giovedì 29 maggio 2014

No, il processo, no. - Sul “grande imbroglio” per eliminare Berlusconi...

Gli ultimi mesi ci hanno portato una recrudescenza del “complottismo”, ovvero di quella ricorrente spiegazione che vede negli accadimenti storici una mente/i che li ha voluti e pianificati, ovviamente a proprio beneficio (e sfruttando la dabbenaggine dei più). In genere il complottismo, almeno nell’Italia  repubblicana era una sindrome che affliggeva (prevalentemente) la sinistra. Questa volta la destra, e il complotto è il “grande imbroglio” per eliminare Berlusconi dalla guida del Governo e poi dalla scena politica.

Le prove apportate sono diverse ma si possono, in gran parte, più che contestare, interpretare diversamente.

Ad esempio: Napolitano chiamò Monti nell’estate del 2011 per sondarlo sulla futura nomina  a premier. Ma lo fece perché aveva l’intenzione di giubilare l’avversario Berlusconi, o perché questi e il sistema politico-istituzionale non riusciva a esprimere e realizzare una politica che allontanasse o riducesse la tempesta finanziaria che s’addensava?

Nel primo caso, la direzione dell’intenzione, direbbe un gesuita del ‘600, non era corretta, nel secondo si; almeno a ritenere, come il miglior pensiero politico, che la regola-principe della politica è salus rei publicae suprema lex.

Molti dati poi rimangono oscuri e molti continuano ad esserlo, sia perché se un complotto c’è, ed è un complotto gestito per così dire, da professionisti, non si scopriranno facilmente e sollecitamente i “congiurati” (se no che professionisti sarebbero?); se il complotto non c’è, non c’è nulla da scoprire.

Proviamo invece ad enumerare gli argomenti – anche presuntivi, che suffragano o meno (l’idea – e) la possibilità di un complotto: quale ne fosse l’obiettivo, di che tipo possa essere, l’identikit dei protagonisti, e perché e come sia riuscito. Anche per orientarsi sul da fare.

Contrario all’idea del complotto è che la situazione dell’economia mondiale, e in particolare dell’Eurozona del sistema politico-istituzionale italiano, forzasse il cambio della guardia Berlusconi-Monti; che era quindi non una libera scelta, ma una necessità.

Sicuramente ciò è – in larga parte – vero.

Ma con due correzioni fondamentali: la prima, che, comunque, vi erano forze decise a mandare Berlusconi a casa; la seconda che non era necessitata la scelta del successore (e la di esso azione di governo). E più in generale che le stesse forze che hanno difeso (avallato, assecondato) quella manovra, ne sostengono i presupposti “necessitanti”. Se a facilitarlo è stata la riduzione della sovranità degli Stati, sostengono che è un bene; se un eccesso di liberismo – a livello internazionale – nessuno intende ricorrere alle soluzioni di Friederich List; ove ad essere accusata è l’architettura dell’euro (e dell’Unione europea),  nessuno freme per pronunciare la requisitoria; ove si critichi la gracilità del sistema costituzionale italiano, si risponde che la Costituzione è la “più bella del mondo” come, giustamente, un comico dixit.

In altri termini, forse i  congiurati non hanno fatto un complotto, ma essi, ed altri ne sostengono tutte – o quasi – le condizioni che l’hanno favorito, e che sarebbe ora di cambiare.

Sull’obiettivo del complotto ossia se fosse di far cadere Berlusconi, occorre distinguere. Dato che a “pagar pegno” per la crisi dell’eurozona sono stati quattro governi (quelli di Grecia, Italia, Spagna e Francia), sostenere che l’obiettivo fosse Berlusconi appare riduttivo. Invece appare più probabile che l’obiettivo della crisi fosse quello di far dei soldi, e a farne le spese sono stati quei governi o perché ritenuti meno arrendevoli (dai “complottardi”) e/o troppo arrendevoli o comunque incongrui (dai cittadini).

