Teodoro Klitsche de la Grange
LA RESURREZIONE DELLA NAZIONE
1. A parafrasare Marx la vecchia talpa ha scavato ancora (e gli europei se ne sono accorti). Dopo un dopoguerra connotato da un tendenziale rifiuto del nazionalismo e parimenti da un ottundersi – a livello di massa – del senso realistico della politica (questo anche per le esternazioni delle élites dirigenti) l’Europa va riconvertendosi a una tendenza nazionalista.
E’ questa la chiave di lettura che molti propongono e deriva in gran parte dalle costanti affermazioni elettorali dei partiti, fino a poco tempo fa chiamati xenofobi e/o populisti, - cui è preferibile il termine identitari - tutti connotati dal senso della specificità e irrinunciabilità della nazione.
Così quando si legge sui giornali che il premier aspira a un partito della nazione e che il duo Salvini – Meloni intende costituire un raggruppamento denominato “Lega nazionale” (o qualcosa del genere), si ha da un lato la percezione di un astuto salto dei partiti sul treno che corre, dall’altro - e anche per questo - è evidente che il treno per l’appunto va di buona lena (non è detto che l’andatura sia gradita ai macchinisti). Ma cosa ha fatto sì che la nazione, la quale doveva essere un idea da metter via nel ripostiglio della storia, ha avuto una resurrezione – prima a livello di common sense, poi elettorale?
In realtà, e a parte il fatto che il “nazionalismo”, nel mondo ex coloniale (ma non solo) non è mai stato collocato in quiescenza, giacché nel XX secolo di lotte ispirate alla volontà di costituire istituzioni nazionali lì ne abbiamo viste tante, in Europa la rinascita è cominciata col crollo del comunismo. Allora divenne palese che l’ideologia comunista (cosmopolitica ed universalistica) e la prassi del socialismo reale non avevano sostanzialmente mutato nulla delle vecchie “linee di faglia” tra i gruppi nazionali (e spesso etnici) degli Stati che crollavano: la Jugoslavia con diverse guerre; l’Unione sovietica con guerre limitate (grazie al cielo!); la Cecoslovacchia con una separazione consensuale, pacifica quanto ferma. Non è un caso quindi che partiti nazionalisti e populisti siano sovente andati al governo da anni nei paesi ex-comunisti, anche quelli, come Polonia ed Ungheria, che non hanno avuto il trauma di secessioni. E contemporaneamente, con un certo ritardo cresceva la “presa” dei partiti analoghi in Europa occidentale, anche se le cause erano, in larga misura, diverse. Che è quasi superfluo enumerare: l’immigrazione crescente; la sfiducia in classi politiche logorate; il venir meno della vecchia contrapposizione amicus-hostis (cioè borghese/proletario) e così destra/sinistra (almeno come definite fino a ieri) e quindi dei partiti la cui ideologia ne era connotata; la globalizzazione; la finanziarizzazione dell’economia; e non ultima, la predominanza dell’economia sulla politica, ed ancor più l’illusione tecnocratica – molto spesso propagandata rumorosamente quanto, passata la sbornia mediatica, confermatasi frutto d’utopismo (1).
Infine, come detonatore, la crisi economica.
Resta il fatto che nazione e globalizzazione (cosmopolitismo) designano polarità opposte; e che tale polarità è iniziata a diventare discriminante del politico cioè della coppia amicus/hostis. A differenza del nazionalismo vintage, per cui il nemico è (un) altra nazione (Francia c/Germania; Inghilterra c/Francia e così via) qua il nemico non è una nazione e le ragioni di tale inimicizia sono in parte (modesta) diverse, in altra uguali.
Scriveva Hegel che il nemico è la differenza etica (in rapporto alla eticità assoluta) “Una differenza siffatta è il nemico; e la differenza, posta in relazione, sussiste nel contempo come il proprio contrario, come il contrario degli esseri opposti, come il nulla del nemico, e questo nulla equivalente da entrambi i lati è il pericolo della lotta. Questo nemico può essere, per l’elemento etico, soltanto un nemico del popolo ed esso stesso un popolo. Presentandosi qui la singolarità, è per il popolo che il singolo si espone al pericolo della morte” (2), e riferendosi alla situazione a lui contemporanea specifica che il nemico è “esso stesso un popolo”. Hegel con queste poche righe fornisce un criterio utile per capire la differenza tra il nazionalismo di ieri e di oggi, e ciò che tra quello passato e l’odierno sono le differenze (e le concordanze).
2. A tale proposito occorre specificare cos’è la nazione. La letteratura è assai abbondante, ma l’esposizione più sintetica ed esauriente l’ha data Renan nella celebre conferenza “Qu’est ce qu’une nation?”.
Questi dopo aver iniziato a escludere cosa sia nazione (dalle polis agli imperi antichi e medievali, anche non europei), proseguiva indicando quegli elementi che non sono decisivi a costituirla, ancorchè abbiano un ruolo costituente importante ancorchè non esclusivo (come la dinastia; la forma politica; la razza; la lingua; la religione; la comunanza di interessi) (3).
E dopo aver “esaminato ciò che non può bastare a creare un tale “principio spirituale”: la razza, la lingua, gli interessi economici, l’affinità religiosa, la geografia, le esigenze militari, si chiede “Cos’altro è dunque necessario?” e scrive che “Una nazione è un anima, un principio spirituale.
Un passato eroico, grandi uomini e gloria (mi riferisco a quella vera), ecco il capitale sociale su cui poggia un’idea nazionale. Avere glorie comuni nel passato e una volontà comune nel presente: aver compiuto grandi cose insieme e volerne fare altre ancora: ecco le condizioni essenziali per fare un popolo” (4). E chiudendo questa prima parte riassume “Una grande aggregazione di uomini, sana di spirito e generosa di cuore, crea una coscienza morale che si chiama nazione”.
