giovedì 17 giugno 2021

Teodoro Klitsche de la Grange: "Surtout pas trop de zèle"

 

I miei (pochi) lettori mi consentano di ritornare su un argomento da me assai frequentato: la disparità delle armi tra pubblica amministrazione e privati nelle controversie (meglio nel contenzioso) tributario, amministrativo e civile. Disparità incrementata dalla c.d. “seconda Repubblica”, a dispetto del fatto che la “parità delle armi” (processuali) è stato costituzionalizzata nel 1999 con la novella all’art. 111 della Costituzione. Prima e dopo la suddetta novella, il legislatore ha fatto tutto il possibile per contraddire a livello legislativo, quanto solennemente introdotto in quello costituzionale. Fin qui nulla di nuovo, se non lo straripante tasso d’ipocrisia ma ancor più di disinformazione, onde il problema, che riguarda tutti i cittadini italiani è costantemente sottovalutato o occultato nel dibattito pubblico.

Piuttosto occorre chiedersi se il sistema usuale e normale per riottenere il riequilibrio delle armi, ossia: a) l’istituzione di mezzi, soprattutto giudiziari, di difesa idonei a compensare almeno in parte lo squilibrio; b) la loro indipendenza; c) la parità, o almeno la non eccessiva disparità tra pubblico e privato, siano sufficienti in una situazione largamente compromessa come quella attuale.

A tale proposito è bene andare a quanto ne pensava Vittorio Emanuele Orlando. Com’è noto la tutela del privato verso le pretese dell’amministrazione fu attuato dalla classe dirigente liberale soprattutto con due leggi. La legge abolitiva del contenzioso amministrativo (del 1865) e la legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (1889). Ma in particolare la prima attirò le considerazioni negative di Orlando sull’accoglienza che aveva ottenuto dalla magistratura dell’epoca. Scrive il giurista siciliano “Ciò che davvero importa, in questa materia, è di non lasciarsi sviare dalle incertezze della giurisprudenza. L’abbiamo detto più volte, e l’osservazione non è nostra soltanto: la legge del 1865 fu troppo liberale, e non trovò le condizioni ambientali idonee al suo sereno e completo svolgimento. Il sentimento autoritario era ed è ancora troppo radicato in noi, popolo nato ora alla libertà. Sicché, tutte le volte che essa ha potuto, la giurisprudenza ha allontanato da sé il calice amaro di agire come freno e limite del potere esecutivo. E così avviene, per una coincidenza che dopo l’anzidetto non sembrerà del tutto accidentale” (voce “Contenzioso amministrativo” del Digesto Italiano, Torino 1895-1898, il corsivo è mio). E sulla “timidezza” del potere giudiziario nei confronti di quello governativo-amministrativo ritorna più volte (nel saggio citato e altrove).

C’è da chiedersi se la “timidezza” attribuita da Orlando alla magistratura a lui contemporanea sia (o sia ritornata) ad essere connotato di quella attuale, magari non qualificabile così, ma piuttosto sodalizio, ansia, timore per le pubbliche finanze; ma il cui esito, comunque è di agevolare, ancor più di quanto non abbia fatto il legislatore, le pubbliche amministrazioni litiganti.

Prendiamo un paio di statistiche come esempio. Quella dell’Agenzia delle Entrate del 2020 evidenzia un “indice di vittoria” (per l’Agenzia) pari al 76,2% delle liti. Solo che a leggerlo risulta che a tale lusinghiero risultato hanno contribuito…anche le cause perse. Infatti la P.A. ha calcolato a proprio favore nell’indice anche quelle “parzialmente favorevoli” cioè quelle altrettanto “parzialmente favorevoli” al contribuente.

A un lettore attento piuttosto che tale criterio ad usum delphini, probabilmente apparirebbe più conforme alla realtà calcolare, salomonicamente, gli esiti parzialmente favorevoli in ragione della metà (a favore dell’Agenzia) e non tutti a favore. Quel che più conta e che (a tacer d’altro) dall’esperienza personale di difensore, e da quella di altri colleghi, quasi tutti i ricorsi totalmente o parzialmente favorevoli al contribuente si concludono con la compensazione delle spese (cioè il contribuente, pur vittorioso, paga per intero il proprio difensore), mentre nel caso contrario (di soccombenza totale) il Giudice tributario pone quasi sempre  a carico dello stesso le spese di giustizia. Mezzo semplice  ed efficace per disincentivare il contenzioso… a carico delle parti private.

Altro esempio: i giudizi di equa riparazione (Legge Pinto). Essendo quasi tutti gli esiti a favore delle parti private, il legislatore aveva già messo le… mani avanti, disponendo che le spese andassero liquidate in ragione della metà della tariffa ordinaria. Ma evidentemente tale zelo non appariva sufficiente. Per cui gli importi delle spese a carico delle P.P.A.A. resistenti solo calcolati dai Giudici in misura minore di guisa che è normale leggere che un processo Pinto alla Corte d’Appello, è “remunerato” con 3-400 euro o un giudizio al TAR con 2-400 euro.