Quello che invece appare un connotato, particolarmente evidente per l’Italia (e la Grecia), è che mentre in Francia e Spagna la crisi si è risolta – sul piano istituzionale – con l’alternanza tra partiti politici, in Italia il cambiamento è stato extra parlamentare ed extra politico, nonché assai poco democratico. Ancora una volta l’Italia è stata trattata  come l’anello più debole della catena (perché lo è, almeno tra i grandi Stati europei, quelli che un tempo erano chiamati le potenze). E perciò quello cui possono impunemente imporsi le terapie e i medici più sgraditi ai cittadini. A provarlo è la parabola del sen. Monti: osannato  quale salvatore dell’Italia (qualche giornale si spinse a considerarlo quello dell’Europa), dopo i non entusiasmanti risultati del suo governo ha avuto un primo drastico ridimensionamento coi risultati delle politiche del 2013: all’incirca il 10% dei votanti, grosso modo pari alla somma (alle precedenti elezioni e nei sondaggi) dei partiti che avevano costituito la coalizione elettorale pro-Monti. Il “valore aggiunto” elettorale di Monti era quindi pari a un prefisso telefonico. Peraltro aveva propiziato con la sua azione di governo la straordinaria ascesa del movimento di Grillo. Il quale prendeva quasi il triplo dei volti dell’ex rettore. Con i risultati delle recenti elezioni europee il movimento di Monti si riduceva alla percentuale dello 0,7% dei suffragi, meno di 200.000 voti espressi.

Una misura che ne conferma il gradimento minimo che incontra presso il popolo italiano.

Il che per qualcuno – cioè gli sponsor -  è un pregio, ma in politica è un limite gravissimo.

Ancor più nei frangenti critici: un governo sostenuto dal consenso è in grado di prendere decisioni e di farle accettare. Il consenso si converte in forza. Ma se manca quello, viene meno anche questa. Scriveva Federico II° di Prussia  che la potenza di un Sovrano si misura dalla fedeltà del popolo, dall’efficienza degli eserciti, dalla sicurezza delle alleanze e dalla consistenza del tesoro.

Lasciamo perdere eserciti e tesoro (punto dolente); le alleanze poi non sono state granché di aiuto. Il sostegno che ci hanno dato somigliava, per certi alleati, a quello che la corda offre all’impiccato.

Rimaneva la fedeltà (il consenso) dei cittadini (minimo): da qui la debolezza di un governo il cui principale sostegno, non essendo quello popolare, dipendeva da altri, cui doveva rendere conto. I quali perciò avevano motivo di preferire un governo gracile, ad uno, se non forte, almeno più robusto.
Quanto ai protagonisti, la prima domanda che si pone è sono nazionali o stranieri? La domanda appare oziosa in un paese come l’Italia, dove il più delle volte, chi trama all’interno trova il sostegno esterno, e chi lo fa da fuori, lo consegue all’interno. Il tutto facilitato non solo da specificità nazionali, non riconducibili ad aspetti istituzionali, ma dall’assetto policratico-pluralistico del sistema costituzionale.

Quindi appare probabile che siano interni ed esterni.

Quanto agli effetti del “complotto” ne ha avuto diversi. In primo luogo è servito a trasferire ricchezza italiana (e dagli altri paesi mediterranei) a rentiers nazionali e no, sotto forma di esosi tassi d’interessi, attraverso l’aumento delle imposte, già tanto elevate. L’IMU, l’IVA e così via, sono i “tributi”, le “indennità”, le “riparazioni” che i cittadini italiani hanno pagato ai rentiers, De Benoist sostiene probabilmente con ragione che ci troviamo nella fase invernale di un ciclo di Kondratieff, quello in cui il capitale è indirizzato ad impieghi prevalentemente finanziari.

Per cui la crescita del debito (e dei debitori) è appetita quale fonte d’impieghi la cui domanda nel settore industriale si va riducendo.

In secondo luogo (e quale mezzo al fine suddetto) di togliere i governi più scomodi.

Che l’obiettivo fosse condiviso da altri che vi hanno contribuito, con effetto sinergico, non toglie che i maggiori (anche se non unici) beneficiari siano probabilmente le oligarchie finanziarie che hanno lucrato sul cambio di governo.

Ma se così stanno le cose, a che serve, come richiesto da molti, che sulla vicenda s’istruisca un processo? A poco, anzi pochissimo; con la probabilità che sia dannoso.

