DONNA PRASSEDE ABITA A CAPALBIO
A distanza di cinque
mesi dal 4 marzo e di parecchi anni dal momento in cui si capiva che il vento
della storia stava cambiando, la sinistra non si è ancora rassegnata al
deperire della dicotomia destra/sinistra, o meglio, borghese/proletario, come
scriminante (prevalente) dell’amico/nemico.
A fronte di qualcuno che
avverte la necessità di un “populismo di sinistra” (alla Laclau?), e ciò
significa aver maturato la convinzione che il “vecchio” armamentario è ormai
obsoleto, ve ne sono altri, meglio incardinati nell’establishment, i quali ritengono: a) che quella distinzione non sia
obsoleta; b) che potrà riemergere; c) che il di essa deperimento sia il frutto
della (più abile) propaganda populista.
Il tutto spesso
confondendo tra distinzione del secolo breve (borghese/proletario) con altre
scriminanti (e lotte) di classe. Se nel “Manifesto” del partito comunista Marx
ed Engels sostengono che “La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si
distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi. La società
intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi
classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato” è pur
vero che scrivono anche che “La storia di ogni società sinora esistita è storia
di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della
gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi
sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta
ininterrotta”; ossia identificano come costante
la lotta di classe, in particolare tra oppressori ed oppressi, ma come variabile il discrimine tra i gruppi
sociali contrapposti. Il problema che si pone, cui occorre dar risposta non è
se esiste o meno il conflitto, e neanche se esista o meno tra “oppressi e oppressori” – domande la cui risposta
è “scontata” - ma se sopravviva quello tra borghesi e proletari e, ancor più se
abbia ancora il carattere di scriminante
politica prevalente, o piuttosto non
sia ormai neutralizzata e depoliticizzata
come, in altri periodi storici, quella tra cattolici e protestanti,
rivoluzionari (borghesi) e reazionari dell’ancien
régime, e così via.
È un tratto comune a
tali ragionamenti della sinistra in affanno di essere iniziati da due-tre anni
(o poco più), cioè da quando il doppio colpo dell’elezione di Trump e della
Brexit dimostrava che la “ribellione della masse” alle politiche delle élite
era così intensa da prevalere prima nel “centro” dell’impero, e in due Stati
particolarmente importanti.
Qualche giorno fa ha
suscitato un certo dibattito l’affermazione dell’on. Franceschini secondo il
quale al PD occorre impedire che si consolidi il “blocco sociale”
corrispondente alla maggioranza populista di governo (dividere e quindi ridurre
i nemici è la migliore tattica per conseguire la vittoria, come già espresso
dal detto romano divide et impera).
Resta da vedere se una simile tattica sia ancora tempestiva e credibile
essendosi già costituito il “blocco sociale” populista sul rifiuto delle terapie,
sostenute (più) energicamente proprio dal PD nell’ultimo ventennio, di aumento
delle imposte e riduzione delle prestazioni sociali (mentre il “contratto di
governo” prevede diminuzione di quelle e aumento di queste).
Più ancora la
separazione delle élite (PD e non solo) dalle masse (il nuovo “blocco sociale”)
era stata prevista già da decenni da commentatori e intellettuali
marginalizzati dall’establishment,
non solo italiano. E non era, di converso, affatto capita dalla cultura
“ufficiale”.
All’uopo è interessante
rileggere – tra i non tanti – un libro pubblicato nel 1997 da un piccolo e
coraggioso editore, deceduto da oltre quindici anni, Antonio Pellicani,
“Destra/Sinistra” che raccoglie le opinioni al riguardo di pensatori italiani e
non, i quali declinavano in vario modo il deperimento della distinzione
destra/sinistra e il progressivo distacco dei governati (in particolare gli
elettori dei partiti di sinistra) dalla classe dirigente.
Il volume, proprio
perché collettaneo, dimostra come, oltre vent’anni orsono, la distinzione
suddetta fosse in via di neutralizzazione e come tale considerata sempre meno sentita ed utilizzabile. Tutti gli
autori del libro erano marginali rispetto al “pensiero ufficiale” italiano, e
neppure granché amati all’estero; tuttavia,
a leggerlo ora, si può in larga misura constatare che le valutazioni lì fatte
mostrano la preveggenza di gran parte di quanto sarebbe successo, in Italia e
all’estero, nei successivi vent’anni.
