giovedì 7 maggio 2015

Teodoro Klitsche de la Grange: «Violenza e difesa» - Parte seconda

Questo articolo, qui in editing con i tipi di “Civium Libertas”, esce contemporaneamente sul sito Behemoth. Per andare alla Parte prima, si clicchi qui.

VIOLENZA E DIFESA 

(II)

1. Dopo l’omicidio plurimo di Milano, dove taluno ha visto l’effetto delle campagne di de-legittimazione della magistratura, talaltro la mera azione di uno squilibrato (anche perché una sola delle vittime era magistrato), si è aperto (o ri-aperto) un dibattito più che una riflessione (anche perché diversi interventi denotano di essere punto o poco riflessivi sulla violenza e sul farsi giustizia da soli) con tutti i consueti corollari (disciplina delle armi e così via).
C’è financo qualcuno che ha voluto connettere la violenza al liberismo accomunati dall’essere entrambi esaltatori del privato rispetto al pubblico. Tesi che fa sorridere, non solo a leggere i classici del liberismo, ma più ancora l’evanescenza dei “punti di contatto”.
Il dibattito è antico: perché, se vogliamo (ampliandone la portata) parte dal famoso dialogo tra Antigone e Creonte, dove la figlia di Edipo, tuttavia astenendosi da ogni violenza, contesta il diritto, rivendicato da Creonte quale sovrano di Tebe, di dare alla città leggi non conformi a quelle tradizionali d’origine divina. Prosegue poi – tra l’altro – nelle pagine dei teologi cristiani (in particolare, ma non solo, sulla quaestio del tirannicidio), arriva in una celebre opera letteraria come Michel Kolhahaas di Kleist e, passando per la dottrina giuridica (e le codificazioni) arriva fino ai giorni nostri e ad internet.
Onde la violenza non sempre è illegittima, anche se non-legale o illegale, e ancor più la violenza, al fine di autodifesa. Francisco Suarez riconduceva la guerra (tra sovrani) ad una quaedam potestas jurisdictionis; quanto all’autodifesa tra privati ammetteva che è “intrinsece mala”, ma tuttavia occorre darne “licentia, nisi solum intra limites justae defensionis”. In un altro passo (sulla seditio) ribadisce che omnibus competit jus defensionis (nel caso specifico di difendersi dal tiranno) (1).
In realtà nella storia umana la violenza come mezzo di realizzazione- esecuzione di una pretesa legittima (non è il caso di Milano) non è stata prevalentemente riservata al potere pubblico, ma distribuita tra quello pubblico e non pubblico. Facendo molta attenzione a tale distinzione (semplificata), perché spesso nel “privato” si deve leggere il diritto di istituzioni subordinate a quella egemone, avrebbe scritto Santi Romano (come tribù, gruppi gentilizi, signori feudali) ad esercitarlo. Quindi riservato a taluni e non pertinente a tutti.
Con l’avvento dello Stato moderno il monopolio della violenza legittima appartiene allo Stato. Il quale comunque ha dovuto lasciare qualche “valvola di sfogo”, anche perché non può garantire la sicurezza totale: per avere la quale ad ogni cittadino dovrebbe affiancare un carabiniere. Quindi come tutti gli ordinamenti, ha riconosciuto il diritto (l’esimente) di legittima difesa (art. 52 del codice penale).
Già Cicerone diceva al riguardo nell’orazione Pro-Milone che la legittima difesa è un diritto (dell’individuo) perché “ratio doctis et necessitas barbaris et mos gentibus et feris natura ipsa praescripsit, ut omnem semper vim quacumque ope possent a corpore, a capite, a vita sua propulsarent, non potestis hoc facinus improbum iudicare, quin simul iudicetis omnibus qui in latrones inciderint, aut illorum telis aut vestris sententiis esse pereundum” (2). Tuttavia la razionale argomentazione (e la splendida prosa) di Cicerone non è condivisa da parecchi.
In una trasmissione televisiva di qualche giorno orsono un rappresentante del PD, dibattendo con Salvini, confondeva la legittima difesa con la “giustizia fai da te”; confusione bizzarra perché in un caso si tratta di difendere, nell’immediato, beni propri, nell’altro di “realizzare” propri diritti. Con la prima si difendono i propri (irrinunciabili) diritti alla vita e all’incolumità: con l’altra pretese le più varie e diverse (anche meramente patrimoniali).
Da ciò – e da altro – derivano una serie di confusioni ed equivocazioni – spesso volute – che è il caso di evidenziare.

