Non meraviglia che un Tribunale francese abbia condannato Marine Le
Pen e, quel che più conta, l’abbia interdetta dal candidarsi alle
prossime elezioni. Non sorprende perché il tutto segue un copione
ben noto (la cui prova generale fu fatta, in questo secolo, proprio
in Italia con la defenestrazione di Berlusconi nel 2011) di
estromettere dal potere attraverso decisioni giudiziarie, coloro che
con quelle elettorali, cioè democratiche, non lo perderebbero.
Le prospettive da cui giudicare ciò sono
molteplici e sempre concorrenti: dalle regolarità
(Miglio) della competizione per il potere alla necessità di una
situazione eccezionale, dalla conformità (asserita) a regole
inviolabili (la cui origine va dalla divina a scendere) al clamore
assorbente della propaganda ad ampio spettro.
Mi preme
evidenziarne due, forse le meno (o punto) ricordate sui media:
il conflitto tra legittimità e legalità e il comportamento
(ricorrente) delle élite decadenti.
Quanto al primo
problema la distinzione tra legalità e legittimità, a leggere in
rete, è normalmente così espressa “La legalità innanzitutto
viene definita come la condizione di conformità alla legge e a
quanto essa prescrive o vieta. Il termine legalità quindi non può
essere riferito ad ogni atto, azione, provvedimento che rispetti la
legge in vigore… Lì dove per legalità s’intende la conformità
di un atto con l’insieme delle leggi dello Stato, la legittimità
sta ad indicare il fondamento stesso del diritto dello Stato, ovvero
il criterio a cui si rifà chi detiene il potere di legiferare –
cioè il potere di dare forma alla legalità – o eventualmente chi
lo contesta”; ovvero “Legalità può sinteticamente significare
soggezione alla legge, o anche rispetto della legge. In questa
accezione si è parlato, almeno sin dall’Ottocento, di principio di
legalità… Legittimità invece significa, piuttosto, conformità ad
una legge, cioè corrispondenza di un atto o di un comportamento
specifici al modello astratto configurato da una norma di legge”.
Hasso Hofmann scrive che “Schmitt pone il problema della
legittimazione dell’autorità da legittimare con una svolta
antitetica rispetto al presunto funzionalismo privo di contenuto
della legalità dello Stato di diritto e spinge il concetto di
legittimità in una inusuale e provocatoria contrapposizione con il
concetto di legalità”. E in effetti il problema del legittimo
fondamento del potere si pone dalla constatazione che questo è
oggetto di conquista,
cioè di un fatto
storico, prima che modificazione, anche profonda di norme giuridiche.
Per lo più questa è conseguente a quello, e talvolta (poche) non è
una reale fine e rinascita dell’ordinamento, ma solo una di esso
revisione, ancorché profonda.
Lassalle
descriveva bene questo rapporto tra situazione reale (i “rapporti
di forza”) e redazione documentale
“Questi effettivi
rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro
un’espressione scritta, e,
se ora sono stati buttati giu, essi
non solo sono rapporti di forza effettivi, ma
sono anche diventati, ora, diritto, istituzioni
giuridiche, e chi vi
oppone resistenza viene punito”.
Ne consegue che
giudicare legittimo un
ordinamento è confrontare la corrispondenza tra fatti generatori e
successivi comportamenti, in primo luogo, quello dei governati, se
considerano che chi ha afferrato (e consegnato) il potere abbia il
“diritto” di esercitarlo. Come scriveva Santi Romano, un
ordinamento così acquista vitalità e durata. Il che non ha nulla a
che fare con la legalità, come sopra intesa. Se la storia, come
diceva Pareto, è un cimitero di aristocrazie, data la successione di
élite, regimi e sintesi politiche, è la legittimità a determinare
l’ordine concretamente esistente, e non il legale -
raro – avvicendamento tra quelli.
