PARASSITARIO O PREDATORIO?
La distinzione, vicina
(e in parte lo comprende) – al giudizio di Max Weber per la quale l’uomo
politico vive, in qualche misura, anche di
politica (e non solo per la politica),
non è spesso agevolmente applicabile al concreto perché in diversa misura ogni
organizzazione, anche la più tutoriale
ed efficiente – ha dei costi (compresi quelli del vertice direttivo), come li
hanno le altre. Onde spesso la distinzione si fonda su elementi quantitativi più che qualitativi.
Per cui la
“soglia” tra l’uno e l’altro assetto è determinata (per lo più) dal quantum idoneo a distinguerli; ma non è
solo questione – anche se è l’aspetto più importante – di percentuale di ricchezza prelevata (o estorta) ai governati, ma
anche – ad esempio – dell’uso della forza, del provvedimento in luogo del
contratto e così via.
2. Gli anni della crisi economica. – A quasi nove
anni dall’inizio della crisi economica e delle vicende, in particolare
italiane, che ne sono conseguite, è da chiedersi quanto le trasformazioni
intervenute nell’assetto dei rapporti economici tra classe dirigente e
cittadini siano riconducibili (nel risultato) ad una delle tre specie
identificate.
All’uopo è meglio
ricordare – tra i tanti dati disponibili (più o meno affidabili) che: quanto al
PIL questo, tra il 2000 e il 2016 è cresciuto meno di un punto percentuale
(dato ISTAT settembre 2017); invece l’aumento della pressione fiscale rispetto
al PIL è stato il secondo più alto d’Europa, ossia +3,2%, più del doppio della
zona euro (+ 1,5%) e più del triplo della Ue a 28 paesi (1%);
nel periodo 2008-2017 l’aumento è stato dell’1,3%.
Peraltro i dati
vanno compresi (e l’effetto spesso è peggiore): ad esempio l’IVA è aumentata
(durante il periodo della crisi) di due punti percentuali (dal 20% al 22%). Il
gettito in termini reali è lievemente
calato, ma solo perché la crisi ha ristretto la base imponibile per cui, onde
ottenere un gettito più o meno pari, il governo è stato costretto ad aumentare
del 2% l’aliquota (dal 20 al 22%). E così si potrebbe andare avanti citando
fonti ufficiali (credibili fino ad un certo punto) e non ufficiali (meno
credibili?).
Da questi (e altri)
dati possono farsi due considerazioni generali. La prima è che la crisi
economica ha decurtato il reddito di tutti i cittadini; la seconda, che, invece,
non ha inciso (o molto meno) sulle élite dirigenti e su coloro che vivono del
bilancio pubblico: il costante aumento del prelievo fiscale – malgrado la
contrazione della base imponibile – lo prova. Il reddito calante (per i
governati) si è sommato al prelievo crescente.
Qualcuno potrebbe
sostenere, a seguire Gaetano Mosca, che la ragione di ciò è “la naturale tendenza,
che hanno coloro che stanno a capo della gerarchia sociale ad abusare dei loro
poteri”. Ovviamente a beneficio proprio e dei propri protetti/seguaci (e
protettori). Ma è da chiedersi, fino a quando? L’equilibrio tra costi e
benefici delle organizzazioni delle comunità non è mai pari: l’importante, per
mantenerlo, è che non sia troppo distante
dalla parità.
Quando nell’impero
romano si ruppe – Settimio Severo lo predicò sul letto di morte –
quell’equilibrio (progressivamente peggiorando), avvenne che i sudditi
dell’impero scappavano dalle zone ancora amministrate dai funzionari imperiali
verso quelle occupate dai barbari, le cui pretese erano assai più “miti” di
quelle degli esattori romani.
Anche nell’Italia
contemporanea abbiamo almeno due “classi” di cittadini italiani che scappano
(in massa, come i romani): coloro che cercano (e trovano) lavoro all’estero
(nel 2016 oltre centomila) prevalentemente giovani; e i pensionati che si
trasferiscono in paesi (anche europei come il Portogallo) dove la vita è meno
costosa e il fisco meno rapace (per i quali, a leggere i giornali, il fisco sta
studiando come tosarli meglio).
