In un articolo comparso sul “Financial Times” del 7 novembre, Fukuyama ha spiegato cosa
significhi per gli U.S.A. la rielezione di Trump: “quando Trump fu eletto per
la prima volta nel 2016, era facile credere che questo evento fosse
un’aberrazione… Quando Biden vinse la Casa Bianca quattro anni dopo, sembrò che
le cose fossero tornate alla normalità. Dopo il voto di martedì, ora sembra che
sia stata la presidenza di Biden a essere l’anomalia e che Trump stia
inaugurando una nuova era nella politica statunitense e forse per il mondo
intero… Non solo ha vinto la maggioranza dei voti e si prevede che conquisterà
ogni singolo stato indeciso, ma i repubblicani hanno ripreso il Senato e
sembrano intenzionati a mantenere la Camera dei rappresentanti”.
Date le dimensioni della vittoria, lo studioso
nippo-americano si chiede quale sia la natura profonda di questa “nuova fase
della storia americana”. E che l’America così si avvii a non essere più uno
Stato liberale classico definito in
base al duplice criterio della protezione dei diritti fondamentali e della
separazione dei poteri (v. art. 16 dichiarazione dei diritti del 1789). Ma tale
identificazione ha subito “due grandi distorsioni”: il neoliberismo e il
“liberalismo woke” “in cui la preoccupazione progressista per la classe operaia
è stata sostituita da protezioni mirate per un insieme più ristretto di gruppi
emarginati”, con relativo cambiamento della base sociale, così come in Francia
ed Italia gli elettori di sinistra hanno votato per Marine Le Pen e Giorgia
Meloni. Cui si può aggiungere che anche Sholz, tra AFD e Wagenknecht non se la
passa troppo bene. E fin qui l’analisi è condivisibile. Ma non lo è nel seguito
“Donald Trump non solo vuole far retrocedere il neoliberalismo e il liberalismo
woke, ma è una minaccia importante per lo
stesso liberalismo classico" (il corsivo è mio).
Ciò perché si crede controlli ed equilibri delle istituzioni
americane glielo impediranno: cosa che Fukuyama considera un grave errore.
Quando però spiega perché sia tale comincia col citare il
protezionismo del Tycoon: ma questo è
stato per diversi periodi di storia USA il sistema prevalente. E non risulta
che abbia compromesso la tutela dei diritti fondamentali né la separazione dei
poteri. Quanto all’immigrazione sostiene – e probabilmente ha ragione – che
rispedire a casa qualche milione di immigrati è un compito immane. Ma più che
lesivo dei principi del liberalismo classico, è una difficoltà oggettiva. Né
spiega perché sarebbe contro i fondamenti del liberalismo classico il cambiamento in politica estera.
L’unico argomento apportato da Fukuyama che sia
contraddittorio come i principi del liberalismo classico e l’uso politico della giustizia. Ma è un rischio che
proprio le vicende di Trump nel passato quadriennio provano che non basta a
impedire alla democrazia liberale di funzionare né al Tycoon, indicato come
pubblico malfattore, d’essere rieletto a maggioranza
ampliata. Proprio il carattere (profondamente) democratico delle
istituzioni americane e quello federale costituiscono i maggiori ostacoli a una
democrazia del genere.
L’articolo di Fukuyama, pertanto coglie nel segno
allorquando pensa che siamo in una nuova fase della storia americana e che il
liberalismo praticato ha subito due grosse distorsioni che lo differenziano da
quello classico.
Tanti anni fa, proprio nell’Opinione-mese (dicembre 1990)
commentavo il famoso articolo di Francis Fukuyama sulla “fine della storia”.
Saggio che prospettava due tesi fondamentali: l’una che col crollo del
comunismo “Non l’uomo nuovo nato dal superamento dei valori e
dell’organizzazione politico-sociale della borghesia, ma la società dei diritti
dell’uomo e dei consumi costituirebbe l’ultima (e definitiva) forma di
organizzazione umana”; l’altra che “ciò non è dovuto alla sola superiorità
economica del sistema liberale rispetto a quello comunista. Prima che effetto
di una débacle economica,
l’evoluzione (o meglio la rivoluzione) dei paesi comunisti sarebbe il frutto
della sconfitta ideologica”. Mentre sostanzialmente concordavo che con il
crollo del comunismo era venuta meno la contrapposizione politica
borghesi/proletari, ritenevo che di fine della storia non era proprio il caso
di parlare perché contraria alla costante
(regolarità) del conflitto (Machiavelli) e del nemico (Schmitt) e credere
di liberarsi di una regolarità del politico è come voler abolire la legge di
gravità. Finita una contrapposizione se ne fanno avanti altre. Il trentennio
passato ce l’ha confermato.
Anche per questo intervento di Fukuyama bisogna da un lato
dar atto allo studioso nippo-americano di aver preso atto del cambiamento epocale dato dalla vittoria di Trump,
dall’altro di aver considerato che tale fatto avrebbe fatto regredire il
liberalismo classico, invece che far dimagrire le due “deformazioni che
ricorda”.
Invece se per le distorsioni la previsione di Fukuyama è
vera, non lo è per il liberalismo classico. Il quale, almeno in termini di
chiarezza e realismo, ha, probabilmente, qualcosa da guadagnare.