Il nazionalismo sviluppatosi dal finire del XIX secolo, diversamente da quello statu nascenti - il quale risentiva (ed era relativizzato) dalle radici cristiane dell’Europa e dalle ideologie rivoluzionarie (e post-rivoluzionarie) come la liberale, la democratica e la socialista - aveva un carattere aggressivo e imperialistico, in un primo momento; cui in un secondo tempo – nel nazifascismo – aggiungeva il connotato razzista, distintivo e determinante, almeno per il nazionalsocialismo.
Diversamente da come viene considerato molto spesso a livello dei mass-media, volti a fare di ogni erba un fascio, tra il concetto di nazione dell’abate Sieyès, quello di Corradini e ancor più la Volksgemeinschaft di Rosenberg, non c’è molto da spartire.
Il primo aveva un carattere essenzialmente “identitario” e “sovranista”, e non aggressivo (ma la pratica iniziò a mutare già nel corso della Rivoluzione francese); il secondo era già aggressivo e imperialista; il terzo a ciò aggiungeva il razzismo (e non solo). Nell’immaginario molto spesso propagandato nel secondo dopoguerra invece, tra nazionalismo “vecchio stile” e quello post-Renan non ci sarebbero distinzioni essenziali.
3. Invece vi sono. In primo luogo il carattere storico e composito dell’identità nazionale (e non biologico e razzista). Secondariamente quello difensivo e non aggressivo; per cui l’(esigenza d’)indipendenza, nel senso – ovvio – che questa non è da intendersi come ostilità nei confronti delle altre sintesi politiche, ma come difesa da ogni tentativo di far dipendere la volontà nazionale da altre. Le quali, per svariate ragioni – alcune più chiare– non possono essere nazionali.
In terzo luogo la conseguenza sulla forma politica, sull’ordinamento.
Il vecchio nazionalismo si basava sulla comunità di citoyens che proprio perché tali esercitavano determinati diritti – ed avevano doveri – inerenti al relativo status di cittadini, diversi da quelli riconosciuti a tutti gli uomini, non appartenenti alla comunità (questi ultimi prevalentemente di carattere “privato” quanto i primi “pubblico”).
Altre conseguenze v’erano per la forma politica, onde questa era “conformata” più dall’appartenenza alla comunità di stirpe, e quindi dal carattere decisivo della comunità – anche rispetto all’organizzazione statale (5).
Quindi aggressività, xenofobia, razzismo non appartengono essenzialmente e normalmente al nazionalismo; ma piuttosto sono connotati specifici di qualche “specie” di questo. In fondo una sintesi non esauriente ma efficace del nazionalismo d’antan la formulava Mazzini nel “Manifesto del comitato nazionale italiano” (del 4 luglio 1849, ma stampato l’anno successivo) in cui si può leggere “Che nessun governo è legittimo se non in quanto rappresenta il pensiero nazionale del popolo alla cui vita collettiva presiede, ed è liberamente consentito da esso”. In effetti questa è l’essenza della libertà politica nel senso più antico, ossia come libertà di una collettività umana di decidere autonomamente l’ordinamento della propria esistenza politica, economica e sociale.
4. Il revival nazionalista è in primo luogo spiegabile dalle differenze con l’ideologia cosmopolita, dei diritti dell’uomo, del pacibuonismo “a prescindere”, della tecnocrazia, e, da ultimo, della prevalenza del normativo sull’esistente e dal rigetto di tutto questo, o quanto meno dalla di esso relativizzazione. Il fenomeno covava da tempo.
La crisi economica, principalmente, ne è stata il detonatore (in Europa, dopo la Francia); ed ha reso evidente che, neppure sul piano prediletto dal pensiero dominante, ossia quello economico, le scelte delle elite dirigenti europee risultavano vincenti. Contrariamente ai primi decenni del secondo dopoguerra, dove le decisioni politiche (e istituzionali), spesso di corto respiro, erano comunque “coperte” dagli incrementi del PIL e così dal miglioramento del tenore di vita delle popolazioni, la crisi ha rivelato il “Re nudo”.
Ovviamente il cosmopolitismo con la sua (auspicata) abolizione di tutte le frontiere (spaziali, e non solo), è esattamente l’opposto di quello che ha sostenuto il nazionalismo, da quando si è profilato quale dottrina – e poi ideologia. Anzi si potrebbe definire il nazionalismo come la dottrina/ideologia delle frontiere. È ovvio per quelle politiche; parimenti per quella giuridica (6); lo stesso quella culturale; quella economica (e politica) trova già nella prima metà del XIX secolo la propria formulazione filosofica in Fichte e quella economica con List. Per cui l’opposizione ideale e politica tra nazionalismo e globalizzazione non potrebbe essere più netta.
Date tali opposizioni è chiaro che il processo di globalizzazione, accelerato dopo il crollo del comunismo, ha provocato o comunque amplificato, per contrapposizione, la controspinta nazionalista, nel senso indicato. In effetti, a riprendere le considerazioni di Hegel, sopra ricordate, la globalizzazione nega le differenze (tra comunità umane prima che tra uomini) (7), cioè lo stesso fondamento d’identificazione del nemico, secondo il filosofo. Se ciò fosse possibile la conseguenza coerente sarebbe che la stessa globalizzazione non dovrebbe avere nemici: invece proprio (e non solo) il caso del revival nazionalista lo prova, i nemici li ha. E sono coloro i quali non vogliono vivere in un mondo globalizzato, senza differenze.
La dialettica amico/nemico si propone quindi come negazione/opposizione tra chi vuole conservare la propria specificità (o identità) e chi la vuole sopprimere, o quanto meno, relativizzare.