3. La situazione concreta dell'Italia. – Ciò stante
cerchiamo di dare una risposta all’interrogativo iniziale: a quale dei tre
assetti corrisponde la situazione concreta dell’Italia?
Quello sicuramente
da escludere è che si tratti di un assetto tutorio
(il preferibile per i governati). La classe dirigente – e i suoi manutengoli
mediatici – si affannano a sostenere che tra costi e benefici c’è equilibrio,
anzi che i secondi (per i governati) fanno aggio sui primi, ma, a prescindere
che un simile giudizio suscita generalmente un misto di rabbia e ilarità, resta
il fatto che al calare dei secondi (v. pensioni, sanità, ecc. ecc.) corrisponde
l’aumento dei primi (imposte, corrispettivi vari, svendite del debito
pubblico). Per cui è insostenibile nei (e dai) fatti.
Meno agevole è
ricondurre il tutto a uno degli altri due assetti.
Il cui discrimine
è, secondo alcuni, la prospettiva di durata (lunga in quello parassitario, perciò meno oppressivo), e
breve nel predatorio (consistente in
vantaggi immediati a favore esclusivo dei governanti); secondo altri la
regolamentazione/difesa giuridica, presente nel parassitario e assente o del tutto inconsistente nel predatorio (il cui caso-limite è il
saccheggio di una città espugnata dal nemico), che richiama in certo modo la
visione/concezione hobbesiana del bellum omnium cantra omnes. Altri
criteri possono essere l’aumento e la prevalenza di strumenti d’amministrazione
negoziali o autoritativi (contratto o provvedimento); paritari o non paritari e
così via.
4. Il tipo ideale dell’assetto predatorio. – Come cennato i
criteri distintivi dell’assetto predatorio da quello parassitario sono prevalentemente
ritenuti due: la prospettiva a “breve periodo” e l’assenza di difesa giuridica.
Il “tipo ideale” di assetto predatorio è, come prima scritto, quello di una
città o un territorio occupato e saccheggiato da un esercito nemico. Il quale
non si aspetta né che il saccheggio continui indefinitamente ma neppure che vi
sia alcuna pretesa giuridica che possa farsi valere contro il diritto del
vincitore/occupatore a disporre senza limiti dei beni e delle vite dei vinti (che
comprendeva nell’antichità sia lo jus
vitae et necis, sia quello sulle persone, riducibili in schiavitù).
Ma questo è un tipo ideale, cui le situazioni concrete
si possono accostare e (parzialmente) essere ricomprese, senza esservi incluse totalmente.
Né l’un criterio né l’altro coincidono con i connotati peculiari dell’assetto parassitario in cui gli sfruttatori (per
interesse proprio) non hanno alcun intento che lo sfruttamento s’esaurisca in
breve durata. Come scriveva Pareto, il loro interesse è spennare l’oca senza
troppo farla gridare. Se l’oca muore o perde tutte le penne diventa inutile: lo
sfruttamento si esaurisce per carenza di sfruttabile.
La stessa difesa giuridica è compatibile con l’assetto parassitario, non
foss’altro perché consente una utilizzazione regolata, quindi (entro certi
limiti) prevedibile e calcolabile,
anche da parte degli sfruttati (che ne siano consapevoli o meno). Pertanto
possono distinguere l’assetto parassitario
dal predatorio.
Il dominio, di
converso, di una banda di briganti non si distingue da quello di un potere
legittimo soltanto perché non è ispirato alla giustizia, come scriveva S.
Agostino, ma, ancor più, perché non è finalizzato alla durata (e alle
condizioni e limiti che la permettono).
