martedì 26 novembre 2024

Teodoro Klitsche de la Grange: "Fukuyama è tornato"

In un articolo comparso sul “Financial Times” del 7 novembre, Fukuyama ha spiegato cosa significhi per gli U.S.A. la rielezione di Trump: “quando Trump fu eletto per la prima volta nel 2016, era facile credere che questo evento fosse un’aberrazione… Quando Biden vinse la Casa Bianca quattro anni dopo, sembrò che le cose fossero tornate alla normalità. Dopo il voto di martedì, ora sembra che sia stata la presidenza di Biden a essere l’anomalia e che Trump stia inaugurando una nuova era nella politica statunitense e forse per il mondo intero… Non solo ha vinto la maggioranza dei voti e si prevede che conquisterà ogni singolo stato indeciso, ma i repubblicani hanno ripreso il Senato e sembrano intenzionati a mantenere la Camera dei rappresentanti”.

Date le dimensioni della vittoria, lo studioso nippo-americano si chiede quale sia la natura profonda di questa “nuova fase della storia americana”. E che l’America così si avvii a non essere più uno Stato liberale classico definito in base al duplice criterio della protezione dei diritti fondamentali e della separazione dei poteri (v. art. 16 dichiarazione dei diritti del 1789). Ma tale identificazione ha subito “due grandi distorsioni”: il neoliberismo e il “liberalismo woke” “in cui la preoccupazione progressista per la classe operaia è stata sostituita da protezioni mirate per un insieme più ristretto di gruppi emarginati”, con relativo cambiamento della base sociale, così come in Francia ed Italia gli elettori di sinistra hanno votato per Marine Le Pen e Giorgia Meloni. Cui si può aggiungere che anche Sholz, tra AFD e Wagenknecht non se la passa troppo bene. E fin qui l’analisi è condivisibile. Ma non lo è nel seguito “Donald Trump non solo vuole far retrocedere il neoliberalismo e il liberalismo woke, ma è una minaccia importante per lo stesso liberalismo classico" (il corsivo è mio).

Ciò perché si crede controlli ed equilibri delle istituzioni americane glielo impediranno: cosa che Fukuyama considera un grave errore.

Quando però spiega perché sia tale comincia col citare il protezionismo del Tycoon: ma  questo è stato per diversi periodi di storia USA il sistema prevalente. E non risulta che abbia compromesso la tutela dei diritti fondamentali né la separazione dei poteri. Quanto all’immigrazione sostiene – e probabilmente ha ragione – che rispedire a casa qualche milione di immigrati è un compito immane. Ma più che lesivo dei principi del liberalismo classico, è una difficoltà oggettiva. Né spiega perché sarebbe contro i fondamenti del liberalismo classico il cambiamento in politica estera.

L’unico argomento apportato da Fukuyama che sia contraddittorio come i principi del liberalismo classico e l’uso politico della giustizia. Ma è un rischio che proprio le vicende di Trump nel passato quadriennio provano che non basta a impedire alla democrazia liberale di funzionare né al Tycoon, indicato come pubblico malfattore, d’essere rieletto a maggioranza ampliata. Proprio il carattere (profondamente) democratico delle istituzioni americane e quello federale costituiscono i maggiori ostacoli a una democrazia del genere.

L’articolo di Fukuyama, pertanto coglie nel segno allorquando pensa che siamo in una nuova fase della storia americana e che il liberalismo praticato ha subito due grosse distorsioni che lo differenziano da quello classico.

Tanti anni fa, proprio nell’Opinione-mese (dicembre 1990) commentavo il famoso articolo di Francis Fukuyama sulla “fine della storia”. Saggio che prospettava due tesi fondamentali: l’una che col crollo del comunismo “Non l’uomo nuovo nato dal superamento dei valori e dell’organizzazione politico-sociale della borghesia, ma la società dei diritti dell’uomo e dei consumi costituirebbe l’ultima (e definitiva) forma di organizzazione umana”; l’altra che “ciò non è dovuto alla sola superiorità economica del sistema liberale rispetto a quello comunista. Prima che effetto di una débacle economica, l’evoluzione (o meglio la rivoluzione) dei paesi comunisti sarebbe il frutto della sconfitta ideologica”. Mentre sostanzialmente concordavo che con il crollo del comunismo era venuta meno la contrapposizione politica borghesi/proletari, ritenevo che di fine della storia non era proprio il caso di parlare perché contraria alla costante (regolarità) del conflitto (Machiavelli) e del nemico (Schmitt) e credere di liberarsi di una regolarità del politico è come voler abolire la legge di gravità. Finita una contrapposizione se ne fanno avanti altre. Il trentennio passato ce l’ha confermato.

Anche per questo intervento di Fukuyama bisogna da un lato dar atto allo studioso nippo-americano di aver preso atto del cambiamento epocale dato dalla vittoria di Trump, dall’altro di aver considerato che tale fatto avrebbe fatto regredire il liberalismo classico, invece che far dimagrire le due “deformazioni che ricorda”.

Invece se per le distorsioni la previsione di Fukuyama è vera, non lo è per il liberalismo classico. Il quale, almeno in termini di chiarezza e realismo, ha, probabilmente, qualcosa da guadagnare.