5. La novità rispetto alla vecchia opposizione (dai tempi di Hegel e almeno fino alla prima guerra mondiale) è che questa non vede contrapposti popoli contro popoli, Stati nazionali contro Stati nazionali, per cui il nemico nel sistema westphaliano può essere tale solo in quanto Stato. Nel corso del XX secolo, e ancor più all’inizio di questo, il nemico, per lo più, non è uno Stato, al limite non è neppure una istituzione (compiutamente) politica, ma può essere qualcos’altro: una lobby, una setta, un partito, un gruppo religioso e così via.
L’indeterminatezza che è una delle caratteristiche concettuali dell’ideologia globalizzante si riflette sul soggetto globalizzatore.
Ciò è, in qualche misura, ovvio, anche perché v’è l’interesse di questo ad occultare se stesso e i meccanismi di dominio (che porta, anche senza volerlo, prima o poi alla responsabilità). Proprio il non essere (compiutamente) politico, ma di agire come potere indiretto (nel senso della potestas indirecta del Papa della teologia politica neo-scolastica) (8), occulta la responsabilità; peraltro il carattere non-statale del nemico (con assenza di territorio, popolazione e dominio responsabile) lo rende meno vulnerabile (9).
Il nemico post-westphaliano ha quindi le caratteristiche dell’indeterminatezza e dell’inafferrabilità, cui conseguono (in larga misura) irresponsabilità e invulnerabilità. D’altra parte deriva dallo stesso principale carattere della globalizzazione che il nemico non (ri)conosca frontiere e appartenenze onde il carattere di “esterno” è ampiamente ridimensionato: il nemico è esterno come interno e così i mezzi che impiega sono interni più che esterni. La componente psicologica della guerra (e, a monte, dell’ostilità) è ampiamente sfruttata, anzi è quella decisiva.
Infatti se non si combatte (o si combatte limitatamente) l’essenziale per conseguire il fine politico (ossia di piegare la volontà dell’avversario) è di togliergli l’intenzione di combattere (10). Renderlo così arrendevole (e domabile).
D’altra parte la scarsa chiarezza nel connotare concetti come guerra e ostilità e l’uso corrente di delimitare la prima all’uso della violenza ha fatto dimenticare la massima di Sun-Tzu che “ottenere cento vittorie su cento battaglie non è il massimo dell’abilità: vincere il nemico senza bisogno di combattere, quello è il trionfo massimo” (11).
I mezzi classici della politica sono la forza e l’astuzia (la volpe e il leone di Machiavelli); pertanto ottenere lo scopo politico usando molto più della seconda che della prima non fa si che lo scopo, cui l’uno e l’altro mezzo sono strumentali, non sia il medesimo: il dominio. In genere relativo e limitato sulla comunità avversaria e quindi la prevalenza della propria volontà su quella del “vinto”.
8. La globalizzazione è volta non solo ad annullare le differenze ma a modificare il presupposto specifico della democrazia, cioè l’omogeneità (del popolo e dei cittadini). Senza la distinzione tra questi (e i non cittadini) si rimuove (o si spera di eliminare) quasi del tutto il presupposto dell’amicus/hostis (12).
Il crollo del comunismo, ed in particolare dell’URSS, dimostra, da ultimo, il contrario anche se, nel pensiero marxista l’opposizione amico/nemico sussisteva ed era determinata dalla scriminante di classe. Ogni borghese era nemico, ogni proletario amico, indipendentemente da religione, nazionalità, etnia.
Il comunismo credeva – anche nelle sue affermazioni costituzionali – di aver «risolto» il problema delle nazionalità relativizzando le contrapposizioni e le differenze etniche e di cultura nell’omogeneità di una repubblica socialista formata solo di cittadini lavoratori. La comune identità di lavoratori doveva essere il mezzo per superare le differenze nazionali. Ad un tempo era questa (presunta) omogeneità a costituire la base della comunità e la differenza decisiva rispetto agli Stati “borghesi”. Si ricostruiva così nella dialettica tra lavoratori e borghesi il rapporto decisivo amicus-hostis. Tutti «amici» (perché proletari) slavi, turchi e baltici, uniti nello Stato sovietico: nemici, quanto meno potenziali, tutti gli altri Stati.
A seguito dell’implosione dell’URSS le differenza etniche riemergevano. I baltici si sentivano omogenei ai baltici, i ceceni ai ceceni, gli ucraini agli ucraini (e si potrebbe continuare anche con le scriminanti religiose). Il fondamento dell’omogeneità politica, che sostiene la democrazia come forma di Stato, tornava e torna ad essere l’identità culturale e nazionale (e non la differenza di classe). E’ questa a costituire il raggruppamento decisivo, e non la cittadinanza proletaria. Il popolo sovietico e proletario non esisteva più, meglio non era mai esistito. Pensare di aver costituito un’unità politica senza un popolo inteso come unità concreta, come gruppo di uomini consapevoli di una medesima appartenenza e di un comune destino, si rivelava illusorio. Tale sistema aveva retto (per qualche decennio) proprio perché non era democratico ed aveva sostituito l’autocrazia zarista con la dittatura. Questa si fondava sul ruolo guida del PCUS (da ultimo confermato nella Costituzione sovietica del 1977 all’art. 6); sul centralismo democratico (art. 3) e, ovviamente, sul partito unico. Sistema “saltato” quando è stata fatta – nei modi che sappiamo, la scelta dell’indipendenza delle repubbliche a sua volta fondata sul regime democratico (e pluripartitico) di gran parte di esse.
Si è confermato così che un elevato tasso di disomogeneità è tollerato e sopportabile solo in Stati autocratici e dispotici o comunque non democratici, e la storia ne offre tanti esempi. Dall’impero achemenide a quelli dei diadochi, fino a quello romano e, avvicinandosi al mondo contemporaneo (con gli imperi carolingio, arabo, mongolo) e poi quelli ottomano, zarista, le monarchie assolute europee fino ai totalitarismi del XX secolo, poteri autocratici hanno potuto guidare imperi multietnici e con comunità religiose molteplici. Le enormi diversità, ad esempio tra monarchie feudali (poi assolute) e dispotismi orientali avevano comunque il punto in comune di non essere democratici, ma monarchici o aristocratici.
