lunedì 31 agosto 2009

B. Memoriale dei villaggi palestinesi distrutti: 36. Damira, fra i 200 villaggi distrutti “prima” della mitica fuga ”dopo” l’«invasione» araba.

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«Non mi faccio illusioni: ci vorrà ben più di questo libro per ribaltare una realtà che demonizza un popolo colonizzato, espulso, occupato, e glorifica invece quello stesso popolo che l’ha colonizzato» (ivi, 220). I Lettori di “Civium Libertas” sono invitati a collaborare alla redazione di un Memoriale per ogni singolo villaggio distrutto durante la pulizia etnica del 1948 e negli anni successivi fino al nostro presente.

Personalmente, avverto un forte senso di disgusto ed indignazione quando leggo in limine Shlomo Ben-Ami, che nella Prefazione al ben recensito suo volume sulla Palestina, rende colpevole gli arabi per la loro durissima e tenace opposizione «ad accettare una comunità ebraica al loro interno» (op. cit., 11). Da fervente sionista con pratica di ambasciatore, costui pensa di poter impunemente coniugare ipocrisia morale ed eufemismo diplomatico. In realtà, gli ebrei avevano convissuto pacificamente con gli arabi per tutti gli anni che precedettero i primi insediamenti coloniali sionisti nel 1882. Da quest’anno le cose cominciano progressivamente a deteriorarsi con vivissimo disappunto sia degli ebrei residenti ante 1882 sia dei loro ospiti arabi. Le fonti dottrinali del sionismo e la sua prassi politica documentazione che la pulizia etnica dei palestinesi era contenuta in nuce nella genesi stessa del sionismo, che non ha autonoma consistenza senza il suo contenuto razzista e coloniale. L’ambasciatore scrittore Ben Ami, che ben si guarda dall’attingere a fonti primarie, è inoltre ambiguo nell’uso dell’espressione “comunità ebraica” quasi che “ebraico” fosse la stessa cosa di “sionista”.

Links:
1. All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948.
2. Institut for Palestine Studies. The most reliable sorce of information and analysis on Palestinian affair and the Arab-Israeli conflict.
3. I villaggi distrutti.


35. Khirbat Azzun 36. 37. Cherquis

Damira

1. Il mito della fuga palestinese. – A negare decisamente l’equivalenza di “ebraico” e “sionista”, oltre a scrittori ebrei come Rabkin, troviamo anche lo storico Pappe che qui di seguito descrive l’urbicidio del 1948, attingendo a fonti primarie. Il villaggio di Damira subisce la sorte che era stata freddamente premeditata nei decenni precedenti dalla ferocia coloniale sionista.
Già verso la fine di marzo, le incursioni ebraiche avevano distrutto una gran parte dell’entroterra rurale di Giaffa e di Tel Aviv. C’era un’apparente divisione di compiti tra l’Haganà e l’Irgun. Mentre l’Haganà si spostava in modo ordinato da un posto all’altro secondo un piano, l’Irgun si permetteva azioni sporadiche in villaggi non inclusi nell’elenco originale. Ed è così che l’Irgun arrivò al villaggio di Shaykh Muwannis (o Munis, come è conosciuto oggi) il 30 marzo e ne cacciò con la forza gli abitanti. Oggi, sopra le rovine del villaggio, si estende l’elegante campus dell’Università di Tel Aviv, mentre una delle poche case rimaste ospita il club del corpo insegnante40.

Senza il tacito accordo tra l’Haganà e l’Irgun, Shaykh Muwannis forse si sarebbe salvato. I capi del villaggio si erano seriamente sforzati di intrattenere rapporti cordiali con l’Haganà, proprio per evitare l’espulsione degli abitanti, ma gli “arabisti” che avevano concluso l’accordo, il giorno in cui comparve l’Irgun ed espulse il villaggio intero, erano spariti41.

Ad aprile le operazioni nelle campagne erano più strettamente collegate all’urbicidio. I villaggi vicini ai centri urbani furono occupati e i loro abitanti espulsi, e, a volte, anche massacrati in una campagna di terrore volta a preparare il terreno per la conquista delle città.

La Consulta si incontrò di nuovo mercoledì 7 aprile 1948. Si decise di distruggere tutti i villaggi sulla strada Tel Aviv-Haifa e Gerusalemme-Giaffa ed espellerne gli abitanti. Alla fine della giornata, quasi nessun villaggio era stato risparmiato, a parte pochissimi 42.