Vediamo perché. Posto che s’arrivasse ad accertare (tra venti anni o giù di lì) autori, modi, tempi, fini del complotto, l’effetto sarebbe pressoché nullo. Una pura testimonianza storica. Ma non è questo il solo inconveniente, né il principale.

Gli è che tutta la vicenda è politica e come tale non è, per sua natura, idonea ad essere trattata con la carta bollata. Non solo perché in politica la risposta dev’essere pronta, a volte immediata per essere efficace, ma, del pari, perché i “beni protetti” di tutta la vicenda non sono quelli “classici” del diritto penale, come (ad esempio) i diritti personali all’integrità fisica o patrimoniale, ma l’indipendenza nazionale e la sovranità politica. Cioè le condizioni elementari e fondamentali per un’esistenza politica libera. Le quali si conservano non con i giudici e i carabinieri, ma con la volontà di non cedere e la disponibilità a reagire. Scriveva Constant sui colpi di Stato (ma vale anche per questa vicenda) “Ciò di cui c’è bisogno è che le istituzioni siano congegnate in modo tale che le parti politiche siano dissuase dall’usare la forza, che non vi trovino né l’interesse né i mezzi  e che se qualche forsennato li sospinge in questa direzione, la grande maggioranza dei cittadini sia pronta a resistere con la forza all’uso della forza. E’ questo che si chiama spirito pubblico” (1).

In fondo è stato molto più saggio l’elettorato italiano che ha già dato una risposta – eloquente – a sapere e soprattutto a volerla leggere: ha mandato con un mezzo (e un procedimento) politico a casa Monti e fatto esplodere il Movimento  di Grillo: cioè usando lo strumento disponibile, diretto a manifestare la propria volontà di non subire. Sicuramente non basta: ma se così non fosse stato i “congiurati” avrebbero avuto la soddisfazione di aver rubato in casa col consenso (la dabbenaggine) del padrone: e così ricevuto l’invito a riprovarci.

Sull’inidoneità della giustizia ordinaria a trattare di materia politica c’è peraltro tutta una letteratura che va da Machiavelli fino alla dottrina dello Stato borghese di diritto.

Il segretario fiorentino scrive dell’opportunità che l’autorità (a ciò preposta) proceda quando i cittadini “peccarono … contro lo stato libero”. Solo che si tratta di cittadini e non di stranieri; e se i cittadini fossero dei “potenti” occorreva un giudizio (e giudici) speciali “”Perché lo accusare uno potente a otto giudici in una republica  non basta; bisogna che i giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi” (2).

A Robespierre si deve una delle più efficaci argomentazioni sulla “linea divisoria” tra giurisdizione e politica, esposta nel processo a Luigi XVI; a Benjamin Constant d’aver sottolineato l’oggetto e lo scopo primario che pertiene (al potere e) alla responsabilità politica e, quindi alla giustizia politica: che la sanzione idonea per il colpevole è d’allontanarlo dal potere più che affliggerlo con la pena (3).

Basti, tra i tanti inconvenienti che incontrerebbe un processo politico, ricordare quello di eseguire un’eventuale sentenza di colpevolezza. Se quegli altissimi funzionari europei, di cui parla Geithner, fossero la Merkel o Barroso, che si fa: si manda un maresciallo a Berlino o a Bruxelles ad arrestarli? Significherebbe coniugare la velleità delle intenzioni con la comicità dell’impotenza.

Piuttosto che un processo, inutile e inopportuno, occorre che lo spirito pubblico vigili e che sia assicurata una coerente gestione e risposta politica. Uno degli inconvenienti di voler fare processi politici è pensare che questi e relative sanzioni siano la soluzione. L’effetto catartico e fondante del “sacrificio” del potente colpevole può essere iscritto tra le “costanti” della natura umana e della sua essenza politica (á la Girard), ma a patto che il sacrificio si esegua e non che finisca in una “sacra” quanto in definitiva innocua rappresentazione, come sicuramente avverrebbe. Far credere che i custodi del diritto possano esserlo della comunità (e dell’istituzione) significa disabituare i cittadini a prendere in mano il proprio destino di comunità, cioè lo specifico compito del popolo in una democrazia. Nel qual caso sarebbe l’ennesimo tentativo di spoliticizzare il popolo: fargli credere che alla politica si è trovato il surrogato giudiziario; allo spirito pubblico il palliativo delle sentenze.