Non costituisce
invece criterio distintivo il monopolio (o almeno l’impiego) della violenza
(più o meno) “legittima” perché questo connota ogni tipo di Stato (Weber) e
relativo assetto, compreso il preferibile assetto “tutorio”, in quanto ogni
sintesi politica presuppone comunque la (possibilità di) trasgressione e quindi
la necessità di reprimerla. Anche se, nell’assetto predatorio l’uso della
violenza è sistematico, ciò che lo rende qualitativamente diverso è l’assenza
di limiti giuridici (nel tipo ideale) e (almeno) la loro minimizzazione (nelle
situazioni concrete). Piuttosto ciò che appare un’antinomia è che l’assetto
predatorio (a parte il caso-limite dell’occupatio
militare, soprattutto quando esercitata con mezzi barbarici), proprio perché riferito ad un assetto statale, si svolge in un contesto
istituzionale (come gli altri due). Il quale, come scriveva Hauriou è per sua
natura ispirato alla durata, essendo questo carattere (e funzione) peculiare
dell’istituzione.
Ma, anche in
un’istituzione politica la sospensione del diritto è ricorrente e prevista
dall’ordinamento. Il Gouvernement de fait
del giurista francese, il Massnamezustand
di Schmitt,
lo justitium romano
sono tutte situazioni concrete in cui la sospensione del diritto può consentire
l’assetto predatorio e ancor più, l’esercizio di pratiche predatorie.
5. Il risultato complessivo. – Sotto il
profilo quantitativo ciò che connota
l’assetto predatorio rispetto al parassitario è il risultato complessivo. Anche
qui nel secondo l’esigenza di durata dello sfruttamento ne presuppone una certa
tollerabilità. E nessun fatto la
rende tollerabile quanto il successo,
in particolare sotto il profilo economico. Lo sfruttamento in un assetto
parassitario può essere notevole, nel senso che le risorse della comunità
destinate al sostentamento della classe dirigente, del di essa aiutantato
e delle clientele preferite costituiscano
una percentuale rilevante e perfino maggioritaria di quelle prelevate, ma
comunque essere tollerato se la comunità è in crescita economica. Ma non lo è
se questa non c’è, o si riduce di guisa da far arretrare, in un mondo dove
altri Stati crescono in misura superiore, le chances di vita e d’esistenza comunitaria e individuale. Proprio
questo è quello che è accaduto all’Italia della c.d. “seconda Repubblica”. Se è
vero che la c.d. “prima Repubblica” aveva, in particolare dagli anni ’60 in
poi, accentuato il “modello distributivo” della ricchezza, rispetto al “modello
produttivo” prevalente dal primo dopoguerra fino all’inizio degli anni ’60, ciò
avveniva in un contesto in cui vi era sempre accrescimento della ricchezza, in
misura – per lo più – superiore (nella peggiore delle ipotesi pari) a quello
degli Stati più simili per caratteri politici, economici e culturali (e
geografici).
Se invece andiamo
a vedere le statistiche del PIL a partire da metà degli anni ’90 ad oggi
l’andamento è il contrario. Limitando l’esame ad alcuni grandi Stati europei
occidentali (i più simili, secondo il criterio appena ricordato) il risultato è
il seguente (periodo 1995-2014)
Incremento PIL
Svezia 41,7%
Francia 20,7%
Germania 28,7%
Spagna 23,9%
Grecia 13,5%
Portogallo 19,1%
Italia 1,9%
Anche altri dati
concordano al medesimo (sconfortante) andamento: la pressione fiscale nel 1990
era pari al 38,2% del reddito nazionale, nel 2014 al 44,2%. In tutti gli anni
dal 1992 al 2014 (e dopo) si è mantenuta al di sopra del 40%.
Tanto per fare un
confronto con la prima Repubblica, nel 1980 la pressione fiscale era pari al
31,8% del reddito nazionale. In tutti gli anni fino al 1991 è stata inferiore
al 40%, mediamente si aggirava intorno al 30% o poco più. Quindi tra “prima” e
“seconda” repubblica l’aumento medio
della pressione fiscale è cresciuto di circa il 40% (dal 30-32% al 42-44%).
Negli anni ’51-63 (il boom economico)
il PIL italiano crebbe da circa 14.000 miliardi di lire a 31.261 con incremento
annuale medio del 5,9% (quello della Francia era il 4,4%); i consumi italiani
quasi raddoppiati; gli investimenti triplicati.
