summa potestas non coeunt »”. E Pompeo, di conseguenza, fu ucciso con l’inganno. Nel consiglio dell’eunuco c’è l’antitesi tra interesse dello Stato e l’uso di dare asilo “politico”.
[14] v. M. Onfray Teoria della dittatura, Milano 2020, p. 198.
[15] Su questa e sulla situazione inegualitaria – spesso deprecabile – della giustizia nei confronti delle pubbliche amministrazioni, mi sia consentito rinviare al mio scritto Temi e dike nel tramonto della Repubblica in rete (v. Italia e il mondo).
[16] v. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 100.
[17] Sul punto v. Radbruch Propedeutica alla filosofia del diritto, Torino 1959, p. 116.
[18] “Verfassung Deutschlands” trad. it. - in “Scritti politici” pag. 90-91, Torino 1974.
[19] Incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliqua particula eius proposita judicare vel respondere, e Scire leges non est verba earum tenère, sed vim ac potestatem, , ambedue di Celso.