2. La prima è che dove c’è la violenza non c’è il diritto e altri idola simili. Nella realtà questo sarebbe condivisibile se gli uomini fossero tutti buoni, pacifici ed ossequienti alle leggi. Ma dato che non è così, di guisa che la (principale) ragione per la costituzione di un potere pubblico è proprio la innata tendenza degli uomini a trasgredire le leggi, violare i diritti altrui e prevaricare il prossimo, l’argomento è irreale, oltre che contraddittorio perché vale anche per lo Stato, principale produttore del diritto e monopolista della violenza legittima. In una società dove tutti gli uomini fossero angeli, e gli uomini fossero governati dagli angeli - è scritto nel “Federalista” - non ci sarebbe necessità né di governi, né di controlli sui governi. Ma siccome non è così bisogna istituire l’uno e gli altri. All’inverso di quanto credono i fautori della contrapposizione criticata la forza è necessaria al diritto e non opposta a questo. Se viene usata contro il diritto, allora – che il trasgressore sia privato che un pubblico ufficiale – occorre reprimerla (contrapponendole una forza superiore).

3. La seconda tesi, per così dire, ultra-hobbesiana, è che il monopolio della forza del Leviatano è positivo perché impedisce il dilagare della violenza privata, esiziale alla coesione e all’ordine sociale (bellum omnium contra omnes). Solo che il filosofo di Malmesbury non risulta che l’avesse mai esteso alla legittima difesa: il comandamento cristiano è “non uccidere” non “non difenderti”. Tale tesi ha, rispetto alla precedente, il vantaggio di un presupposto realistico, ma costituisce comunque una fiduciosa esagerazione della capacità ordinatrice del sovrano.
Fiducia che non aveva neanche Hobbes. Infatti scrive “Un patto, che non mi difende dalla forza con la forza, è sempre vano, poiché – come ho mostrato prima – nessuno può trasferire o abbandonare il proprio diritto di salvarsi dalla morte, dalle ferite, dalla prigione …” (3)  e chiarisce che un simile patto – che impedisca l’autodifesa del suddito – sarebbe “senza effetto” (4).

4. L’altra convinzione diffusa è quella che prescrive di non far ricorso alla violenza (in nessun caso). A prescindere dalla (pretesa) derivazione evangelica, sottolineata da Max Weber, è sicuro che il tutto è contrario alla funzione (principale) del diritto, che è (uno) strumento per garantire (la regolazione de) l’ordine sociale. E che si regge sulla distinzione tra lecito e illecito ossia tra permesso e vietato. Una società dove tutto fosse permesso o al contrario, vietato, regole giuridiche (oltre quella fondamentale) non avrebbero senso. Se a una violazione del diritto non si reagisce – diverso è il problema di chi e come reagisce – si ottempera al precetto di non violenza ma si collabora alla dissoluzione dell’ordine sociale e della distinzione  tra condotta lecita e illecita. Si può replicare – come anticipato -  che il problema non è di non reagire, ma di chi è abilitato a farlo. Vero: ma proprio perciò, e ricollegandoci alla prima tesi criticata, il divieto non è affatto assoluto e generale, anzi, la regola è che, in una società ordinata, si deve reagire (come scriveva Jhering nel “Kampf um’s Recht”); e ciò talvolta compete ad uffici pubblici, tal altra alla parte lesa (con i mezzi ordinari). Ma in casi eccezionali si ha facoltà di contrapporre la violenza alla violenza (vim vi repellere licet).
Onde per assicurare il diritto (la distinzione ha permesso e vietato) la violenza è necessaria; peraltro, come tutte le condotte umane, può essere permessa o vietata (a seconda che sia lecita o meno). Cosa che capita non solo a questa, ma anche all’amore, al commercio e all’industria. C’è un amore lecito (tra adulti consenzienti) ma anche non lecito (tra adulti e minorenni e così via); un commercio lecito (quasi tutto) e illecito (quello di droghe, organi espiantati, oggetti rubati); e così potrebbe continuarsi all’infinito.
L’interdetto alla violenza, e alla distinzione tra quella lecita ed illecita, a tacer d’altro, è dissolutorio del senso del diritto, del vincolo sociale e, in certi casi, dell’unità e dell’esistenza politica.