È penoso confrontarli con i dati corrispondenti della seconda repubblica.
Anche se la “prima
repubblica” è stata liquidata come se fosse stata l’agostiniano governo di una
banda di briganti (latrocinium),
bisogna prendere atto che ha prodotto molti più benefici e molti meno danni
della seconda.
Risultati così
deludenti, protratti per un lungo lasso di tempo (oltre vent’anni) possono
costituire criterio di distinzione tra assetto predatorio e parassitario. In
effetti mentre in quest’ultimo l’aumento dello sfruttamento si accompagna ad un
aumento della ricchezza a disposizione dei governati, nel primo si riduce:
prendendo come base i dati citati per l’Italia ad un aumento del reddito
nazionale di 1,9% in vent’anni corrisponde un incremento della pressione
fiscale di circa 6 punti percentuali.
Dato che l’aumento
della ricchezza è stato dell’1,9% e la pressione fiscale del 6%, ne consegue
che la ricchezza dei governati è diminuita di circa 4 punti di PIL. Se poi si
considera che l’aumento medio dei paesi simili è stato di circa il 25%, si ha
dimensione di un arretramento relativo
(rispetto al resto dell’Europa e ancor più del mondo) assai peggiore con un
pesante effetto sia sulle aspettative dei cittadini che sulle pretese della
comunità nazionale, come confermato da vicende non solo nazionali, né
esclusivamente economiche.
Nella realtà
attuale è dubbio se in cuor loro, i governanti non si interroghino sulla durata
di un sistema che ha tenuto l’Italia in recessione (o stasi) economica, ferma per
un periodo ventennale, ma con un carico fiscale crescente.
A continuare così
la fine – nel lungo periodo – è sicura. Per cui a seguire tale criterio saremmo
transitati (da vent’anni) dal “parassitario” al “predatorio”. ↑ Top.
6. La difesa giuridica. – Ma del pari
anche la difesa giuridica, sulla carta garantita dalla Costituzione e dalla
legislazione meno recente si è ridotta e va riducendosi ancora di più. Certo
una difesa giuridica c’è, ma sempre più difficile, inefficace e costosa. Norme
sostanziali e processuali sono state emanate per attenuarla; quelle a favore
dei governati sono disapplicate o poco applicate da una burocrazia che, come
scriveva Marx, tende a confondere l’interesse pubblico col proprio interesse di
casta; le prestazioni dello Stato (i pagamenti ai creditori soprattutto) sono
sottoposti a intralci, sospensioni, rinvii ex
lege di ogni tipo, mentre quelli degli apparati pubblici se non facilitati,
almeno sono esonerati dai vincoli imposti ai privati. ↑ Top.
7. Circostanze coadiuvanti. – Alla
configurazione dell’assetto predatorio hanno concorso e concorrono altre
circostanze. In primo luogo l’estensione dei poteri pubblici. È inutile
ripetere tutte le argomentazioni portate in tal senso, perché è evidente
l’aumento dei compiti, del personale e delle funzioni pubbliche nel c.d. Welfare State. Ciò sposta il limite tra
pubblico e privato (a favore del primo e a detrimento del secondo). Come
scriveva Gaetano Mosca, l’efficacia della difesa giuridica dei governati è
legata a condizioni fattuali – prima
che normative – tra le quali la diffusione della ricchezza e soprattutto la non
concentrazione della “direzione della produzione economica, la distribuzione di
essa ed il potere politico” nelle stesse persone
Anche se la
concentrazione di potere economico e politico ha come caso estremo il comunismo
del XX secolo (e i precedenti storici, anche se non così conseguenziali, nelle
“società idrauliche” studiate da Wittfogel), uno Stato che preleva il 50% del
reddito nazionale ha un potere e una capacità di clientelizzazione della società superiore a un altro che ne preleva
il 20%. Ancor più se, con mezzi diretti o indiretti cerca di rendere più
difficoltoso e al limite inutile l’esercizio di pretese giuridiche contro gli
apparati pubblici, riducendo gli ambiti di libertà, già quantitativamente ridimensionati dall’incremento dei compiti
pubblici.