E si potrebbe andare avanti, con risultati (quasi) sempre simili. Certo c’è da chiedersi se tali risultati siano dovuti più che alla “timidezza”, che non appare sempre come connotato della giustizia italiana, come confermano i processi a Ministri, non ultimi quelli a Salvini per decisioni governative (tutte) politiche, ma piuttosto ad un (malinteso) senso dell’interesse pubblico. Per cui ci si sente gratificati dal limitare gli esborsi a carico delle (disastrate) finanze italiane. L’ingenuità (almeno) di tale comportamento è che se si rende più economico il litigare al soccombente, il risultato sarà quello di aumentare il numero delle resistenze in giudizio infondate. Meglio seguire il consiglio di Talleyrand ai funzionari francesi “surtout pas trop de zèle”. Ma ancor di più l’interesse pubblico non è tanto un rapporto di dare e avere, tra incassato e speso. È in primo luogo l’affetto, la solidarietà tra cittadini della stessa comunità, compresi governati e governanti. Se la si scuote o la si svuota, con espedienti e artifizi da causidico, s’incrina e alla fine si distrugge la stessa comunità e istituzione politica. Cammino che in gran parte abbiamo già percorso.


giovedì 3 giugno 2021

Teodoro Klitsche de la Grange: "Intervista ad Orlando (Vittorio Emanuele)"


 

Nubi minacciose si addensano sulla legge Severino: lega e radicali la vogliono – dice la stampa- abrogare per referendum. Un’invadenza inammissibile e sguaiata della volontà popolare in una materia (e vicenda) riservata alle élite. Allo scopo di farcela chiarire, abbiamo chiesto un’intervista ad Orlando, cioè a Vittorio Emanuele (e non al ministro PD) autorevolissimo statista e giurista. Ci è parso il più titolato a discuterne. E gentilmente ce l’ha concessa.

Caro Presidente che ne pensa della giurisdizione “politica” (e ordinaria) nei confronti delle massime autorità dello Stato?

Che ho scritto proprio della massima, cioè, ai miei tempi, quella del Re. Questi è inviolabile e ciò “significa che la persona del monarca non è soggetta ad alcuna giurisdizione; o, in altri termini, non esiste nello Stato alcuna autorità o potere capace di esercitare un’azione coercitiva sulla persona del Re. Il che importa, pure, che Egli non può sottostare al comando di alcuna autorità, non potendosi dare, nel campo del diritto, un comando che non sia assicurato da sanzioni coattive”. Se c’è un potere che “comanda” al Re o a similari “organi sovrani” significa il sovrano è colui che giudica e non chi è giudicato.

Ma così si crea un potere irresponsabile.

Ed è inevitabile: “un aspetto della nozione di inviolabilità dà luogo al concetto di irresponsabilità politica…Quanto poi a tutta la giurisdizione penale, poiché essa dà sempre luogo, in atto o in potenza, ad una coazione fisica, esercitata sulla persona, la norma dell’inviolabilità importa che il Re non può mai esservi sottoposto. Il che significa che, astrattamente, il Re potrebbe commettere un reato e restare impunito… ” per cui il principio onde il Re è sottratto ad ogni giurisdizione è imposto da una assoluta necessità; “poiché ognun vede come quell’autorità (per es., un giudice istruttore), che potesse disporre con un suo ordine della libertà e della persona del Capo dello Stato, avrebbe virtualmente un potere superiore; non sarebbe possibile distinguere l’arresto del Re dalla destituzione di esso. Il che importerebbe una contraddizione anarchica, poiché il Re non sarebbe più un Organo Supremo, ed anzi il Capo dello Stato il quale, per ciò stesso, non può nello Stato ammettere alcun superiore”.

Potrebbe spiegarcela più in dettaglio?

Certo. L’irresponsabilità può “considerarsi innanzi tutto da un punto di vista di ordine politico e poi da un punto di vista giuridico. Politicamente pare che abbia un’elevata ragione e risponda ad un interesse pubblico gravissimo il sottrarre la persona” del “sovrano” sia a censura diretta che ad “attriti pericolosi fra i più elevati poteri pubblici, che potrebbero poi degenerare in un dissidio irreparabile, col danno o della libertà dei cittadini o della forza dello Stato”. E poi vi sono altre forme di responsabilità che già Benjamin Constant considerava più consone alla natura del rapporto e della funzione.

Ma oltre che al Re, come Lei ha scritto, si applica anche agli “organi sovrani” dello Stato, al Parlamento per primo.

Come ho sostenuto questa è una specie particolare della “questione generale della natura dell’immunità parlamentare in relazione con la teoria degli organi sovrani”.

Ma così la giustizia non è più uguale per tutti…

Dicono nei talk-show. Ma se lo fosse non esisterebbe più lo Stato, come pensava un mio collega francese. La realtà è che ogni istituzione politica si fonda sul presupposto del comando/obbedienza, che ovviamente è un rapporto tra disuguali.

Perciò ritengo che è normale che in ogni regime politico vi sia un tale tipo di diseguaglianza. Questa è la regola e non l’eccezione e cioè “che le immunità parlamentari sono da considerarsi non come diritto di eccezione ma facciano parte, invece, del diritto comune e quindi si pongano in via di regole generali ed anzi come capisaldi di tutto l’ordinamento giuridico, dato, si intende, lo Stato rappresentativo”. Ossia quello che voi chiamate “democratico-liberale”.

E la storia dimostra che, pur contestato e anche se lesivo del principio di eguaglianza, in regimi democratici, il principio dell’immunità degli “organi sovrani” è stato sempre vigente “Questa forza di resistenza del principio… basterebbe da sola ad attestare la necessità del suo riconoscimento; possiamo aggiungere ora che vale a dimostrare che quel principio si pone come una condizione dell’istituto parlamentare, ed ha quindi in ciò il titolo di un vero e proprio diritto comune per quegli Stati il cui ordinamento su quell’istituto si fonda” come la vostra Repubblica.

E la ragione, ancor più per un regime democratico, è duplice: se non fosse la volontà popolare a decidere chi comanda, ma un ufficio giudiziario, sarebbe anche leso il principio che, in democrazia, è il popolo a eleggere (e non confermare) da chi vuol essere governato.

Per cui?

Meglio che sia il popolo e non altri a deciderlo. Come scriveva Machiavelli “i pochi sempre fanno a modo de pochi”. Per cui è meglio che lo facciano tutti.

Teodoro Klitsche de la Grange