Un passo ulteriore verso l’irrealtà e l’asservimento.

NOTE

(1)    Principi di politica (a cura di S. De Luca), p. 118, Soveria Mannelli, 2007 (il corsivo è nostro).

(2) vivendo lui male, e per tale mezzo, senza far venire l’esercito spagnuolo, arebbono sfogato l’animo loro” Discorsi, I, VIII.

(3)Ricordiamo “Da tutte le disposizioni precedenti risulta che i ministri saranno spesso denunciati, accusati talvolta, raramente condannati, quasi mai puniti. Tale risultato può, a prima vista, sembrare insufficiente agli uomini i quali pensino che, per i delitti dei ministri come per quelli  degli individui, una punizione positiva e severa è pienamente giusta e assolutamente necessaria. Io non condivido però questa opinione. Mi sembra che la responsabilità debba perseguire soprattutto due scopi: quello di togliere il potere ai ministri colpevoli e quello di mantenere nella nazione, con la vigilanza dei suoi rappresentanti, con la pubblicità dei loro dibattiti e con l’esercizio della libertà di stampa nell’analisi di tutti gli atti ministeriali, lo spirito critico, un interesse abituale alla conservazione della Costituzione dello Stato, una partecipazione costante agli affari, in una parola un sentimento animato della vita politica… Sì: i ministri saranno raramente puniti. Ma se la Costituzione è libera e se la nazione è energica, che importa la punizione di un ministro quando, colpito da un giudizio solenne, è rientrato nella classe volgare più impotente dell’ultimo cittadino dal momento che la disapprovazione lo accompagna e lo perseguita? La libertà è stata egualmente preservata dai suoi attacchi, lo spirito pubblico è stato egualmente raggiunto da una scossa salutare che lo rianima e lo purifica” in Principi di politica (a cura di V. Cerroni) Roma 1970, pp. 130-131.

Teodoro Klitsche de la Grange

lunedì 12 maggio 2014

Ma cosa è un «colpo di Stato»? - Paolo Becchi letto da Teodoro Klitsche de la Grange.

Paolo Becchi, Colpo di Stato permanente, Marsilio Editori, Venezia 2014, pp. 93, € 9,00.

Non è la prima volta, a leggere quanto scrive il prof. Becchi, che si ha l’impressione egli faccia della sottile ironia a carico di chi sostiene delle tesi di cui l’autore coglie – implicitamente – le contraddizioni.

Ciò è confermato da questo agile - e leggibile – libretto. A cominciare dal primo capitolo, dove l’autore s’interroga su che cos’è un colpo di Stato, ed esordisce affermando: “È qualcosa che non riguarda la violazione della legge, di uno o più norme costituzionali: le categorie giuridiche non sono in grado di spiegarlo, perché esso non è un problema di diritto, non ha nulla a che vedere con il rispetto o meno della legalità”; esso è la manifestazione che lo Stato non è solo “di diritto” ma è (anche) un Machstaat, uno Stato di potere (e di potenza) in cui la regola decisiva è quella romana salus rei publicae suprema lex; quindi: “«Salvare lo Stato» a qualunque costo, al di là – e non necessariamente contro (ma anche servendosene) – della legalità, del rispetto della legge. Si tratta di impiegare o non impiegare la legalità, a seconda delle circostanze”; ma che dall’obiettivo – nobile e doveroso – di salvare l’esistenza politica di una comunità (e dell’istituzione relativa) si passi a quello di salvare una classe dirigente inadeguata e decadente è cosa che capita molto spesso, anche nell’Italia di oggi. Scrive Becchi: “Non abbiamo visto, in questi ultimi anni, in Italia, uno Stato che difende la sua Costituzione democratica, ma una serie di organi dello Stato – il presidente della Repubblica per primo, e i «suoi» capi di governo – che hanno utilizzato la legalità, il rispetto formale della Costituzione, al solo scopo di conservare se stessi”.