Il secondo
elemento qualitativo che aumenta il
potere pubblico è che questo è indissolubilmente legato all’esercizio di
potestà coercitive. Ad adottare la terminologia di Miglio, se si estende
l’ambito dell’obbligazione politica, in pari misura si contrae quella
dell’obbligazione-contratto. Malgrado la diffusione in Italia di
“contrattualizzazioni” di funzioni e servizi pubblici, con l’adozione di
strumenti privatistici in settori della pubblica amministrazione, resta il fatto
che la decisione su cosa debba essere pubblico e, soprattutto, su come
approvvigionare le risorse per compiti “contrattualizzati” (a tacer d’altro)
sono decisioni pubbliche, imposte autoritativamente e così riconducibili al rapporto
di comando/obbedienza (presupposto del politico). Per ridurre un’obbligazione
politica ad obbligazione-contratto occorre rimetterne costituzione,
modificazione, estinzione alla volontà paritaria
dei “contraenti”; quando le funzioni contrattualizzate, “privatizzate” (e così
via) saranno finanziate con collette, (o con rendite patrimoniali pubbliche) e non con le tasse, solo allora non vi sarà
più obbligazione politica (e relativamente a queste).
Il che a ben
vedere, è estremamente difficile, in uno Stato moderno in cui comunque
l’aumento di compiti e funzioni rispetto alle meno voraci sintesi politiche del medioevo è enorme, anche senza arrivare allo
Stato “totale” del XX secolo. ↑ Top.
8. L’appropriazione politica. – Piuttosto, al fine
di ridurre l’appropriazione politica – e con ciò la possibilità di predazione – occorre riflettere su un
dato ovvio.
Quasi tutti i
manuali di diritto pubblico iniziano indicando come criterio distintivo di
quello dal diritto privato, la posizione di non eguaglianza tra le parti,
diversamente dal diritto privato dove sono in posizione di parità.
Un acuto giurista
come Hauriou riconduceva i due diritti (e le due giustizie che ne derivano,
almeno nel diritto continentale) a due aspetti dell’esistenza e della natura
umana: il primo, al diritto dell’istituzione, ovvero alla regolarità per cui
l’uomo è zoon politikon e
“appartiene” ad un gruppo politico e sociale (droit disciplinaire). ↑
Top.
Tale diritto e la
relativa giustizia (Themis) è
connotato dall’ineguaglianza tra i
soggetti governanti e governati. L’altro, fondato sulla naturale socievolezza
umana, è basato sull’eguaglianza tra soggetti e genera una giustizia paritaria (dike). ↑ Top.
A conferma del
carattere decisivo dell’eguaglianza o meno, se si va ad analizzare le
modificazioni normative (alcune prima citate in nota 10) che portano alla “provvedimentalizzazione”
ed alla “gerarchizzazione” dell’ordinamento, queste sono tutte volte ad
accentuare il carattere non egualitario
delle parti nelle obbligazioni relative.
La non-eguaglianza
(tra parti pubbliche e private) nel diritto pubblico non si limita al carattere
principale del costituire precetti validi in base a decisioni unilaterali –
mentre nel diritto comune sono di norma, contrattate
e bilaterali – ma, perfino in
rapporti teoricamente egualitari,
nell’assicurare privilegi o deroghe a favore della parte pubblica e a
detrimento di quelle private. Il caso più diffuso e ricorrente sono le sanzioni
tributarie: il contribuente che ritarda od omette il pagamento delle imposte è
soggetto a sanzioni, sovrattasse, indennità di mora: l’ufficio che non rimborsa
o ritarda il rimborso d’imposte indebitamente o erroneamente percette, no (al
massimo rischia – ma è azione giudiziaria difficile) di pagare dei danni. Danni
che, a differenza delle sanzioni tributarie, il cui presupposto è il mancato o
ritardato adempimento, vanno provati (non basta cioè aver commesso il fatto
illecito, occorre dimostrare che abbia depauperato il patrimonio del
creditore). In altri settori leggi, come la c.d. Legge-Pinto (con le
modificazioni apportatevi nel 2012) sanzionano il cittadino che abbia proposto
un’azione giudiziaria infondata contro lo Stato: ma nessuna norma sanziona specificamente gli uffici statali se
perdono la relativa vertenza. Altre leggi prescrivono sanzioni spropositate: ad
esempio nelle imposte di bollo e registro la sanzione va fino al triplo dell’imposta di registro e fino
al decuplo per quella di bollo (v.