Così, il giorno in cui l’Irgun cancellò Shaykh Muwannis, l’Haganà occupò in una settimana sei villaggi nella stessa zona: Khirbat Azzun fu il primo, il 2 aprile, seguito da Khirbat Lid, Arab al-Fuqara, Arab al-Nufay'at e Damira, tutti epurati entro il 10 aprile, e Cherquis il 15. Prima della fine del mese, altri tre villaggi in prossimità di Giaffa e di Tel Aviv, Khirbat al-Manshiyya, Biyar ‘Adas e il grosso paese di Miska, furono presi e distrutti43.

Tutto ciò avvenne prima che riuscisse a entrare in Palestina il primo soldato regolare arabo, e ora diventa arduo tenere il passo, sia per gli storici di allora che per quelli successivi. Tra il 30 marzo e il 15 maggio, furono occupati 200 villaggi e i loro abitanti espulsi. Questo è un fatto che deve essere ripetuto, poiché infrange il mito israeliano secondo il quale gli “arabi” fuggirono quando cominciò l’«invasione araba». Circa metà dei villaggi arabi erano già stati attaccati quando, alla fine, come sappiamo, i governi arabi, pur riluttanti, decisero di inviare le loro truppe. Altri 90 villaggi sarebbero stati cancellati tra il 15 maggio e l’11 giugno, quando finalmente entrò in vigore la prima delle due tregue 44.
Ilan Pappe,
op. cit., 132-133
Note:
40. Deposizione resa da Hanna Abuied, sul sito web www.palestineremember.com.
41. Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem, p. 118. [La lettura di Morris, che non si può tuttavia ignorare, ci riesce quanto mai irritante. Ad esempio, ci dà qui fastidio già il solo titolo: per noi non di “problema” si tratta, ma di vero e proprio crimine. L’uso del termine “problema” fa già capire in quale ottica si pone lo storico ufficiale di regime Benny Morris e quale uso delle fonti, messe a sua disposizione, ci si può aspettare che faccia. La lettura di Morris va perciò fatta con il dovuto sospetto e la dovuta circospezione. Nota di A.C. alla nota di I.P.]
42. Benny Morris, nella versione ebraica, fa riferimento alla riunione a p. 95, Ben Gurion lo ricorda nel suo Diary.
43. Molte di queste operazioni sono ricordate in ibidem, pp. 137-167.
44. Le informazioni più precise sui numeri, metodi e le mappe sono in Salman Abu Sitta, Atlas of the Nakbah.
Ammesso e non concesso il fatto che costituisce motivo ricorrente della propaganda israeliana, e cioè che i palestinesi avrebbero spontaneamente abbandonato le loro case e i loro villaggi, per vicende connesse alle strategie belliche, diventa arduo comprendere perché mai – finiti i combattimenti – ognuno non potesse ritornare alla propria casa ed al proprio villaggio. Invece, le case furono saccheggiate ed i villaggi distrutti di sana pianta. Le abitazioni migliori che furono risparmiate vennero “assegnate” ad ebrei, ai quali veniva riconosciuto un assai strana “diritto al ritorno” in case che non erano le loro ed in terre dove non erano nati né loro né i loro antenati. In pieno XX secolo la più folle superstizione religiosa-sionista serviva a coprire la più colossale impostura di tutti i tempi in nome di un Dio che non ha nulla di divino, ma diventa un agente criminale che meriterebbe di essere giudicato e condannato da ogni tribunale umano di questa terra. Le menzogne tirate fuori per coprire una pulizia etnica che ha certamente avuto determinanti complicità nelle maggiori potenze dell’epoca, uscite vincitrici della seconda mondiale con una pretesa arbitraria di superiorità morale sui popoli vinti. La storia, per chi sa seguire e leggere gli eventi, ha dimostrato presto (già con Hiroshima e Nagasaki) che i vincitori non sono ipso facto migliori dei vinti. La Nakba, ossia la pulizia etnica della Palestina, è assolutamente certa e di un’evidenza incontestabile, mentre la Shoah – mito assurdamente, antigiuricamente e immoralmente fondativo dello stato “criminale” (Jaspers) di Israele – ha bisogno di una sua verità imposta per legge per essere costrittivamente creduta. A tanta barbarie e vilipendio della libera ricerca della verità non si era mai assistito a memoria d’uomo. Per chi appena dipana il velo delle menzogne del sistema mediatico nulla contrasta maggiormente con i comuni criteri del buon senso. Tuttavia, ognuno di noi nel suo microcosmo concettuale può dare un grande contributo alla lotta spirituale per la verità, respingendo le menzogne che ogni giorno ci vengono propinate attraverso i canali ufficiali dell’informazione e dell’educazione. Non siamo impotenti. Abbiamo la forza della verità, del senso umano di giustizia.

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