In particolare
l’attenzione dei suddetti autori si era soffermata sui seguenti punti:
1) il progressivo
distacco tra classi dirigenti e popolo, peraltro analizzato sotto diversi
profili (politico, di costumi, di convinzioni, di modi di vita, di redditi).
2) In conseguenza la
scarsa considerazione dei governanti verso i governati, sulla scorta del noto
lavoro di Cristopher Lasch “La
ribellione delle élite”.
3) E sempre di
conseguenza la mera e calante rappresentatività del popolo da parte delle
élite, per cui partiti asseritamente o storicamente “aperti” ad istanze dei
meno abbienti (come quelli progressisti), perdevano consensi malgrado che, in
taluni casi, le condizioni dei loro (ex) elettori fossero peggiorate.
4) La difesa delle
“particolarità” nazionali rispetto alla globalizzazione.
5) La perdita di senso
della distinzione destra/sinistra o meglio Borghese/proletario.
Di tutte, questa era la
previsione più facile: una volta
imploso il comunismo e L’Unione Sovietica, la “ guerra fredda” era cessata
per…K.O. tecnico. È vano cercare contributi altrettanto preveggenti nei politici e intellettuali della sinistra (o del centro
sinistra) italiano. Per vent’anni la loro liturgia ha oscillato tra anatemi
all’arcinemico Berlusconi ( che poi tanto nemico, oggettivamente, non è mai
stato ma, piuttosto un concorrente al potere) paragonato a Hitler o Videla, e Te deum alla Costituzione più bella del
mondo, che, nel frattempo era spesso disapplicata allegramente – e da coloro
che salmodiavano.
Di analisi come quelle
testè ricordate, e che tenessero conto delle novità in arrivo, non risultano;
se non, e alla lontana, l’Impero di Negri – Hardt (peraltro anch’essi pensatori non proprio ortodossi).
A questo punto occorre
prendere atto della scarsa chiaroveggenza di un certo settore delle classi
dirigenti, in particolare di quelli che avevano più spazio nella cultura – e
nell’industria culturale - di regime. Spazio completamente negato agli altri.
Ancora qualche mese fa, uno degli autori di quel libro (e di tanti altri sul
tema) Alain de Benoist, è stato
attaccato – e con esso la Fondazione Feltrinelli – con un appello di insegnanti
di università, perché non fosse invitato a parlare a un Convegno della
Fondazione, in quanto ideologicamente di destra. De Benoist da trent’anni va
ripetendo proprio quelle tesi che successivamente sono state confermate dai
fatti, onde sarebbe stato proficuo, per i suoi contestatori, andarlo ad
ascoltare, dato che i suoi libri non hanno probabilmente mai letto.
Discriminare
ideologicamente, quando le analisi eretiche, confortate dai fatti, provano il
contrario, è solo imitare donna Prassede che, come scrive Manzoni, aveva poche idee ma a quelle–
come agli amici – era incrollabilmente affezionata.
E più ancora, che se
politici ed intellos non hanno previsto nulla di quello che
stava accadendo – non fosse altro che per attutire la loro caduta prevedibile e
da altri prevista – le spiegazioni possibili sono soltanto due, non antitetiche
ma concorrenti. La prima che la loro “cassetta degli attrezzi”, cioè, in
massima parte, un marxismo edulcorato e un certo illuminismo in parte distorto,
in altre depotenziato, non è il migliore paio d’occhiali per leggere la realtà e
prevedere scenari possibili. L’altra, che quella cassetta non la maneggino
bene. Ovvero che i risultati negativi non sono dovuti solo allo strumento ma anche
all’operatore. Il che
conforta la necessità di cambiare la classe dirigente italiana – o almeno gran
parte di essa.
Perché al contrario del
criterio selettivo di Deng-Tsiao-Ping che l’importante non è il colore del
gatto, ma che acchiappi i topi, in Italia da tanti decenni si applica il
contrario: di scegliere il gatto in base al colore, invece che alla capacità di
cacciare i topi (la quale è considerata, al contrario del colore – essenziale
–un optional).
E i risultati, purtroppo
per la nazione, si vedono.