L’autore ricorda al riguardo tutte le volte in questi anni in cui si è fatto quell’uso strumentale della legalità, teorizzato – tra gli altri – da Lenin (e quel che ricorda è solo una piccola parte – ancorché la più rilevante – delle occasioni in cui ci si è serviti di una legalità formale contro la legittimità e, soprattutto, la “coerenza” democratica del sistema). L’autore indica come regista di questo “colpo di Stato permanente” il Presidente della repubblica, cui fa carico di aver istituito di fatto una nuova forma di governo; un presidenzialismo surrettizio al posto della repubblica parlamentare. Le varie vicende ricordate dall’autore di questi ultimi anni: il distacco di Fini da Berlusconi, la tempesta finanziaria dell’estate-autunno 2011, la nomina di Monti (e le manovre che l’hanno preceduta), poi di Letta, la rielezione di Napolitano, la “fine” di Berlusconi, sarebbero tutte guidate da Napolitano in vista di una forma di governo che marginalizzi il voto popolare (cioè non democratica o meno democratica).

A questo punto occorrono due notazioni. Se fosse vero che la nostra Costituzione è “la più bella del mondo” (col messaggio sottinteso: allora perché cambiarla?), nulla quaestio. Ma dato che le Costituzioni non si misurano secondo la bellezza, ma con la capacità di assicurare un’esistenza durevole ed indipendente alle comunità cui danno forma politica, che dire di una Costituzione la quale può funzionare – passabilmente – solo a prezzo di un elevato tasso di deroga? Deroghe (e violazioni) che possono essere poste in essere per fini poco encomiabili (quelli ricordati dall’autore) ma potrebbero esserlo anche per scopi condivisibili e dettati dalla necessità che, come sosteneva un acuto giurista come Santi Romano è fonte autonoma di diritto, superiore alla legge. È il risultato della deroga – e il consenso che ottiene – a decidere il successo della “rottura” costituzionale. Nella specie, i risultati di quelle di cui tratta Becchi sono stati – a dir poco – deludenti: il prof. Monti si affannava a ripetere che, senza la sua azione di governo, le cose sarebbero andate peggio, come in Grecia (o giù di li). Ma a parte che tutti possano immaginare che le cose vadano peggio, finora si è constatato che, accanto a qualche cosa buona, quel governo non ci ha dato né meno debito pubblico, né più occupazione: gli obiettivi essenziali sono stati mancati. La deroga del governo “tecnico”, e in effetti extraparlamentare non ha reso poi quel che promise allor. Ma se è vero che, come scrive l’autore. l’incarico a Monti “è stato un coup d’État deciso dai «poteri forti» in parte estranei al nostro Paese e guidato dal presidente della Repubblica”, c’è da chiedersi in che misura quella necessità è stata provocata anche da una Costituzione formale, nella quale  per paura di un governo forte (memori, i costituenti, dell’esperienza fascista) si è dato spazio ai poteri forti (interni e non) che, alla fine, hanno deciso loro, e non il popolo italiano, chi dovesse governare. Non si è tenuto conto della metafora dell’abisso di de Maistre: che un governo non abbastanza forte per opprimere, può divenire debole per proteggere. Il quale così ci ha protetto trasferendo ricchezza, sotto forma di maggiori imposte prelevate ai cittadini, alla banca e alla finanza (interna ed internazionale) quali maggiori interessi sul debito pubblico.

La seconda: Becchi in altre occasioni (e, anche se marginalmente, in questa) ha rilevato come i clercs della costituzione, cioè i costituzionalisti, siano poco sensibili ad argomentazioni del tipo di quelle svolte in questo libro. In effetti, tale menda non è solo dei costituzionalisti. A cercare di far credere agli italiani che si possa  vivere in pace, senza nemico e conflitto solo ad osservare morale, legalità e ad essere animati da bontà e disponibilità al prossimo sono nell’ordine: politici, finanzieri, industriali, giornalisti, sindacalisti e così via. In una parola la grande maggioranza della classe dirigente: il “buonismo” – in senso lato – è un’infezione diffusa. Secondo Pareto e Mosca è un’attitudine tipica delle élites decadenti. Le quali, così predicando, operano per la perdita del senso politico; che è, in primo luogo, l’individuazione del nemico e del conflitto, per i quali i buoni predicatori affermano di aver trovato la soluzione definitiva. Ma siccome l’uno e l’altro si ostinano ad essere parte della realtà, chi predica il contrario emascula un popolo, e lo rende incapace di esistenza politica. Per cui in questi frangenti, il cambiamento, anche radicale, diventa necessità, e l’inizio di un nuovo modo di vita della comunità.
Teodoro Klitsche de la Grange