Ma niente di simile si è mai visto quando le sintesi politiche erano democrazie, pur nelle enormi differenze tra polis antiche e democrazie liberali contemporanee. La storia delle istituzioni prova che un insieme di popoli, etnie e gruppi sociali non può essere governato con sistema democratico.
A fare qualche esempio ci conforta la storia romana: l’evoluzione da repubblica a impero fu necessitata dal fatto che gli elementi di democrazia esistenti nella costituzione repubblicana dovevano essere eliminati – come furono – nell’ordinamento imperiale perché rendevano ingovernabile la sintesi politica, come dimostrato dalle convulsioni costituzionali nell’ultimo secolo della repubblica. Venendo ai tempi moderni, nell’analisi delle conseguenze (e significato) dell’imperialismo (e dell’Impero) inglese del XX secolo. J. Hobson scriveva criticando la teoria che “la nostra politica imperiale e coloniale è animata dalla volontà di diffondere in tutto il mondo le arti del libero autogoverno di cui godiamo in patria”; invece “alla vasta maggioranza dei popoli del nostro impero noi non abbiamo attribuito alcun vero potere di autogoverno, né abbiamo alcuna seria intenzione di farlo, né d’altra parte crediamo seriamente che sia possibile farlo” (13). Non solo la democrazia ma neppure l’autogoverno era facilmente praticabile (e praticato). Per cui l’economista inglese scriveva “La libertà politica e la libertà civile che da essa dipende, semplicemente non esistono per la stragrande maggioranza dei sudditi britannici” (14).
D’altra parte anche nei regimi autocratici e dispotici c’è (in genere ma non sempre) un’“eguaglianza” anche senza omogeneità presupposta: è quella di fronte al potere e alle di esso facoltà di comando e (in particolare) sanzionatorie: dalla pena di morte in giù. Eguaglianza apprezzata dai giustizialisti di casa nostra.
In effetti un potere che eserciti il comando, ma senza la responsabilità e i limiti della democrazia è proprio quello che si profila all’orizzonte della globalizzazione.
7. Hauriou distingueva all’interno del diritto istituzionale (che separava dal diritto comune) il diritto disciplinare (disciplinaire) da quello statutario (statutaire).
Il primo basato sulla coercitio (cioè sulla possibilità di esecuzione forzata, e quindi sulla forza), inseparabile da atti e misure dell’autorità. Il secondo che “rappresenta (répresente) l’interesse del gruppo espresso dall’adesione individuale… alle procedure collettive della vita corporativa” (15). Diritto disciplinare e statutario “fanno da contrappeso l’uno all’altro, e questo equilibrio delle regole di diritto è un elemento dell’equilibrio totale delle forze che sostengono l’istituzione” (16).
D’altra parte, mentre nello Stato democratico-liberale la conformazione del medesimo è tale da tutelare, come aveva scritto Montesquieu, la libertà politica, non è chiaro come possa essere assicurata in difetto sia delle norme e procedure “statutarie” – prevalentemente legate ai diritti di cittadinanza e, specificamente alla partecipazione dell’esercizio del potere, sia dell’assetto generale dello Stato. Come sosteneva Montesquieu è “par la disposition des choses” che è garantita la libertà politica (soprattutto attraverso la distinzione dei poteri). Pretendere di supplirla con qualche Tribunale internazionale e che questo sia un liberalismo sufficiente è un’illusione (estremamente) riduttiva delle garanzie dello Stato liberale democratico e della relativa conformazione.
Dove invece Tribunali internazionali – almeno quelli competenti in diritto privato (internazionale) - possono avere utilità è per l’appunto nel tutelare diritti di natura privata, lo jus commercii in primo luogo. Il diritto che Maurice Hauriou chiamava droit commun, basato non sull’appartenenza del singolo alla comunità (e all’istituzione) ma sulla naturale socievolezza umana: diritto “ch’esisteva prima della città, ossia prima dello Stato… il quale non fu mai inerente all’istituzione dello Stato…” (17).
Il costituzionalismo moderno è stato pensato e costruito per (e intorno) allo Stato moderno e funziona presupponendo (e servendosi) di quello. Anche i libertari più estremisti, quelli che auspicano lo Stato solo come guardiano notturno, comunque presuppongono lo Stato e, quale metronotte, gli affidano il compito di tutelare i diritti: la libertà e la proprietà, in primo luogo, dei cittadini. In definitiva confermano la concezione di Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta” (18). Senza lo Stato moderno non c’è né realtà, né libertà, né concretezza (19).
8. Quanto alle Corti globali, che avrebbero “superato” il detto di Hegel che “non c’è Pretore tra gli Stati”, occorre rilevare che S. Cassese scrive che le Corti globali (cioè internazionali) sono strumenti di garanzia (20).
Il numero delle Corti globali “è cresciuto rapidamente dal 1990. Prima di quella data vi erano solo sei Corti. Negli ultimi quindici anni, quindici nuovi meccanismi permanenti di aggiudicazione e otto tipi di procedure quasi giurisdizionali sono stati introdotti ex novo. Prima del 1990, nell’ordine giuridico globale vi era diritto senza che vi fossero giudici” (21).
Tuttavia occorre considerare due cose, quanto alla globalizzazione del diritto e soprattutto all’espansione di competenze - e potere - dei Tribunali internazionali.
