Ludwig von Mises, In nome dello Stato, 2012, Rubbettino, Soveria Mannelli, pp. 212, € 12,90.
Questo libro è uno dei più significativi di Ludwig von Mises, tra i maggiori scienziati sociali del secolo scorso. Scritto a Ginevra, dove si era rifugiato perché ricercato dai nazisti (era ebreo e liberale), non è solo un libro di economia, ma, scritto in frangenti storici tragici è ancor più un’analisi dell’incubazione del nazismo nella cultura tedesca, e delle convergenze antiliberali di comunismo e nazismo. Scrive Infantino nell’accurata introduzione: «Nella sua forma più diretta, il collettivismo punta alla soppressione della proprietà privata. Quali che siano le sue promesse, deve quindi convogliare ogni attività economica dentro i rigidi binari di una pianificazione centralistica. Ma l’economia di piano non può funzionare, Mises lo aveva largamente mostrato in Gemeinwirtschaft. E lo ha mostrato anche nel testo che qui si presenta. Se la proprietà privata viene soppressa, non c’è competizione, non c’è mercato, manca un sistema dei prezzi»; ma c’è anche un altro modo per affermare il collettivismo: «tramite la via indicata dalla Scuola storica tedesca dell’economia. Uno dei tardi esponenti di quella Scuola, Othmar Spann, è stato al riguardo molto chiaro: se non può “essere abolita”, la proprietà privata deve essere subordinata al “tutto supremo, lo Stato”. Deve quindi avere un’esistenza meramente formale». La scuola storica tedesca dell’economia ha creato i «presupposti culturali del nazismo. Mises ha scritto: “non si sminuisce affatto il significato del sovvertimento radicale prodotto dal nazionalsocialismo se si richiama l'attenzione sul fatto che esso non è altro che la realizzazione coerente e integrale delle idee che avevano dominato la politica tedesca prima del 1914 … il nazionalsocialismo è la realizzazione dell’utopia vagheggiata dall’ala radicale del Socialismo della cattedra tedesco”».
Questo libro è uno dei più significativi di Ludwig von Mises, tra i maggiori scienziati sociali del secolo scorso. Scritto a Ginevra, dove si era rifugiato perché ricercato dai nazisti (era ebreo e liberale), non è solo un libro di economia, ma, scritto in frangenti storici tragici è ancor più un’analisi dell’incubazione del nazismo nella cultura tedesca, e delle convergenze antiliberali di comunismo e nazismo. Scrive Infantino nell’accurata introduzione: «Nella sua forma più diretta, il collettivismo punta alla soppressione della proprietà privata. Quali che siano le sue promesse, deve quindi convogliare ogni attività economica dentro i rigidi binari di una pianificazione centralistica. Ma l’economia di piano non può funzionare, Mises lo aveva largamente mostrato in Gemeinwirtschaft. E lo ha mostrato anche nel testo che qui si presenta. Se la proprietà privata viene soppressa, non c’è competizione, non c’è mercato, manca un sistema dei prezzi»; ma c’è anche un altro modo per affermare il collettivismo: «tramite la via indicata dalla Scuola storica tedesca dell’economia. Uno dei tardi esponenti di quella Scuola, Othmar Spann, è stato al riguardo molto chiaro: se non può “essere abolita”, la proprietà privata deve essere subordinata al “tutto supremo, lo Stato”. Deve quindi avere un’esistenza meramente formale». La scuola storica tedesca dell’economia ha creato i «presupposti culturali del nazismo. Mises ha scritto: “non si sminuisce affatto il significato del sovvertimento radicale prodotto dal nazionalsocialismo se si richiama l'attenzione sul fatto che esso non è altro che la realizzazione coerente e integrale delle idee che avevano dominato la politica tedesca prima del 1914 … il nazionalsocialismo è la realizzazione dell’utopia vagheggiata dall’ala radicale del Socialismo della cattedra tedesco”».
Dietro l’idea di sopprimere o sottoporre a esteso controllo la proprietà privata c’è sempre un unico errore “c’è l’idea che la proprietà privata stia alla base di un conflitto insanabile, che fa della cooperazione un gioco a somma zero, un gioco cioè in cui il guadagno degli uni coincide con la perdita degli altri è questa l’imputazione causale che viene data a ogni male sociale”. Ma c’è anche un obiettivo comune (a chi governa, nazista, comunista, socialista o altro che sia). E ciò risiede “nel fatto che le risorse detenute privatamente rendono possibile la scelta individuale. Si colpisce pertanto la proprietà per impedire i conseguenti prodotti della scelta: la «molteplicità» e la discussione critica. Il che costituisce, e non a caso, un obiettivo perseguito tramite la contemporanea pretesa di possedere una conoscenza superiore, un «punto di vista privilegiato sul mondo»”. Insomma: i collettivisti sanno bene quello che sosteneva (da vecchio) Proudhon (tra i tanti): che senza proprietà non c’è libertà. Per cui occorre limitare, controllare la proprietà privata perché è la premessa di ogni regime in cui siano i governati a controllare i governanti. All’epoca in cui Mises scriveva le tesi “collettiviste” andavano per la maggiore. Una curiosa conferma se ne ha a leggere i lavori della costituente italiana sull’art. 41 della Costituzione (sull’iniziativa economica, la proprietà dei mezzi di produzione e i poteri pubblici al riguardo). Fanfani nel sostenere la stesura proposta dell’art. 41 ne esaltava la modernità perché era assai simile agli analoghi articoli della Costituzione di Weimar, di quella portoghese salazarista (cioè corporativo-fascista) e di quella sovietica (staliniana) del 1936. Precetti tutti assai datati e tutti – tranne quello italiano – soppressi da decenni, ma allora l’“ampio spettro” citato da Fanfani ne dimostrava la prevalenza (allora) nel dibattito politico culturale e resta, anche per ciò uno dei meriti del libro (allora controcorrente) di Mises. Come scrive Infantino “se Mises fosse stato debitamente letto e meditato, la decifrazione delle «catastrofi» del Novecento sarebbe stata più tempestiva e meno gravida di «bigotterie»”. Dopo la guerra il clima comincia a cambiare, almeno in alcuni Stati. La Grundgesetz (la Costituzione della Germania occidentale, poi estesa alla Germania unificata, è assai più rigorosa nel tutelare libertà e proprietà privata. Scrive Mises nella lettera (ad A. Müller-Armack) con cui si apre questo libro “Quel che Lei e Erhard avete fatto per rimettere in piedi l’economia tedesca sarà giustamente considerato dovunque – malgrado alcuni «errori estetici» - come un grande atto di liberalismo”. Dal collettivismo del socialismo di Stato al liberalismo e all’economia sociale di mercato: il common sense era cambiato, e radicalmente. Un po’ dappertutto : assai meno, purtroppo, in Italia. Ha ragione Mises quando nella conclusione da più fiducia ai mutamenti culturali-spirituali che agli strumenti giuridico-istituzionali: “La ricostruzione della civiltà e l’instaurazione di un ordine politico che garantisca la pace non può cominciare dalla revisione dei trattati internazionali e del patto costitutivo della Società delle nazioni, bensì dalla revisione delle dottrine di politica economica”.
In caso di ritardi dello “spirito pubblico”, sono le crisi – anche le più dolorose – a determinare i cambiamenti e far comprendere gli errori.
Teodoro Klitsche de la Grange