mercoledì 7 maggio 2014

Giuseppe Guarino: «Cittadini europei e crisi dell’euro», recensito da Teodoro Klitsche de la Grange

Giuseppe Guarino, Cittadini europei e crisi dell’euro, Editoriale scientifica, Napoli 2014, pp. 185, € 14,00.

Questo è un libro denso di idee, e quel che parimenti interessa, aderenti alla realtà: quella da cui molti giuristi, in specie quelli più à la page, rifuggono.

È scritto da un giurista dotato di visione non limitata al proprio ambito scientifico (in genere strettamente inteso). La cui tesi di fondo è che i guai provocati dall’euro (che siano guai è sicuro, e Guarino cita – all’uopo - ripetutamente i dati, drammaticamente sconfortanti, della stagnazione dei paesi dell’area “euro”), siano dovuti ad un regolamento, illegale perché contrario al TUE (Maastricht), che ha realizzato un vero e proprio golpe. Scrive l’autore “Il golpe è stato attuato a mezzo del reg. 1466/97. Per la formazione del regolamento, come si è detto, si è fatto ricorso alla procedura di cui agli artt. 103, n. 5 e 189 c) TUE che, nello stesso momento in cui è stata utilizzata, è stata anche violata perché ce se ne è avvalsi per uno scopo diverso dall’unico previsto.

La procedura di cui agli artt. 103, n. 5 e 189 c) TUE in nessun modo avrebbe potuto essere impiegata per modificare norme fondamentali del Trattato. L’essersene avvalsi configura una ipotesi non di semplice illegittimità, bensì di incompetenza assoluta. Gli atti adottati sono di conseguenza non illegittimi, ma nulli/inesistenti”. Il che comporta, a ragionare con precisione e consequenzialità giuridiche, la responsabilità degli organi dell’Unione e delle persone fisiche che lo hanno posto in essere. Per cui abrogare il predetto regolamento attraverso un contrarius actus non è nulla di illegale o illegittimo, ma è semplicemente il ripristino di una situazione di legalità internazionale, perché le norme votate dal regolamento 1466/97 sono disposizioni di Trattato internazionale. Ma cosa ha prescritto il regolamento 1466/97 in violazione sia delle norme dei Trattati sia degli obiettivi dell’Unione, come dei diritti degli Stati? Scrive Guarino: “Quanto all’Unione è stato modificato, in modo radicale ed irreversibile, l’obiettivo principale, consistente (artt. 2 e 3 TUE) nel conseguimento di uno sviluppo dalle caratteristiche e secondo le modalità previste nei suddetti articoli e nell’aver abrogato, per aver regolato in modo diverso la intera materia, l’art. 104 c) TUE, contenente la disciplina dei mezzi di cui gli Stati si sarebbero potuti avvalere per l’adempimento all’obbligo di promuovere sviluppo.

Quanto agli Stati la illecita variazione consiste nell’averli privati, con l’abrogazione degli artt. 102 A, 103, 104 c) TUE, nonché degli altri connessi, a mezzo di norme (quelle del reg. 1466/97) regolanti in modo diverso l’intera materia , degli unici poteri politici ad essi attribuiti in funzione alla conduzione economica dell’Unione”, e aggiunge l’autore che ciò “ha inciso sul carattere fondamentale dell’Unione, in assenza del quale gli Stati non sarebbero stati legittimati a parteciparvi, quello della democraticità. È l’affermazione che tra tutte genera la massima incredulità”.