La prima che se si va a vedere le attribuzioni di (quasi) tutte le Corti istituite, queste concernono il diritto privato, o meglio il droit commun di Hauriou: sono strumenti per decidere controversie che, come scriveva il giurista francese, sono riconducibili alla naturale socievolezza dell’uomo. Quasi mai sono oggetto della cognizione giudiziaria internazionale condotte ed atti che rientrano nel diritto pubblico e ancor più in quello politico (22).
Tale proliferazione di trattati, Corti e agenzie internazionali ha quale connotato che le materie rientranti (negli accordi e quindi) nelle loro competenze hanno tutte carattere puntuale e tassativo. Non c’è una Corte a competenza generale, né un trattato che preveda soggezione – generale e genericamente determinata – di uno Stato ad un altro Stato o a un'altra istituzione (una sorta di protettorato); né c’è un “governo”.
L’ordine giuridico globale è “privo di un corpo di regole generali e comuni, è, tuttavia, esso sottoposto almeno ad alcuni principi primi, non imposti dall’alto a ciascuno di essi, ma scaturenti da essi stessi, in modo che il sistema globale di governo (la governance) possa non essere considerato un sistema di governo assoluto? In altre parole, esiste una rule of law globale?” (23). La risposta del giurista è affermativa (almeno parzialmente): “Uno degli aspetti dell’ordine giuridico globale che colpisce maggiormente è la rapidità con la quale in esso si sono sviluppati i principi propri dello Stato di diritto: trasparenza, obbligo di ascoltare l’interessato, obbligo di motivare i provvedimenti, riesame giurisdizionale delle decisioni” (24). Tra le spiegazioni che di tale evoluzione vi è che “essa possa spiegarsi a causa della assenza della componente autoritaria nell’ordine giuridico globale: questo si interessa solo marginalmente di ordine pubblico, difesa e di altre potestà sovrane. Quindi, ha minor bisogno di far ricorso a poteri di supremazia, o esorbitanti dal diritto comune” (25).
Una teoria dello Stato, scrive Hegel, parla di Costituzione e di Stato solo se coincide con la realtà. E per far questo occorre che la moltitudine “costituisca un comune apparato militare e un potere statale” (26).
Non è essenziale che questa moltitudine abbia lo stesso diritto, la stessa lingue, gli stessi pesi, misure e denaro (27); né la forma dell’amministrazione; né sistemi fiscali uniformi; e neppure l’unità religiosa. È l’unità in un potere comune ed efficace - cioè in un governo in grado di comandare ed agire con successo - che fa uno Stato (o meglio la sintesi politica).
9. Quindi da un lato c’è, oltre a quella economica, una globalizzazione giuridica; dall’altro identificare il connotato comune e distintivo del diritto globale rispetto a quello “interno” allo Stato richiede qualche considerazione.
In primo luogo diritto globale/non globale non può coincidere con la distinzione tra pubblico e privato; anche se buona parte dell’estensione del concetto di diritto pubblico coincide con quella di diritto “interno” (o meglio di diritto statale); tuttavia è stato notato che da un lato c’è una parte del diritto globale che rientra nel diritto amministrativo (perché consiste di un’attività essenzialmente amministrativa) e quindi una porzione del diritto globale coincide con l’ “estensione” di quello pubblico.
Piuttosto occorre riprendere la distinzione di Hauriou tra droit disciplinaire e droit commun (e relative justices). L’uno generato per e da l’istituzione e che solo nell’appartenenza e nella necessità di questa trova la propria ragione; l’altra espressione della naturale socievolezza umana, e quindi prescindente dalla ragione (e funzione) istituzionale. Un diritto – il primo - che nel précis de droit public Hauriou fa accompagnare dal droit statutaire (28).
Droit disciplinaire e droit statutaire hanno un senso solo in relazione all’istituzione (in primo luogo), al rapporto di comando-obbedienza ed al potere (politico) (29).
In particolare tale diritto è in (stretto) rapporto con l’unità, l’esistenza e l’azione dell’istituzione. Trattandosi dello Stato, dell’istituzione politica per eccellenza dell’età moderna. L’unità è data dall’efficacia del rapporto comando-obbedienza, il quale consente che, come scrive il giurista francese (ripetendo il paragone più volte), senza quello l’istituzione non potrebbe essere ciò che è, ossia un esercito in marcia (ordinato e disciplinato) malgrado le diversità delle situazioni e la molteplicità dei componenti. Tutto questo nel droit commun, diritto “internazionale” o intergroupale per natura, non esiste, perché manca l’esigenza (l’ordine sociale) su cui si fonda.
Come scrive Hauriou il droit commun e le relazioni sociali che vi erano ricondotte sviluppano una giustizia “internazionale” volta ad impedire le lotte – fino alla guerra tra gentes – che potevano nascere tra i vari gruppi gentilizi componenti la civitas. Avevano cioè una funzione non costitutiva/conservativa di una sintesi politica capace d’agire ma di “servizio” pubblico volto a regolare conflitti d’interesse tra appartenenti a diverse gentes. Con ciò il diritto e la giustizia comune era privo di quei caratteri distintivi del diritto istituzionale che lo differenziano da quello che tale non è: generalità (della competenza e delle attribuzioni e, terndenzialmente, dell’applicazione a tutti i componenti del gruppo), conseguenzialità, gerarchia, affermazione e garanzia dell’unità e della totalità, della supremazia dell’istituzione (e dei suoi organi) rispetto ai soggetti, omogeneità di questi.
Il diritto globale è invece connotato dalla specificità, dalla diversità (delle forme e delle norme), dal non avere per natura, l’esigenza dell’unità e della totalità; dall’esservi di conseguenza, una supremazia tassativa, limitata e condizionata (essendo comunque vigente la clausola rebus sic stantibus). Peraltro, e di conseguenza l’“organizzazione” necessaria alla tutela del “droit commun” non ha un carattere generale ma meramente funzionale alle competenze alle riparazioni e agli affari attribuiti.