5. Un’altra tesi che si associa alle esposte è che il ricorso alla violenza del pluriomicida di Milano sarebbe l’altro aspetto della violenza nelle relazioni “internazionali” (intendendo con ciò anche quella dei movimenti non statali come movimenti partigiani, califfato e così via).
Tuttavia tale violenza “internazionale” ha un carattere pubblico che manca al pluriomicida di Milano, che ha ucciso per motivi strettamente personali e privati (dichiarazione di fallimento e conseguente giudizio penale). È inutile ripetere tutta la problematica sulla violenza (fino alla guerra) praticata da soggetti non statali, particolarmente approfondita nel XX secolo da giuristi come Carl Schmitt e Santi Romano. Resta il fatto che se Ali la-pointe, fosse andato a parlamentare per l’indipendenza dell’Algeria (invece che mettere bombe), ad Algeri governerebbe ancora Jacques Soustelle. E peraltro non è affatto sicuro che la condanna della violenza in conflitti pubblici (guerre di liberazione, resistenze contro governi tirannici, occupazioni militari straniere) sia largamente condivisa dall’opinione pubblica, come, in genere, quella per liti private.

6. L’altra tesi è che ad alimentare la violenza internazionale sia il “virus della violenza nella forma del fanatismo religioso” (v. Guido Rossi sul Sole 24 ore del 12 aprile 2015): ciò è in larga misura vero, da quando, per l’appunto e a seguito del crollo del comunismo, a ritornare in auge, quale motivo di guerra, è la religione. In ciò l’articolo citato va d’accordo con quanto sostiene il personaggio di Rediger nell’ultimo romanzo di Houllebecq. Ma non è vero che anche in assenza di religione come principale motivo di guerra – come accaduto in gran parte del secolo passato e del precedente – i conflitti, estremamente barbari e spietati, siano mancati. Anzi proprio le ideologie naturalmente atee - come il comunismo – o intrinsecamente irreligiose, come il nazismo, ne hanno provocato i più sanguinari.

7. In definitiva occorre ricordare, tra i molti, quanto sosteneva Proudhon, che la guerra (ossia la violenza del gruppo politico) “domina, regge con la religione, l’universalità dei rapporti sociali. Tutto nella storia della umanità, la suppone. Nulla si spiega senza di lei; nulla esiste senza di lei: chi sa la guerra, sa il tutto del genere umano”. Cui occorre aggiungere la (consueta) lezione di Hobbes che la conflittualità, se non è politica e organizzata, è comunque così connaturata alla natura umana, che deflagra nella forma di guerra civile, fino a quella privata. Come scriveva Montherlant, questa (la civile) è la vera guerra, quella “del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico”.

NOTE
(1) F. Suarez, De charitate, disp. 13 De Bello.

(2) … dalla ragione per i saggi, dalla necessità per i barbari, dal costume per tutti i popoli e dalla natura stessa per le bestie, è stato prescritto che ognuno debba sempre respingere con ogni mezzo qualsiasi violenza che lo minacci nel corpo, nel capo, nella vita; voi non potreste giudicare ingiusta questa difesa senza giudicare, nello stesso tempo, che chiunque sia incappato nei briganti debba soccombere o per le loro armi o per le vostre sentenze” (Pro-Milone XI).

(3) Cap. XIV del Leviathan, trad. it. Bari 1974 p. 122

(4) V. “Ho già mostrato nel cap. XIV, che i patti, che impediscono ad un uomo di difendere il proprio corpo, sono senza effetto; perciò, se il sovrano comanda ad un uomo – per quanto giustamente condannato – di uccidere, ferire o mutilare se stesso, o di non resistere a quelli, che assalgono, o di astenersi dal prendere cibo, aria, medicina o altra cosa, senza della quale non potrebbe vivere, quell’uomo, ha la libertà di disobbedire” op. cit., p. 192

Teodoro Klitsche de la Grange