L’acuto giurista sostiene che, per rimediare, e data la comprovata dannosità dell’attuale disciplina dell’euro, tra l’altro non conforme al TUE, ma in violazione dello stesso, occorre,per i paesi a rischio, un’uscita concertata dalla moneta unica, che non ha nulla di illegale, dato che significa il passaggio da paese senza deroga a paese con deroga, come ce ne sono – allo stato – undici nell’U.E. La soluzione migliore sarebbe che lo facessero di concerto quattro o cinque Stati. Meglio se tra i promotori ci fossero la Francia e l’Italia.

Ci sono tante cose in questo libro, e con dispiacere il recensore, ratione officii le  deve tralasciare per concentrarsi su due che colpiscono più di altre i giuristi, e che sottolinea per i lettori.

La prima che Guarino, a proposito della disciplina dell’euro, la definisce robottizzata: ossia di una moneta che non ha – sopra – un vertice politico decidente e decisivo, ma solo una regolazione normativa. Ma se è così (e così è) la regolamentazione dell’euro ha un pregio: verificare sul piano fattuale la non praticabilità di un assetto fondato sulla perfezione (bontà, saggezza) della normazione, senza un potere che diriga e all’occorrenza ne deroghi. L’idea del nomos basileus applicata, nel caso, alla moneta comune, si è rivelata illusoria. Il pensiero va a de Maistre e al suo giudizio tranchant  “il n’est pas au pouvoir de l’homme de créer une loi qui n’ait besoin d’aucune axception”. L’eccezione  serve di tanto in tanto: ma la necessità di adeguarsi ai cambiamenti è costante. E la regolamentazione dell’euro non ne ha tenuto conto; essendo stato pensato (e ri-pensato) in un periodo di cambiamento, ha una disciplina che poteva essere congrua in periodi di stabilità – come quello dalla fine del secondo conflitto mondiale al crollo del comunismo – non lo è quando la situazione si “mette in movimento” (ossia negli ultimi vent’anni), per cui occorrono flessibilità, adeguamenti; cioè decisioni. Il tutto ricorda la critica che un altro acuto giurista, Hauriou, rivolgeva ad Hans  Kelsen e al normativismo: che il giurista austriaco aveva immaginato un sistema statico, e per ciò inadatto alla vita, che è movimento ed alla quale il diritto si deve adeguare.

Ma come ci si può adeguare se il potere “adeguatore”, cioè quello politico, manca? Essere guidati dall’impersonalità della norma, piuttosto che dalla personalità della decisione è una prospettiva forse seducente, ma del tutto irreale, come salire su un automobile senza conducente:prima o poi si va a sbattere. É quello che hanno constatato gli europei. Si è sognata – nel XX secolo, la “Costituzione senza sovrano” (Kirkheimer – e tanti altri, dopo) per verificare che senza sovrano  non può funzionare neppure la moneta.

La seconda: a prescindere dalla lettera della normativa, farcita di buone ed appetibili intenzioni è al contenuto effettivo, e al senso delle norme che deve guardarsi. Come scrive Guarino “la modifica introdotta dal reg. 1466/97 rispetto al TUE (Maastricht), sul piano formale, è consistita nell’abrogazione di un diritto-potere, quello degli Stati di concorrere alla crescita con la propria “politica economica”, concorrendo così anche alla crescita dell’Unione, sostituendola con un obbligo/obbligo, gravante sugli Stati, avente come contenuto il pareggio del bilancio a medio termine, da conseguirsi nel rispetto di un programma predeterminato. Gli elaboratori delle norme non si sono resi conto delle conseguenze che sarebbero derivate dall’aver messo a base del sistema, un “obbligo” al posto di un “potere”. Di conseguenza il sistema ha leso la libertà degli Stati, ossia delle comunità di decidere come, quanto e in quali direzioni crescere. La libertà politica comunitaria è in primo luogo quella di scegliere scopi, mezzi e forme del vivere comune e si chiama sovranità; adesso non “va di moda” ma non se ne può prescindere, ancor meno di quanto si possa fare a meno della libertà individuale.

Nel complesso un libro che si consiglia di leggere dato il surplus di idee che lo connota. In un coro di banali cortigianerie agli idola ed ai potenti (economici, burocratici e politici) di turno sentire qualcuno che non canta nel coro (ed è molto intonato) è salutare e necessario. 

                                                             
                                                Teodoro Katte Klitsche de la Grange