10. Tale lunga disgressione consente di chiarire il rapporto tra unità politica, di cui la nazione – o meglio la comunità – è l’elemento essenziale e la globalizzazione – o meglio il potere globale e le opposizioni che ne conseguono.
La nazione (e l’istituzione comunitaria) comporta in primo luogo la sovranità e l’affermazione giuridica di questa. Al potere globale, di converso l’uno e l’altra sono un ostacolo, sia perché ne limitano l’azione, sia perché l’autonomia consiste nel diritto delle comunità ad essere differenti, mentre la globalizzazione tende ad uniformare e a limitare le differenze.
In secondo luogo, il potere di comando, sotteso allo stesso concetto (e termine) di droit disciplinaire, manca in quello globale sia della conseguenzialità (talvolta manca del tutto) che delle forme delle riparazioni e degli assetti che assume in quello interno.
Quanto alla conseguenzialità il potere di comando non è riferibile – come nel diritto interno – ad una volontà prevalente (sovrana) che prende (d’autorità) le relative decisioni, ma a fondamento di questa c’è sempre un patto, cioè un trattato, o quanto meno l’esito di una guerra. Anche nelle fasi successive all’accertamento di un obbligo – ad esempio quelle di esecuzione (interna) di una sentenza di una Corte internazionale – l’esecuzione e la modalità di riparazione del diritto violato la conseguenzialità è, per così dire, sfumata.
Di conseguenza la stessa costituzione di un apparato di garanzie è monca e priva di alcune essenziali tra quelle, sopra ricordate, elencate da Jellinek e che presuppongono una forma politica (responsabile) e un’organizzazione articolata.
Ancor più la globalizzazione è incompatibile con la democrazia politica (e, in minor misura con i principi dello Stato borghese, cioè liberali).
Ma relativamente ai principi della democrazia (come forma concreta) l’opposizione non può essere più netta. In una democrazia la legislazione è prodotta – normalmente - per iniziativa o consenso o controllo e quindi per decisione esplicita o implicita di una rappresentanza elettiva. Nel diritto globale – invece – si applicano principi consuetudinari o trattati negoziati da Stati spesso non aventi le caratteristiche minime di democrazia; il tutto attraverso organi ed agenzie internazionali i cui componenti sono nominati dagli Stati o altrimenti, comunque non per scelta dei corpi elettorali degli Stati che si obbligano.
Quanto ai negoziatori e ai funzionari internazionali non esiste (se non, talvolta, in via riflessa e indiretta) il diritto d’accesso alla funzione pubblica (v. art. 51 della Costituzione italiana) che da Pericle in poi è stato ritenuto uno dei capisaldi della democrazia politica (30).
Non c’è neppure l’omogeneità dei governati (e tra questi e i governanti), su cui non si ripete quanto già scritto sopra.
Peraltro come prima già affermato esiste un contrasto insanabile tra un regime politico (com’è la democrazia) che presuppone sempre la possibilità di un nemico esterno e un “ordine” globale il quale presuppone non esservi nemici, o meglio che gli unici nemici siano interni; per cui ogni guerra si trasforma in un’operazione di polizia internazionale.
Il diritto globale consiste in un misto di cosmopolitismo ed individualismo, mentre la democrazia politica pur facendosi carico – almeno se allineata ai principi liberali – sia dei diritti del cittadino che di quelli dell’uomo, li concilia con le esigenze, di ordine ed autonomia dei popoli e consenso dei governati (31).
Questo ovviamente ha cambiato solo in modesta misura il contrasto: l’ostilità permane, e la volontà di dominare anche.
Quindi si ricorre a due tipi (e modi) sostitutivi della guerra classica. Da un lato la si fa con mezzi non tradizionali (attacchi terroristici, blocchi economici, in futuro incursioni informatiche), dall’altro le si cambia nome, avendo cura di dare un senso positivo alla guerra. D’altra parte che il tasso d’ostilità, anche se estrinsecantesi con mezzi con violenti, cresca e sia suscettibile tuttora d’incrementi, è favorito dalla proliferazione dei soggetti politici, incentivato dalla deresponsabilizzazione di questi, dalla loro scarsa vulnerabilità come dalle ideologie (e dalle derivazioni – in senso paretiano) che ne stanno alla base.
11. A fondamento dell’istituzione (politica) c’è (l’aspirazione a) l’ordine. Vi possono essere diversi tipi di ordine; come scriveva S. Agostino, anche una banda di briganti vuole un ordine (interno) (32): quello che loro garba.
Rispetto al “vecchio” ordine degli Stati nazionali, il nuovo ordine che si profila appare meno applicabile e soprattutto meno idoneo ad assicurare una pacifica regolamentazione e decisione dei conflitti interindividuali e collettivi. Tante Corti internazionali con le loro specifiche e puntuali competenze, ad esempio, non hanno il carattere generale degli articoli 24 e 111 della Costituzione italiana vigente.
La “realtà della libertà concreta” che Hegel riteneva realizzata nello Stato moderno consisterebbe, nell’ordine globale, nella somma di libertà puntuali, e peraltro di più incerta concretizzazione. Una somma di “eccezioni” comunque non fa la regola.
E’ peraltro enigmatico come un potere/i globalizzato/i possa assicurare l’ordine, mancando sia di pubblicità che di rappresentanza (e visibilità) (33).