D.P.R. 634/72 e 642/72). Ma se succede il contrario i pubblici poteri possono
contare sulla sollecitudine amorevole
del legislatore: se questi commettono illeciti, l’esborso dell’erario non è
pari al danno provocato, ma ad una frazione del medesimo.
↑
Top.
Quindi se non del
tutto predatorio, l’attuale situazione vi s’incammina ed è a buon tratto.
Quali rimedi? Ve
ne sono tanti. Ma due vogliamo ricordarne. Il primo del tutto economicistico,
che indicava Maffeo Pantaleoni “Quando si dimostra che l’impiego della forza
nella spogliazione predatoria o parassitaria può essere così costoso da rendere
più utile il contratto … che rimarrà della superiorità di forze, quando il suo
esercizio sarà sottoposto alla condizione di comportare un tale costo da
rendere ogni altro sistema più remunerativo? Il costo, che è connesso con
l’esercizio di mezzi violenti di aggressione o di dominazione, va,
evidentemente, messo tra i mezzi di difesa del gruppo più debole, e può
renderlo altrettanto forte quanto il gruppo che sarebbe più potente,
nell’ipotesi in cui l’impiego della sua forza costasse meno, o nulla”.
Similmente ragionava
Puviani (all’inverso, per il rapporto tributario) parlando di spinta e controspinta contributiva a
seconda che la soddisfazione data dal pagamento dell’imposta fosse superiore o
meno al vantaggio atteso dal contribuente. ↑ Top.
In modo analogo
occorre che la spinta appropriativa
dei poteri pubblici venga compensata da una controspinta
ottenuta con sistemi sia giuridici che politici. L’altro è ridurre l’ambito
delle disuguaglianze nel diritto, facendo operare, per quanto possibile, le
parti su un piede di parità. Incrementare così l’ambito del droit commun (dike) a spese del droit disciplinaire (thémis). Il che non
significa “contrattualizzare”, costituire “agenzie” e altri espedienti con cui
si cerca spesso solo di mettere in maschera la non parità tra soggetti pubblici
e privati.
Ad essere più
precisi le distinzioni tra diritto pubblico e privato sono varie, come sa
qualsiasi studente di giurisprudenza, e spesso complementari. Quella relativa
alla non parità delle parti è tra le più frequentate: va da Hegel ai siti
presenti su internet. Spesso è definitita (dal lato attivo) potestà d’impero
(Balladore Palieri, Ranelletti), attributo necessario dello Stato.
↑
Top.
Il che significa
di far costare di più l’esercizio del potere (impositivo, in particolare)
eliminandone o riducendone i privilegi. E rammentando che il costo per i governanti
non è solo economico: mandarli a casa e sostituirli con un'altra classe
dirigente, significa sottrargli le pecore che mungono.
Teodoro
Klitsche de la Grange
NOTE - ↑
Top.
Si riportano
alcuni passi di Balladore Palieri sul punto “ quando si parla della potestà
d’impero come di uno degli elementi essenziali dello Stato, si intende dire che
l’ordinamento giuridico, affinchè gli spetti la qualifica di statale, deve
prevedere e porre delle autorità che esercitino un imperium. Se non possiede anche questo carattere, oltre a quelli
innanzi ricordati, l’ordinamento in questione, qualunque altra cosa sia, non è
un ordinamento statale … L’ordinamento giuridico cioè deve istituire un
apposito apparato onde realizzare le finalità per le quali è stato creato, e
questo apparato deve essere provvisto di autorità, di impero sui consociati. È
questa una conseguenza della stessa struttura dell’ordinamento” V. Dottrina dello Stato, Padova 1958, p.
250-251