Teodoro
Klitsche de la Grange
Anche se, come
scrive De Benoist, il successo populista “Ha rivelato l’ampiezza del fossato
che si era già scavato tra le élite e il popolo; fossato, al contempo
ideologico e sociologico. Esso ha rivelato la differenza di un popolo che non
si sente più rappresentato da coloro che pretendono di parlare in suo nome,
essendo questi ultimi accusati di cercare solo di conservare i loro privilegi e
di servire i loro interessi particolari. In effetti, da diversi decenni il
popolo constata che la sua vita quotidiana è stata sconvolta in profondità da
evoluzioni sulle quali non è mai stato consultato e che la classe politica, di
tutte le tendenze, non ha mai cercato di modificare o frenare”, Il populismo, Bologna 2017, p. 14; e
mostra come “ La globalizzazione produce molti “vincitori” tra le élite, ma
milioni di perdenti nel popolo, il quale comprende per di più che la
globalizzazione economica apre la strada alla globalizzazione culturale,
suscitando al tempo stesso dialetticamente nuove frammentazioni”, idem p. 16.
Sostiene Ernst
Nolte “Quella differenza e particolarità, infatti, difesa dalla sinistra
postmoderna, per l’odierna destra moderata è la differenza e la particolarità
della nazione. Così questa si espone certamente all’accusa di “nazionalismo” da
parte dell’intera sinistra, potendo apparire come tarda forma obsoleta di un
fenomeno del XIX secolo o addirittura del fascismo. Ma l’equivoco è
fondamentale. Il presunto “nazionalismo” della destra moderna di oggi accetta
il processo di unificazione da tempo in corso, accetta sia l’unificazione
politica dell’Europa, sia l’unificazione economica del mondo. Esso non è
offensivo, ma difensivo: non è
appunto “nazionalismo”. Tale odierna destra è però convinta che l’unificazione
dell’Europa non può significare la riduzione degli stati nazionali europei a
province e che l’unificazione politica del mondo che conducesse ad un genuino
“governo mondiale” sarebbe il peggiore e più odioso dispotismo mai apparso
sulla terra”. Op. cit. p. 104.
Scrive sempre Paul
Piccone “Nonostante questi ed altri problemi, e come conseguenza della crisi di
ingovernabilità, attualmente il populismo sta sempre più attirando a sé un
diffuso sentimento anti-statale, sia tra la destra tradizionale, sia tra ciò
che rimane della sinistra storica, accelerando così la disintegrazione della
dicotomia politica destra-sinistra, ormai ridotta alla difensiva”. Op. cit. p.117; e sostiene De Benoist
sulla tensione politica della vecchia
contrapposizione “La destra ha perduto il suo nemico principale: il comunismo.
La sinistra ha scelto di collaborare con il suo: il capitalismo. Ne è derivato
che la destra non può più mobilitare i suoi elettori denunciando il “pericolo
collettivista” mentre la sinistra non può più raccogliere i suoi proponendo
loro di “cambiare la società”. Ciò non impedisce tuttavia che, periodicamente,
vengano riportate in vita vecchie diatribe” e anche “L’attuale crisi del cleavage destra-sinistra non significa
dunque che non esisteranno più una destra o una sinistra, ma che tale cleavage, così come lo abbiamo
conosciuto fino ad un periodo recente, ha
ormai perso il significato. Riflesso di un’epoca al tramonto, esso ha semplicemente
fatto il suo tempo. L’attualità non fa che confermarlo”, op. cit. pp. 90-91.
Ovviamente i libri
comparsi sul populismo e sul tramonto della contrapposizione destra/sinistra
sono diversi (anche prima della recente esplosione) e non solo quello qui
citato, proprio in quanto collettaneo.
Tra i quali ricordiamo Marco Tarchi Italia populista, II ed., Il Mulino,
Bologna 2015; De Benoist Populismo. La
fine della destra e della sinistra, Arianna Editrice, Bologna 2017.
Ce n’è una terza,
per la quale riportiamo il giudizio di Alessandro Campi “Chiunque si ostini a
difendere il valore della coppia in oggetto è per ciò stesso un uomo di
sinistra teso a salvaguardare il plusvalore
politico che gli deriva dall’utilizzo … Difendere la dicotomia destra-sinistra è, per un uomo di
sinistra, difendere una rendita di posizione politica, visto che i due termini
che compongono la diade si presentano, nella visione oggi dominante, come
fortemente diseguali e squilibrati”, op.cit.
p. 157.