In questa situazione l’ordine concretamente possibile e coniugabile con i principi dello Stato borghese, appare quello dello Stato-nazione. Intendendo la nazione nel senso di comunità, legata da vincoli decisivi e differenziali e connotata dall’omogeneità degli appartenenti. Non è neppure (sempre) vero né nel passato come (ancor più) nel presente che ideologie cosmopolite siano pacifiche, rispettose (delle peculiarità delle comunità “minori”) e non aggressive, al contrario del nazionalismo presentato come guerrafondaio e irrispettoso dell’identità. La storia ha visto ideologie cosmopolite (come lo stoicismo diffuso all’epoca dell’instaurazione dell’impero romano) rispettose dell’identità, della religione, degli assetti interni delle comunità incluse, ma altre poco riguardose di queste. Quale esempio delle prime l’impero romano, che non pretendeva né d’imporre religione, élites e diritto proprio (al posto di quelli degli inclusi), ma comandava soltanto quanto strettamente necessario alla sintesi (ed alla necessità) politica.
E del pari, a nazionalismi aggressivi (come da ultimo quello nazista) possono contrapporsi nazionalismi difensivi, come quello mazziniano e, in genere, risorgimentale (34).
Confondere difesa e aggressione è un espediente vecchio quanto utilizzato dalla propaganda; ma il lupo che si pretende aggredito dal nonno della pecora è un’ironia da favola. Nei frangenti odierni è il topos ricorrente del cosmopolitismo mercatista.
Teodoro Klitsche de la Grange
NOTE
(1) Nel senso del termine di cui al libro di G.F. Lami Utopia e utopismo.
(2) V. in “Il dominio della politica” a cura di N. Merker, Roma 1997, p. 174.
(3) E’ assai adatto al modo di pensare corrente quel che scrive a tale proposito Renan “ La comunanza di interessi è certo un potente legame tra gli uomini. Gli interessi, tuttavia, bastano a fare una nazione? La comunanza di interessi fa i trattati commerciali. Nella nazionalità c’è un risvolto sentimentale: essa è al tempo stesso anima e corpo: uno Zollverein non è una patria” v. op. cit. trad. it. (a cura di N. Iannello e C. Lottieri). Facco editore, Treviglio 1996 p. 16.
(4) Op. cit., 17 (i corsivi sono miei). Specificando ulteriormente scrive “… la sofferenza comune unisce più della gioia. In fatto di ricordi nazionali i lutti valgono più dei trionfi, poiché impongono doveri e uno sforzo comune … La nazione allora è una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme … si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni. Come l’esistenza dell’individuo è un’affermazione perpetua di vita. Si, lo so, tutto questo è meno metafisico del diritto divino e meno brutale del preteso diritto pubblico ... Il voto delle nazioni, in definitiva, è il solo criterio legittimo quello al quale bisogna sempre tornare". E subito dopo prosegue “Le volontà umane cambiano: ma cosa c’è che non cambia quaggiù? Le nazioni non sono qualcosa di eterno. Esse hanno avuto un inizio, avranno una fine. La confederazione europea, probabilmente prenderà il loro posto. Ma non è questa legge del secolo in cui viviamo. Oggi l’esistenza delle nazioni è un bene, persino una necessità. La loro esistenza è garanzia della libertà, che sarebbe perduta se il mondo avesse una sola legge e un solo padrone”.
(5) V. tra i tanti scritti, ricordiamo, la tesi di Höhn nella conferenza curata in italiano da chi scrive su “Comunità, diritto, popolo” in Behemoth n. 56.
(6) L’età delle codificazioni, apertasi con i primi codici dei sovrani illuministi, la rivoluzione francese e il code Napoleon, è (anche) una forma di nazionalizzazione del diritto, rispetto al diritto romano applicato in precedenza.
(7) In effetti occorre chiarire che se si fa una questione di dover essere, ossia del trattamento normativo da applicare, questa, ad essere coerenti porta a considerare come illegittimo (immorale, contrario al diritto naturale e così via) ogni differenza di una certa rilevanza; se sul piano del sein, è un’evidente scambio di auspicio per realtà. Resta il fatto che da Montesquieu (al più tardi) in poi si pensa – per lo più – che ordinare giuridicamente in modo uguale comunità diverse sia impresa irrealistica.
(8) Ovviamente, fatte le debite differenze. L’accostamento va ricondotto alla tesi di C. Schmitt sul pensiero di Hobbes v. il saggio curato da C. Galli e pubblicato nel volume “Il Leviatano”, Il Mulino, Bologna 2011, in particolare v. p. 115 ss., dove Schmitt (tra l’altro) scrive “il pensiero hobbesiano è riuscito a farsi valere, assai efficacemente ma per così dire in via apocrifa, nello Stato «di leggi» positivistico del Ottocento. Gli antichi avversari, i poteri «indiretti» della Chiesa e delle organizzazioni degli interessi, si sono ripresentati in questo secolo sotto la forma moderna di partiti politici, sindacati, gruppi sociali, in una parola come «forze sociali». Strada facendo si sono impadroniti del potere legislativo e dello Stato «di leggi», scavalcando il Parlamento, e hanno potuto credere di avere aggiogato il Leviatano al loro carro. E ciò riuscì loro facile grazie a un sistema costituzionale il cui schema fondamentale era un catalogo di diritti di libertà individuali. La sfera privata, presunta libera, garantita da questo sistema costituzionale, fu così sottratta allo Stato e consegnata ai poteri «liberi» (cioè incontrollati e invisibili) della «società» (p. 116)
(9) Sul punto, in relazione agli attentati dell’11 settembre 2001 e Al-Quaeda, mi sia consentito rinviare a quanto da me sostenuto in Osservazioni sul terrorismo post-moderno, in “Behemoth” n. 30.
(10) E’ appena il caso di ricordare che Clausewitz nelle prime righe del Vom Kriege da così la prima definizione della guerra parlando dei belligeranti “Ciascuno di essi vuole, a mezzo della propria forza fisica, costringere l’avversario a piegarsi alla propria volontà; suo scopo immediato è di abbatterlo e, con ciò, rendergli impossibile ogni ulteriore resistenza. La guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà” il corsivo è mio; v. sullo stesso punto dello scopo della guerra G. Gentile Genesi e struttura della società.
