Orsina analizza
l’attuale crisi dei regimi democratici sottolineandone la causa (principale)
politica e la sua conseguenzialità con la natura della democrazia dei moderni
(cioè post-illuminista).
Questa prende le
mosse da certe promesse; la prima, già nella dichiarazione d’indipendenza degli
Stati uniti, è che ogni individuo ha il diritto di perseguire la realizzazione
della propria felicità. Tale promessa è “connaturato alla democrazia intesa non
soltanto come sistema politico, ma come modello di società. Allo stesso tempo,
però, la pretesa che quella promessa sia mantenuta sottopone il regime
democratico a tensioni insopportabili”. Ma dato che il capitalismo è distruzione
creatrice (Schumpeter) e la modernità anche, le strutture socio-politiche che
vengono distrutte da quelle tensioni sottopongono il sistema a ripetute crisi.
A partire dalla seconda metà del secolo passato “la riaffermazione poderosa di
quella promessa, che all’inizio era stata formulata in termini altamente
politici, ha in breve tempo portato all’affacciarsi di un nuovo soggetto assai
poco adatto alla politica: il narcisista. L’affermarsi di questo tipo umano
contribuisce a far appassire cinque dimensioni fondamentali dell’agire
politico: potere, identità, tempo, ragione e conflitto”.
Dato che
soddisfare del tutto il narcisista è impossibile, le élite di governo “si
sforzano di arginarlo, trasferendo il potere dalla politica verso istituzioni
economiche, giudiziarie, tecnocratiche, spesso sovranazionali… così facendo, la
politica col passare degli anni si va rinchiudendo sempre di più in una
tagliola micidiale: richieste crescenti da un lato, strumenti sempre più deboli
e inefficaci con cui soddisfarle dall’altro”. Per cui la conseguenza, iscritta
nel destino degli aggregati politici umani, è di rivestire un’unica funzione da
poter svolgere “quella del capro espiatorio… questo marchingegno ha agito e
agisce in tutte le democrazie avanzate. Il terzo capitolo del libro, incentrato
su Tangentopoli, cerca di spiegare perché in Italia esso abbia avuto effetti
ancor più dirompenti di quanto non sia accaduto altrove. La fragilità della
repubblica dei partiti, e in particolare la sua incapacità di dotarsi di una
legittimità solida, fanno sì che nella penisola il processo di degenerazione
del politico sia particolarmente grave, e possono quindi dar conto in larga
misura del collasso sistemico del 1992-1993. In quel frangente, d’altra parte,
s’ingenera nei confronti della politica un’ostilità così profonda e violenta da
apparire tutto sommato sproporzionata rispetto alle responsabilità storiche del
ceto di governo, pure notevoli, e più in generale alle cause della crisi”.
Orsina fa derivare
le contraddizioni della democrazia moderna da Tocqueville “Perché una società
fondata sulla promessa-pretesa di piena autodeterminazione soggettiva possa
funzionare nel tempo, tuttavia, è necessario che quanti la compongono rientrino
in una ben determinata categoria antropologica, dai confini ampi ma tutt’altro
che illimitati. La democrazia, perciò, da un lato garantisce agli esseri umani
ch’essi possono essere qualsiasi cosa desiderino, teoricamente senza alcun
limite. Dall’altro però funziona unicamente se essi desiderano entro certi
limiti. Non solo. La democrazia spinge
gli individui a desiderare fuori da quei limiti, e così facendo mette
costantemente in pericolo la sopravvivenza proprio di quel tipo di cittadino
del quale non può fare a meno”; nell’attuale fase narcisistica occorre
riprendere la lezione di Tocqueville il quale “ Nel secondo volume de La democrazia in America distingue con
cura l’individualismo dall’egoismo. L’egoismo è un vizio istintivo che esiste
da sempre ed è presente in ogni cultura: «un amore appassionato e sfrenato di
se stessi, che porta l’uomo a riferire tutto soltanto a se stesso, e a
preferire sé a tutto». L’individualismo è invece un frutto specifico della
civiltà democratica, non è un «istinto cieco» ma «un sentimento ponderato e
tranquillo»” e “La specialità del narcisista consiste nel fatto che la sua
ossessione di se è fondata su una distorsione cognitiva: l’incapacità di
percepire la propria persona e la realtà come due entità separate e autonome
l’una dall’altra” e “Il suo rapporto col mondo è interamente determinato dal
filtro di una prospettiva soggettiva non educata né maturata dal confronto. È
intellettualmente una monade, insomma, prima ancora di esserlo socialmente e
politicamente”.
Il narcisismo del
cittadino post-moderno tende a ridimensionare le citate “dimensioni” dell’agire
politico: in effetti – ancor più - le fa appassire tutte.