 

venerdì 8 novembre 2024

Teodoro Klitsche de la Grange: "Trump e l'onda lunga della Storia"

Ho letto tanti commenti sulla vittoria del Presidente Trump e si possono – grosso modo – suddividere in gruppi, a seconda della causa, indicata del successo del Tycoon poco annunziata dalla comunicazione mainstream un po’ perché temuta, di più ancora perché di danno alla candidatura della Harris.

Prima causa: il popolo si è sbagliato. Ciò capita a tutti, anche a governanti che, in quanto uomini, non sono infallibili, tranne il Papa, che ha però il supporto dello Spirito Santo (scusate se è poco) almeno quando parla ex cathedra.

Il retropensiero (neppure tanto retro) di tale argomento è invece che (oltre al Papa) sono infallibili i “tecnici”, le élite, alcune televisioni e certi giornali (la maggioranza) ecc. ecc. Questo perché i suddetti infallibili giudicano applicando fatti, norme, principi, protocolli, griglie di valori corretti. Che la congruità delle proposte si valuti in base ai risultati conseguiti più che alla conformità alle regole è un criterio loro del tutto estraneo. Che alla base del successo di Trump ci fosse il giudizio positivo degli americani su 4 anni di presidenza Trump, fossero i buoni risultati economici e forse ancora di più il fatto che, contrariamente a tutti i suoi predecessori nella carica (a partire dagli anni ’90) a) non avesse fatto guerre b) anzi ne ha chiusa una, non era considerato dal commentatori ZTL.

Seconda causa: le nostre idee, i nostri sogni sono più belli di quelli di Trump il quale ha ingannato abilmente il popolo facendogli credere che i suoi siano preferibili. Anche tale argomento è facilmente contestabile: da un lato perché gli elettori valutano più i risultati (mediocri) dei governanti che i loro (buoni) propositi elettorali. In secondo luogo perché la sinistra, soprattutto quella comunista, ha sempre manifestato un abisso tra le mete radiose proposte (le società senza classi, la pace universale, l’uguaglianza, la prosperità… e via sognando) e le (modeste) realizzazioni conseguite (causa principale del crollo planetario del “socialismo reale”).

Onde a questo genere di argomenti i popoli sono abituati, e sostituire le società senza classi con la crisi climatica non li rende più credibili.

Terza causa: gli errori e le ingenuità commessi nella campagna dagli spin-doctor incompetenti, dal cattivo uso della rete, fino alle stars inutili e talvolta controproducenti. Carattere comune di tali argomentazioni è di considerare tutti aspetti e figure accessorie. Ossia il cibo è buono, ma presentato e cucinato maldestramente. Anche qui pare piuttosto un tentativo di far “volare gli stracci” per salvare direttore d’orchestra e spartito.

E si potrebbe continuare a lungo: ma siccome tutti tali argomenti hanno il connotato comune di essere frutto – totale o parziale – di fantasia, e a questa non c’è limite (mentre alla realtà, sì) preferisco continuare con gli argomenti contrari: cioè perché Trump, secondo me, ha vinto. Partendo, ovviamente, dai dati di fatto.

In primo luogo: la vittoria dei partiti anti-establishment (detti anche populisti, sovranisti, ecc. ecc.) non è un fenomeno statunitense, ma quasi planetario, almeno nell’occidente. Ovviamente tra gli uni e gli altri movimenti ci sono differenze, ma una spiegazione non può prescindere dai connotati comuni che, accanto alle diversità nazionali, tali soggetti politici (e i di essi elettori) hanno.

Come scrivo da parecchi anni, se fino al crollo per implosione del comunismo, il raggruppamento amico-nemico coincideva (principalmente) con quello economico borghesi/proletari, è stato sostituito dal nuovo globalisti/populisti (establishment contro anti-establishment). Tale contrapposizione si articola in tutta una serie di caratteri comuni (e contrapposti).

In primis della differenza del sentire comune, come già scriveva trent’anni fa Cristopher Lasch: le élite globaliste e i governati hanno “tavole di valori” differenti e spesso opposti. L’idem sentire de re publica si atrofizza e si sviluppa la differenza etica, che, secondo Hegel, è alla base della discriminante amico/nemico.

In secondo luogo (ma forse le spetta il primo)si sviluppa la differenza d’interessi tra classe dirigente e governati a sua volta suddividentesi in più aspetti, a cominciare dal dilatarsi della “forbice” della differenza dei redditi, ma del pari visibile dall’imposizione/elusione tributaria (i “paradisi” fiscali) dalla delocalizzazione (e non solo).

In terzo luogo alle rivendicazioni identitarie. Anche qua si potrebbe continuare a lungo: resta il fatto che argomenti “etici”, “identitati” ed “economici” sono comuni a tutti i movimenti anti-establishment: dai gilet-jaunes alla rust-belt, dai leghisti ai seguaci di Orban.

Per cui continuo a pensare che la vittoria di Trump, così come quella delle forze anti-establishment nel resto del mondo sia dovuta ad un cambiamento epocale della politica. Come scriveva Schmitt nell’età moderna il criterio del politico è cambiato a seconda dei periodi seguendo lo Zentralgebiet (dal teologico al morale, da questo all’economia): ora siamo in una fase nuova, un nuovo Zentralgebiet. E Trump, come Orban, Le Pen, la nostra Meloni sono l’effetto e non la causa del cambiamento.