(11) L’arte della guerra ed. Mediterranee, rist. Roma 2005, p. 49 (il corsivo è mio).
(12) Quel “quasi” si riferisce alla possibilità – tante volte ripetutasi – di guerra civile, per cui la scriminante amico/nemico è interna alla comunità. Anzi secondo Montherlant quello civile è la “vera guerra”.
(13) Prosegue “Dei trecentosessantasette milioni di sudditi che vivono fuori dalle isole britanniche, non più di undici milioni, ossia uno su trentaquattro, hanno una qualche forma di autogoverno per quanto riguarda la legislazione e l’amministrazione” v. Imperialism trad. it. L. Meldolesi, Isedi, Milano 1974 p. 102 (il corsivo è mio).
(14) Op. loc. cit.
(15) M. Hauriou, Principes de droit public, rist. Paris 2010, p. 136.
(16) Op. loc. cit.
(17) V. Precis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 98 ; v. anche Principes de droit public cit., pp. 2 ss.
(18) Lineamenti cit. § 260 e scriveva “Ora la libertà concreta consiste nel fatto che la singolarità personale e i suoi interessi particolari, per un verso, hanno il loro sviluppo completo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della famiglia e della società civile); per altro verso, invece, essi in parte passano da se stessi nell’interesse dell’universale, e in parte, con il loro sapere e volere, riconoscono l’universale stesso: precisamente, lo riconoscono come loro proprio Spirito sostanziale, e sono attivi in vista di esso come in vista del loro fine ultimo”.
(19) Nell’interessante libro B. De Giovanni Elogio della Sovranità politica, Napoli 2015, sostiene (tra l’altro) che la concezione dello Stato di Hegel è tra i poli del decisionismo di Schmitt e del normativismo di Kelsen, ed è fondata sulla mediazione tra politica e diritto e così l’organizzazione della libertà dei moderni.
(20) V. Oltre lo Stato, Bari 2006 p. 21, e precisa “Le fasi dello sviluppo di una giustizia globale sono tre, che rappresentano altrettanti strati, giustapposti nella realtà attuale .La prima è quella diadica, orizzontale, fondata su arbitri e panel. …. Che rimette la decisione a una terza parte, non è più basata sulla opzionalità (e quindi è obbligatoria) è sottoposta a un processo di «giuridificazione» e ricorre a sanzioni. La terza è quella che applica e tutela diritti e obblighi che derivano da obbligazioni internazionali, ed assume una rilevanza anche costituzionale
(21) S. Cassese op. cit. p. 22.
(22) Questo, fatta salva, in particolare la competenza della Corte penale internazionale (e di qualche altra Corte ad hoc) la cui cognizione riguarda proprio controversie di carattere politico o quanto meno pubblico.
(23) V. Cassese, op. cit., p. 18.
(24) Op. cit., p. 18.
(25) Op. cit., p. 18
(26) Op. loc. cit., p. 31, il corsivo è mio.
(27) Tali unità di pesi, misure e denaro, scrive il filosofo profeticamente non farebbero dell’Europa un solo “Stato… né la loro diversità impedisce l’unità di uno Stato” op. cit., p. 31.
(28) Ma nel Précis de droit constitutionnel la distinzione è tra disciplinaire e commun (e relative justices), v. op. cit. pp. 88 e 97.
(29) V. Précis de droit public, rist. Paris 2010, pp. 136 ss., v. anche pp. 2 ss.
(30) V. il noto discorso riportato da Tucidide nella Guerra del Peloponneso, II, 3°. Anche Aristotele nella Politica colloca tra i tipici istituti democratici che “i magistrati li eleggono tutti tra tutti… le magistrature sono sorteggiate o tutto o quante non richiedono esperienze ed abilità… le funzioni di giudice sono esercitate da tutti e cioè da persone scelte tra tutti”, Politica, 1317b
(31) V. sul punto quanto scriveva Santi Romano “Comunque sia, Dio o demonio, realtà vera o idolo falso, salvezza o perdizione, lo Stato è diventato il primo, se non l’unico attore della scena del mondo. Senonché questa sua posizione, non solo nella speculazione filosofica, ma nella vita effettiva, non rappresenta forse se non il risultato temporaneo di una doppia e contraria reazione a quelle tendenze, così di individualismo come viceversa di cosmopolitismo, che sono fra di loro in continuo contrasto e il cui punto d’incontro o di equilibrio, sempre variabile, è ora dato dall’odierno assetto statuale”, Oltre lo Stato, ora in Scritti minori, Vol. I, Milano 1950, p. 46.
(32) Op. cit. XII.
(33) Come scrive Schmitt “La rappresentanza può rivolgersi solo nella sfera della pubblicità. Non c’è nessuna rappresentanza, che si svolga in segreto e a quattr’occhi, nessuna rappresentanza che sia «affare privato». Con ciò sono esclusi tutti i concetti e le raffigurazioni, che fanno parte essenzialmente della sfera del privato e della mera economia” Verfassungslehre trad. it. di A. Caracciolo Milano 1984, p. 275; anche “La rappresentanza non è né un fatto normativo né un processo né una procedura, ma qualcosa di esistenziale. Rappresentare significa rendere visibile e illustrare un essere invisibile per mezzo di un essere che è presente pubblicamente” op. cit. p. 277. Ma nella globalizzazione non è chiaro chi sia rappresentato né la di esso natura pubblica (si rappresentano i mercati? O anche l’umanità? E soprattutto dove sono i caratteri della pubblicità?) e ancor più chi sia il rappresentante, dato che chi esercita il potere reale tende a farlo nel modo più invisibile.
(34) Tra i tanti ricordiamo al riguardo le pagine di R. De Felice in Mussolini l’alleato, ora ripubblicato in Mussolini e il fascismo, Vol. VII, Torino 2015 p. 672 ss..