Anche la stessa “struttura”
dello Stato borghese che Schmitt considera uno status mixtus, frutto della commistione dei principi di forma
politica e di quelli della borghesia, perché tende a obliterare i primi e a
ridurre i secondi, anche se s’insiste sulla dimensione universale dei diritti
dell’uomo (meno su quelli del cittadino). In questa situazione è difficile che
la democrazia liberale trovi un ubi consistam;
a Constant (e ai “vecchi” teorici del liberalismo) era chiaro il reggersi della
suddetta forma di Stato sul carattere di rappresentanza politica dei due organi
fondamentali (il Re e il Parlamento). Ma se si trascura la dimensione
propriamente politica (cioè sociale ed istituzionale) non è dato capire come l’istituzione
Stato possa applicare e tutelare i diritti (quali che siano). In fondo l’aveva
ben visto Hegel il quale sosteneva che “Lo Stato è la realtà della Libertà
concreta…Il principio degli Stati moderni ha questa immane forza e profondità:
esso fa sì che il principio della soggettività si compia fino all’estremo autonomo della particolarità
personale, e, a un tempo, lo riconduce
nell’unità sostanziale, conservando
così quest’ultima in quel principio stesso”[1].
Al narcisista contemporaneo fa difetto il secondo
movimento.
Come scrive Orsina
“con la fine delle identità collettive, è venuto meno anche il legame fra élite
e popolo: il popolo non riconosce più alle élite il diritto di decidere e guidare;
le élite hanno smesso di considerarsi responsabili nei confronti del popolo”.
In questo contesto
la situazione italiana dopo i primi decenni del secondo dopoguerra, ha dei
connotati peculiari, che la rendono più difficile da gestire di altre grandi democrazie
europee, come Francia e Germania le quali si erano date ordinamenti
costituzionali efficienti e responsabili. L’Italia no, per cui il sistema
politico ha una stabilità, ma precaria. In primo luogo perché era impossibile
che il P.C.I. potesse ascendere al potere “La presenza di quest’anomalia ha
impedito alle istituzioni repubblicane di consolidare la propria legittimità, e
al conflitto politico di organizzarsi in maniera funzionale a quel processo di
legittimazione. Là dove per consolidamento della legittimità istituzionale deve
intendersi non soltanto l’accettazione da parte degli italiani dei valori
democratici considerati in astratto, ma anche, e soprattutto, la loro adesione
all’assetto che la democrazia ha assunto in concreto in Italia. Un assetto al
quale può benissimo negare legittimità pure chi condivida appieno i principi
della democrazia liberale… L’Italia rispetta molti dei dettami della democrazia
liberale, ma non tutti”.
Quindi, ad
applicare le distinzioni di Ferrero, l’Italia dei partiti era in una situazione
di “quasi-legittimità” o di legittimità claudicante.
Per cui bastava una spinta, neppure tanto forte, per mandarla a terra.
“Il sistema
politico italiano, in conclusione, non riesce ad affermare la propria
legittimità né adeguandosi al modello occidentale di democrazia maggioritaria e
competitiva, né proponendosi in maniera convincente come un esempio di
democrazia consensuale antifascista… Alla repubblica dei partiti non restano
altro che argomentazioni congiunturali: non il richiamo esplicito e conseguente
a un insieme di principi politico-istituzionali in armonia con lo spirito del
tempo – quelli che Guglielmo Ferrero chiamava i «geni invisibili della città»”.
In assenza di ciò è costretta a reggersi su regimi “congiunturali”: la Guerra
fredda (in primo luogo), la tenuta delle istituzioni democratiche, l’accrescimento
del benessere (risultato notevolissimo conseguito). Ma quando implose il
comunismo e così la guerra fredda, e la crescita economica rallentò, esplose la
crisi di Tangentopoli, cui Orsina dedica l’ultima parte del libro, e che
“legge” attraverso il pensiero di Elias Canetti e René Girard.
L’epilogo guarda
al futuro, con l’esaminare le varie ipotesi di superamento della crisi della
democrazia, verso le quali l’autore manifesta il suo pessimismo (da
condividere).
Tuttavia scrive
che “La restaurazione della tradizione e il presentarsi di una catastrofe
rappresentano la seconda e la terza ipotesi di soluzione del rompicapo
democratico. Le due ipotesi sono distinte sul piano logico ma hanno cooperato
spesso su quello storico”. Cui può aggiungersi che, come sosteneva M. Hauriou,
il rinnovamento religioso era il fondamento di ogni rinascita delle comunità (e
non solo delle democrazie).
Quanto alla
catastrofe, forse non c’è bisogno di arrivare al peggio (in fondo stiamo vicini
al fondo): se è vero, come già notava Eschilo nelle Eumenidi (e è stato
ripetuto da tanti) che la comunità scopre (e rinnova) se stessa e quindi
propria unità e identità unendosi contro un (nuovo) nemico, il fatto che sia
tramontato (“neutralizzato”) il principale criterio di percezione del nemico e
riconoscimento dell’amico del “secolo breve” e cioè borghese/proletario, e ne
stia sorgendo uno nuovo, può ancora offrire qualche speranza.
Teodoro
Klitsche de la Grange