Ciò stante la
legalità può essere legalmente
utilizzata anche per realizzare fini contrapposti a quelli
dell’ordinamento legittimo. Lo teorizzava da rivoluzionario Lenin.
Ma il caso più frequente è che se ne serva chi esercita il potere
per conservarlo a scapito delle élite emergenti.
E’ questa la via che vogliono far percorrere le
élite europee (ma non solo) in “lista di sbarco”, forse anche
nell’inconsapevolezza dei
legali estensori
delle decisioni relative. I
quali possono sempre sostenere di aver osservato la legalità (norme,
Stufenbau) cioè di
avere il potere di decidere se il candidato rumeno escluso o Marine
Le Pen fossero colpevoli dei reati loro ascritti e di averlo
legalmente esercitato.
Ma la conclusione, con l’interdizione ad esercitare o aspirare al
potere politico, grava sull’esito elettorale e sulla legittimità
dello stesso. In particolare in una democrazia governa chi è scelto
(ha il consenso) dal popolo. Se si impedisce al capo dell’opposizione
di presentarsi alle elezioni si annulla la prerogativa
del popolo di designare chi governa. Cioè il contenuto
essenziale e principale della democrazia politica.
D’altro canto,
soggetti dell’ordinamento internazionale sono coloro che esercitano
il potere effettivo e non quelli che hanno diritto ad esercitarlo.
Tant’è che persino i movimenti rivoluzionari conquistano una loro
soggettività in
conseguenza del potere esercitato, anche se in situazioni incerte (e
precarie) su popolazione e zone di territorio. Vale sempre il
principio generale di Spinoza che tantum juris quantum
potentiae; costruire e garantire
un ordine senza il potere è impossibile. Una delle conseguenze ne è,
per l’appunto che il soggetto in diritto internazionale è colui
che, di fatto esercita il potere e non chi ha il titolo legale a
detenerlo.
Ciò stante,
nella specie, il far confliggere legalità e legittimità è
semplice, anche laddove l’uso della legalità non fosse
strumentale. Se una
corretta decisione giudiziaria consiste in una logica e motivata
sussunzione di una fattispecie a una norma, non significa che sia
politicamente opportuna e conveniente.
Diversamente una decisione politica opportuna e conveniente non
significa che sia lecita e conforme a norme
(anzi spesso non lo è).
Quel che però
conta di più – ed è un bene in se – è che questa sia
legittima: abbia con ciò il quantum
di consenso dei governati necessario a non interrompere il rapporto
tra vertice e base, capi e seguito. Proprio quello che manca alle
élite decadenti (e alla burocrazia) che perdono consenso e potere.
Lo stesso uso
strumentale della legalità è un sintomo di decadenza.
E con ciò
passiamo al secondo tema. Pareto, che considerava regolare il
movimento ondulatorio
delle comunità, che alternavano periodi di crescita e di decadenza,
considerava manifestazioni di declino delle classi dirigenti il
richiamarsi a derivazioni
(ossia a giustificazioni del potere) miti
(umanitarie, buoniste), all’uso prevalente dell’astuzia piuttosto
che alla forza, alla chiusura della circolazione delle
élite.
In diversa misura
e in modi analoghi le élite euroccidentali in
decadenza li manifestano tutti: dagli invocati diritti umani, alla
“fine della storia”, dalla lotta climatica, ai vaccini, ecc.
ecc.
All’uso
strumentale e indiretto delle varie emergenze (virus, clima, guerra)
si accompagna la propaganda che talvolta attinge a livelli
grotteschi: Non ho prove che i Tribunali, da Berlusconi in poi,
abbiano fatto un uso strumentale della giustizia, ma è evidente che
l’abbiano fatta le élite decadenti (e i loro corifei) ed è
altrettanto sicuro che il copione sia stato ripetuto più volte fino
alla Le Pen. Onde pensare che sia voluto e programmato
non è da respingere.
Da evitare è
l’adeguarvisi.